Strangolata da Israele per decenni, il futuro di Gaza deve iniziare con la libera circolazione

Lavoratori palestinesi al valico di Erez a Beit Hanoun, nel nord della Striscia di Gaza, in attesa di entrare in Israele per lavoro, 13 marzo 2022(Attia Muhammed/Flash90)

di Noa Galili,  

+972 Magazine, 10 marzo 2024. 

Israele continua a sottrarsi alla sua responsabilità per Gaza, nonostante la sottoponga a chiusure, permessi e assalti. Il ritorno a queste politiche non è un’opzione.

Negli ultimi mesi, l’attenzione dei media internazionali è stata giustamente dedicata alle dimensioni senza precedenti della morte e della distruzione provocate dall’esercito israeliano nella Striscia di Gaza. I notiziari quotidiani si sono occupati sempre di più della privazione di ciboacquamedicine e altri beni di prima necessità a causa dell’intensificarsi dell’assedio imposto da Israele subito dopo gli attacchi del 7 ottobre guidati da Hamas.

Tuttavia, gran parte di questa attenzione tende a considerare le attuali politiche di restrizione e privazione in modo isolato. Questo è un grave errore.

In realtà, la morsa israeliana sui palestinesi di Gaza è stata gradualmente rafforzata nel corso di decenni, come uno strumento di controllo, pressione e punizione collettiva. Anche in tempi “ordinari”, tra le periodiche offensive militari nella Striscia, le ampie restrizioni di Israele alla circolazione delle persone e delle merci hanno a lungo minato le basilari condizioni di vita a Gaza e violato altri diritti umani che ne dipendono, come il diritto alla vita familiare, all’istruzione, alle cure mediche e al raggiungimento di adeguati mezzi di sussistenza.

La situazione catastrofica di oggi deve essere vista nel contesto delle politiche israeliane precedenti al 7 ottobre, anche per quanto riguarda la libertà di movimento dei palestinesi tra Gaza, Israele e Cisgiordania. Per oltre mezzo secolo, la violenza dell’occupazione in corso, i ripetuti assalti militari e la “politica di separazione” tra Gaza e la Cisgiordania hanno creato una striscia di terra spezzata e sanguinante. Queste politiche hanno prodotto e mantenuto un disastro umanitario, separato i palestinesi di Gaza da quelli di Israele e della Cisgiordania e promosso gli obiettivi politici e demografici illegittimi di Israele.

La nascita di un regime di permessi

La Striscia di Gaza non è mai stata concepita per esistere come unità territoriale distinta. Nella sua piccola area non ci sono risorse sufficienti per sostenere un’economia indipendente, e certamente non l’economia di 2,3 milioni di persone che sono private del diritto fondamentale di muoversi liberamente. Ma per decenni, le restrizioni israeliane alla circolazione di persone e merci hanno portato al deterioramento delle condizioni di vita nella Striscia e l’hanno isolata dal mondo esterno.

Nel 1948, circa 200.000 rifugiati della Nakba provenienti da tutta la Palestina furono costretti a fuggire in quella che divenne la Striscia di Gaza. Ciò ha quasi quadruplicato la popolazione dell’area, che fino ad allora si era concentrata principalmente nell’antica città di Gaza City. La crisi umanitaria provocata da questo improvviso afflusso di rifugiati persiste tuttora.

Bambini palestinesi in un campo profughi di Gaza, 1 novembre 1956. (Pridan Moshe/GPO)

Da quando ha occupato la Cisgiordania e Gaza nel 1967, l’esercito israeliano ha sviluppato un complesso sistema di regole e sanzioni per controllare gli spostamenti dei milioni di palestinesi che vivono in queste aree, così come quelli che vivono all’interno dei confini di Israele del 1948. Inizialmente, Israele ha istituito un “permesso generale di uscita”, che consentiva ai palestinesi di viaggiare relativamente liberi tra Israele e i territori occupati, ma questo è stato cancellato nel 1991.

Al suo posto, Israele ha iniziato a richiedere ai palestinesi di ottenere permessi di viaggio individuali dalle autorità israeliane, stabilendo così il regime di permessi attraverso il quale ha continuato a limitare il movimento e l’accesso dei palestinesi fino ad oggi. Come era prevedibile, ciò ha portato a una costante diminuzione degli spostamenti da e verso Gaza.

Nel 1993, durante il processo di Oslo, Israele dichiarò per la prima volta una chiusura generale di settimane del territorio occupato, bloccando tutti gli spostamenti, indipendentemente dal loro scopo. Poco dopo, ha iniziato a costruire una recinzione elettrica e segmenti di un muro di cemento che circonda la Striscia di Gaza.

Queste tendenze sono peggiorate dopo il fallimento dei negoziati di Camp David e lo scoppio della Seconda Intifada alla fine del 2000. Nei mesi precedenti l’inizio dell’Intifada, più di 26.000 residenti di Gaza erano in possesso di permessi per lavorare in Israele, registrando circa 500.000 uscite mensili verso Israele attraverso il valico di Erez. Dopo lo scoppio dell’Intifada, Israele ha revocato e cancellato numerosi permessi di viaggio, non solo come metodo per contrastare le minacce alla sicurezza, ma anche come strumento di punizione collettiva.

Nel primo anno della Seconda Intifada, il valico di Erez era chiuso ai palestinesi per il 72% del tempo. Alla fine del 2000, il numero di residenti in possesso di permessi di lavoro israeliani era sceso a meno di 900.

Lavoratori palestinesi riuniti nella sala d’attesa per entrare nel valico di Erez riaperto verso Israele, dopo che Israele ha posto fine al divieto per i lavoratori di Gaza, a Gaza City, 28 settembre 2023. (Atia Mohammed/Flash90)

L’illusione del “disimpegno”

Dopo l’attuazione del “piano di disimpegno” israeliano alla fine dell’estate 2005, molti israeliani e internazionali hanno falsamente creduto che Israele avesse rinunciato al suo controllo su Gaza, liberandosi così delle responsabilità che doveva ai residenti della Striscia in quanto potenza occupante.

Ma nonostante il ritiro delle truppe e dei suoi cittadini dall’enclave, Israele ha continuato a esercitare il controllo su quasi tutti gli aspetti della vita a Gaza, in virtù delle continue restrizioni alla circolazione di persone e merci dentro e fuori la Striscia.

Dopo la vittoria di Hamas alle elezioni parlamentari palestinesi del 2006, Israele ha inasprito ulteriormente queste restrizioni, imponendo una chiusura totale. L’ingresso di merci a Gaza è stato limitato a quello che Israele ha definito il “minimo umanitario”. L’uscita di merci dalla Striscia per essere commercializzate in Israele e in Cisgiordania – verso cui Gaza aveva esportato fino ad allora l’85% delle sue merci – fu completamente proibita. L’ingresso di carburante è stato sostanzialmente ridotto. E il movimento di persone in entrata e in uscita da Gaza è stato rallentato fino a fermarsi quasi del tutto.

Nel settembre 2007, pochi mesi dopo che Hamas aveva preso il controllo esclusivo della Striscia, il gabinetto israeliano ha dichiarato Gaza “territorio ostile“. Da quel momento, Israele ha insistito sul fatto che non ha alcun obbligo di consentire un accesso umanitario, anche minimo, alla Striscia o dalla Striscia – e che qualsiasi decisione in tal senso viene presa ex gratia, non come risultato di un obbligo legale.

Da allora Israele ha applicato restrizioni di viaggio radicali che hanno bloccato l’accesso dei residenti di Gaza all’impiego, all’istruzione e alle cure mediche, nonché ai loro familiari che vivono in Israele, in Cisgiordania e all’estero. Israele ha anche limitato severamente l’ingresso di merci a Gaza.

Camion con aiuti umanitari arrivano al lato palestinese del valico di frontiera di Kerem Shalom, nel sud della Striscia di Gaza, 18 dicembre 2023. (Abed Rahim Khatib/Flash90)

Nel 2012, una prolungata battaglia legale da parte di Gisha, l’organizzazione per i diritti umani dove io lavoro, ha portato il Ministero della Difesa israeliano a rivelare un documento intitolato “Consumo di cibo nella Striscia di Gaza – Linee rosse“, che includeva informazioni sulla politica di restrizione dell’ingresso di cibo a Gaza tra il 2007 e il 2010. Il documento conteneva, tra l’altro, calcoli sulla quantità di calorie che potevano entrare a Gaza per ogni residente.

Anche dopo aver ritrattato questa politica, Israele ha continuato a proibire l’ingresso di numerosi articoli e materie prime che ha definito “a doppio uso“, ovvero che Israele considera di uso sia civile che militare. In questo modo sono stati vietati molti beni essenziali per lo sviluppo di infrastrutture civili e per il progresso dell’economia locale, come fertilizzanti, betoniere e qualsiasi tipo di macchinario pesante. Israele ha inoltre continuato a determinare quali prodotti potessero uscire da Gaza, dove potessero essere venduti, in che quantità e quando.

Inoltre, decenni dopo la firma degli Accordi di Oslo, che prevedevano un accordo per il passaggio del controllo del registro della popolazione palestinese all’Autorità Palestinese, Israele continua a controllare il registro nella pratica. In quanto tale, mantiene il potere di designare i palestinesi come residenti di Gaza o della Cisgiordania, dettando loro dove possono vivere, lavorare e formare una famiglia.

Il controllo continuo di Israele su Gaza si estende anche al territorio marittimo e allo spazio aereo della Striscia. Contrariamente agli accordi di Oslo, Israele ha vietato la costruzione di un porto marittimo e impedito la ricostruzione dell’aeroporto internazionale di Gaza, distrutto dai bombardamenti israeliani nel 2001. Ha bloccato lo spazio aereo di Gaza e ha approfondito il controllo sulle telecomunicazioni, limitando le frequenze disponibili in modo da privare i palestinesi delle tecnologie di terza e quarta generazione. Israele applica inoltre con violenza una “zona di pesca” di 10-15 miglia nautiche al largo della costa di Gaza e ha istituito una “zona cuscinetto” lungo la barriera di separazione, limitando l’accesso all’area in cui si trova la maggior parte dei terreni agricoli della Striscia.

Pertanto, nonostante le persistenti affermazioni del contrario, il controllo in corso da parte di Israele equivale di fatto a una continuazione dell’occupazione – e tale controllo comporta obblighi morali e legali nei confronti della popolazione civile. Ma invece di riconoscere il suo dovere fondamentale di proteggere i diritti umani dei palestinesi, Israele ha costantemente disconosciuto la sua responsabilità e ha optato per la punizione collettiva e la guerra economica, in violazione del diritto internazionale.

Veicoli militari israeliani vicino alla barriera tra Israele e Gaza, 28 febbraio 2024. (Tomer Neuberg/Flash90)

Isolamento, separazione e frammentazione

La recinzione di Gaza è sempre stata parte di una più ampia serie di restrizioni alla circolazione, imposte come parte della “politica di separazione” di Israele, il cui obiettivo è isolare e separare il territorio dalla Cisgiordania e da Israele. Israele ha giustificato questa politica come una necessità di sicurezza, ma le sue ampie restrizioni su viaggi e merci non possono essere spiegate solo con la sicurezza.

Piuttosto, queste restrizioni sono imposte per portare avanti gli obiettivi politici e demografici illegittimi di Israele: minare le istituzioni nazionali che avrebbero dovuto sostenere uno stato palestinese; frammentare la società palestinese e la sua economia; promuovere l’annessione de facto della Cisgiordania e limitare l’accesso dei palestinesi ad essa; e mantenere il controllo israeliano sulla regione nel suo complesso.

Come risultato di questa politica, l’economia palestinese è stata di fatto divisa tra Gaza e la Cisgiordania. Agli studenti di Gaza è stato impedito di studiare nelle università della Cisgiordania. Le équipe mediche, gli accademici, i dipendenti delle organizzazioni della società civile e i professionisti di ogni settore non potevano viaggiare tra le due aree, nemmeno per riunioni o corsi di formazione. Le famiglie divise tra Gaza e la Cisgiordania non potevano ricongiungersi, se non nelle circostanze più urgenti.

Negli ultimi anni, i pochi palestinesi che hanno ottenuto il permesso di lasciare Erez appartenevano tutti a una o più di tre categorie: commercianti o lavoratori (soggetti a quote ristrette dettate da Israele), pazienti (e i loro accompagnatori) che necessitano di cure mediche urgenti non disponibili a Gaza, e una manciata di altri casi definiti “umanitari ed eccezionali”, come persone che cercano di partecipare a un matrimonio, visitare un parente malato o partecipare a un funerale – ma solo per un familiare di primo grado.

Anche i viaggi attraverso l’Egitto, l’altro vicino di Gaza, sono stati limitati nel corso degli anni, così come è stato limitato l’accesso alle merci. Anche l’Egitto ha degli obblighi nei confronti dei palestinesi di Gaza derivanti dalla sua vicinanza fisica, tra cui quello di facilitare l’accesso umanitario e, come ogni altro paese al mondo, di prevenire attivamente le violazioni del diritto internazionale. Ma a differenza di Israele, l’Egitto non ha obblighi nei confronti dei palestinesi in base alla legge sull’occupazione, né controlla l’accesso dei residenti di Gaza alle altre parti dei territori occupati.

I tentativi di deviare la responsabilità all’Egitto – un tropo comune e di lunga data nel discorso israeliano – fanno parte di un progetto più ampio di oscurare e sottrarsi alle responsabilità di Israele nei confronti dei residenti di Gaza. Indipendentemente dalle politiche egiziane nei confronti della Striscia, Israele ha il dovere, come minimo, di consentire l’accesso a tutto ciò che è necessario per garantire condizioni di vita normali a tutta la popolazione sotto il suo controllo.

A cinque mesi dalla guerra più sanguinosa e distruttiva che Gaza abbia mai conosciuto, è difficile ma di vitale importanza ricordare che qualsiasi piano per il “giorno dopo” deve includere il libero accesso tra Gaza, Israele, la Cisgiordania e il resto del mondo. Tornare allo status quo ante – una vita di chiusure, separazioni, permessi e guerre infinite – non è un’opzione.

Le minacce israeliane di tagliare fuori Gaza “in modo permanente” possono derivare dalla paura, ma così facendo non renderanno nessuno più sicuro. Il futuro di tutte le persone che vivono tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo dipende dalla libertà e dai diritti umani, compresa la libertà di movimento, per tutti.

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10/3/2024 https://www.assopacepalestina.org/

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

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