Studiare in Italia? cronache di una morte annunciata
Matteo Saudino, Francesco Prandel, Gian Antonio Stella, Roars, Angelo Vitolo, Paola Lattaro, Giuseppe Bagni, Fabrizio Marchi, Alessandro Giarrettino, Michele Lucivero, Andrea Petracca evidenziano alcuni gravissimi problemi della scuola e dell’università
Didattica digitale: un disastro annunciato – Francesco Prandel
Lettera aperta ai Dirigenti Scolastici e al Dirigente Generale del Dipartimento Istruzione e Cultura
Cari Dirigenti,
scrivo questa lettera aperta per conoscere la vostra posizione, e le vostre intenzioni, in merito alla digitalizzazione della didattica.
Con l’avvento della “buona scuola” di Matteo Renzi, dal Ministero in giù si sono iniziate a celebrare le potenzialità e le virtù della didattica digitale. Le scuole di ogni ordine e grado si sono dotate di registri elettronici, di tablet, di lavagne multimediali, e il digitale è divenuto la nuova frontiera dell’insegnamento.
Dal punto di vista scientifico la didattica digitale non solo deprime l’apprendimento, ma arreca anche gravi disturbi fisici, neurologici, cognitivi e comportamentali agli studenti. È quanto sostiene, nel suo libro “Il cretino digitale”, il neuro-scienziato francese Michel Desmurget:
«per quel che riguarda l’uso ricreativo degli schermi, infatti, la scienza evidenzia una lunga lista di influenze deleterie, tanto per il bambino quanto per l’adolescente. Influenze che colpiscono tutti i capisaldi dello sviluppo, da quello somatico, ossia il corpo (con effetti, per esempio, sull’obesità o la maturazione cardiovascolare), fino a quello emotivo (per esempio l’aggressività o la depressione), passando per quello cognitivo, detto anche intellettuale (per esempio il linguaggio o la concentrazione). Le ripercussioni sono tantissime e influiscono anche sul rendimento scolastico. Sembrerebbe infatti che l’uso del digitale fatto in classe, con fini educativi, non sia più benefico degli altri. Le famose indagini internazionali PISA ce lo confermano con risultati a dir poco spaventosi».
Qui Desmurget si riferisce a un’indagine condotta dai Paesi OCSE nel 2012. Nella quale, tra l’altro, si mostra come i Paesi membri che hanno investito di più nella didattica digitale sono quelli che hanno avuto i risultati scolastici più deludenti.
Così, mentre i giovani scontano gli effetti deleteri della sovra-esposizione a schermi a fini ricreativi, cosa fa la scuola? Digitalizza la didattica: in questo modo la sovra-esposizione a schermi viene promossa a iper-esposizione per mano della scuola stessa.
“Demenza digitale” è una locuzione coniata in Corea del Sud, il Paese all’avanguardia nella digitalizzazione della didattica. Ma è anche il nome di una patologia, e il titolo di un libro pubblicato del neuro-scienziato tedesco Manfred Spitzer, che dirige la Clinica Psichiatrica e il Centro per le Neuroscienze e l’Apprendimento dell’Università di Ulm. A chi non avesse tempo di leggerlo segnalo un documento di tre facciate, «Sull’impatto del digitale sugli studenti, con particolare riferimento ai processi di apprendimento», un’indagine conoscitiva condotta dal Senato nel 2021. Ne riporto qualche estratto. «Ci sono i danni fisici: miopia, obesità, ipertensione, disturbi muscolo-scheletrici, diabete. E ci sono i danni psicologici: dipendenza, alienazione, depressione, irascibilità, aggressività, insonnia, insoddisfazione, diminuzione dell’empatia. Ma a preoccupare di più è la progressiva perdita di facoltà mentali essenziali, le facoltà che per millenni hanno rappresentato quella che sommariamente chiamiamo intelligenza: la capacità di concentrazione, la memoria, lo spirito critico, l’adattabilità, la capacità dialettica… Sono gli effetti che l’uso, che nella maggior parte dei casi non può che degenerare in abuso, di smartphone e videogiochi produce sui più giovani. Niente di diverso dalla cocaina. Stesse, identiche, implicazioni chimiche, neurologiche, biologiche e psicologiche. È quanto sostengono, ciascuno dal proprio punto di vista «scientifico», la maggior parte dei neurologi, degli psichiatri, degli psicologi, dei pedagogisti, dei grafologi, degli esponenti delle Forze dell’ordine auditi. Un quadro oggettivamente allarmante, anche perché evidentemente destinato a peggiorare. […] Per quest’insieme di ragioni, non è esagerato dire che il digitale sta decerebrando le nuove generazioni, fenomeno destinato a connotare la classe dirigente di domani. […] Dal ciclo delle audizioni svolte e dalle documentazioni acquisite, non sono emerse evidenze scientifiche sull’efficacia del digitale applicato all’insegnamento. Anzi, tutte le ricerche scientifiche internazionali citate dimostrano, numeri alla mano, il contrario. Detta in sintesi: più la scuola e lo studio si digitalizzano, più calano sia le competenze degli studenti sia i loro redditi futuri».
Dunque, le istituzioni sono perfettamente al corrente della gravità della situazione. Ma invece di correre ai ripari, invece di «incoraggiare, nelle scuole, la lettura su carta, la scrittura a mano e l’esercizio della memoria» come consiglia l’indagine appena citata, promuovono ed esaltano la didattica digitale.
A chi abbia conservato un minimo di autonomia di giudizio, questa situazione non può che apparire surreale. Ma è sufficiente andarsi a leggere il “Piano scuola 4.0” per rendersi conto di quanto sia reale l’avanzata della didattica digitale, e dunque ingente il danno che la scuola sta arrecando agli studenti. Un danno che il PNRR sta portando a livelli parossistici, proprio perché vincola le scuole a mettere in atto forme sempre più spinte di didattica digitale.
Il conflitto d’interessi legato alla didattica digitale è tanto palese quanto sottaciuto. Da una parte i profitti esorbitanti dei colossi del digitale. I quali, come è noto, perseguono i loro obiettivi infiltrando le istituzioni e comprandone i vertici. Dall’altra la missione della scuola, che è quella di mettere gli studenti nelle migliori condizioni per crescere culturalmente e intellettualmente. Per “saper leggere il libro del mondo”, come cantava Fabrizio De Andrè.
Gli interessi delle multinazionali dell’informatica confliggono con quelli dei giovani anche fuori dalla scuola. Basti pensare al fenomeno degli “hikikomori”, o ritirati sociali. Il termine, di origine giapponese, indica in genere adolescenti che hanno sviluppato una tale dipendenza da videogiochi, social media e internet che non escono più dalle loro stanze. Molti di loro arrivano persino ad abbandonare la scuola. Solamente in Italia sono stati accertati 120.000 casi. Il fenomeno è in crescita e, dietro a ciascuno di questi casi, c’è una famiglia in preda alla disperazione. Una famiglia lasciata sola dalle stesse istituzioni che, perseverando nel celebrare la digitalizzazione, riempiono di schermi persino le scuole, come se fuori non ce ne fossero già fin troppi. Tenendo presente che sul fenomeno “hikikomori” non c’è ad oggi una vigilanza attiva, e che in genere la vigilanza passiva rileva dall’uno al dieci per cento dei casi effettivi, ci si rende facilmente conto del fatto che si tratta di una piaga sociale di proporzioni spaventose. Centinaia di migliaia di giovani che stanno morendo dentro. Non dentro la loro stanza, dentro il loro animo. Perché un adolescente che non riesce più ad uscire dalla sua stanza, non è poi così diverso da un adolescente sepolto nella sua bara. Non sarebbe forse il caso che, almeno a scuola, gli schermi rimangano accesi solo per il tempo strettamente necessario?
Vi prego, cari Dirigenti, non sottraetevi alle vostre responsabilità rispondendo che siete tenuti a seguire le direttive ministeriali. Se lo faceste, data la gravità della situazione non sareste poi così diversi da quegli ufficiali che, eseguendo gli ordini senza discuterli, si sono resi complici di massacri e disastri. E, per favore, non rispondete che «occorre educare i giovani all’uso consapevole di questi strumenti». Chiamare “strumenti” i dispositivi digitali vuol dire, come minimo, non aver compreso la portata della problematica: «lo smartphone, ormai, non è più uno strumento, ma è diventato un’appendice del corpo» si legge nell’indagine sopra citata. E il fatto che la scuola promuova “l’uso consapevole” di qualcosa che ha le «stesse, identiche, implicazioni chimiche, neurologiche, biologiche e psicologiche della cocaina» deve far riflettere. Così come, a livello locale, debbono far riflettere i numeri recentemente forniti dal dottor Stefano Calzolari, direttore dell’Unità operativa di neuropsichiatria infantile territoriale dell’APSS. Numeri che mostrano un incremento allarmante dei disturbi dell’apprendimento e dei disagi psicologico-sociali. Sarebbe senz’altro riduttivo imputare il dilagare dei disturbi segnalati da Calzolari solamente all’invasione di schermi cui abbiamo assistito nell’ultimo decennio. Ma negare che l’abuso delle tecnologie digitali – fuori e dentro la scuola – stia contribuendo ad aggravare la situazione, vuol dire negare l’evidenza, cioè assumere il più antiscientifico degli atteggiamenti. «Oggi un docente non può ignorare i risultati scaturiti dalla scienza empirica e dagli studi teorici» ha recentemente affermato Paolo Pendenza, presidente dell’Associazione Nazionale Presidi per il Trentino. E un Dirigente Scolastico, può ignorarli?
Il turismo dei diplomifici. Pochi giorni di frequenza e «rette» fino a 10mila euro per una maturità facile – Gian Antonio Stella
Mandereste vostro figlio a fare la maturità in una scuola tanto al chilo? Eppure così appaiono certi istituti paritari denunciati in un dossier di Tuttoscuola. Una rete di diplomifici che sfornano ogni anno migliaia di «titoli» buoni per i concorsi pubblici e si vantano online di «rilasciare certificati in media in un giorno» e di «irradiarsi in tutta la penisola con centri di ascolto» e di scansare perfino l’obbligo più ovvio: quello di frequentare almeno una parte delle lezioni. Alla faccia del «merito».
Sia chiaro: il rapporto «Maturità: boom dei diplomi facili» (frutto d’un lavoro capillare sui numeri ufficiali e in uscita oggi a ridosso dei risultati sugli esami di maturità appena pubblicati dal ministero regione per regione) non fa nomi. E il direttore Giovanni Vinciguerra si rifiuta di puntare l’indice su questo o su quell’istituto: «È il sistema con le sue regole a consentire storture indecenti». Incrociando i dati e le «promesse» contrattuali offerte sul mercato agli aspiranti diplomandi, però, sul web si trova di tutto. Compresi indirizzi che si sdoppiano e si moltiplicano e rimandano nelle «street view» di Google map a sgarrupate periferie metropolitane, orrendi «bassi» popolari e talora vere e proprie catapecchie: muri scrostati, grondaie arrugginite, mattonelle divelte, spiazzi ingombri di sterpaglie.
Guai a fare d’ogni erba un fascio: la larga maggioranza delle «paritarie» italiane, quattro quinti, è estranea allo spaccio di attestati. I diplomifici, però, ci sono. Al punto di dar vita addirittura a fenomeni di «turismo diplomante». E sono riconoscibili per una caratteristica: hanno pochi o pochissimi studenti iscritti fino alla vigilia della prova finale per il pezzo di carta utile per i concorsi pubblici e poi iscritti che miracolosamente si moltiplicano tra il quarto e il quinto anno. Un’impennata che nell’ultimo anno scolastico è arrivata a uno stratosferico +166%. Con punte paradossali.
Un esempio? Quello di un istituto «passato da 11 iscritti in quarta a 296 l’anno dopo in quinta»: ventisette volte di più. Tutto «normale»? «Un altro istituto ha complessivamente avuto negli ultimi sei anni soltanto 31 studenti iscritti al quarto anno, diventati in tutto 1.083 al quinto con un incremento di 1.052 iscritti nel sessennio (+3.194%)». Un altro ancora partito da 138 è salito nello stesso periodo, sempre per il 5° anno, a 1.388: «Ipotizzando una retta media di 5 mila euro, i ricavi di questo istituto solo per le iscrizioni al 5° anno sfiorerebbero in sei anni i 7 milioni».
In realtà, come dicevamo, il fenomeno riguarda sì migliaia di persone più o meno giovani appartenenti all’Italia intera e disposte a farsi anche centinaia di chilometri e un po’ di giorni in trasferta (spostamento del domicilio incluso!) per «frequentare» almeno in minima parte le scuole cui si sono iscritte. Ma queste scuole accuratamente scelte per ottenere la benedetta pergamena sono 92. Una quota minore ( il 6,5%) delle 1.423 «paritarie» che portano gli studenti all’esame di maturità. Ma concentrata in una roccaforte: «Il 90,5% dei 10.941 nuovi iscritti sono in istituti paritari della Campania. Il 6,3% in istituti del Lazio. Il 3,2% in istituti della Sicilia. Stop: nessuno è localizzato in altre regioni d’Italia». In pratica, su oltre un centinaio di province italiane quei 92 «paritari» sono concentrati in nove: tutte quelle della Campania più quelle laziali di Roma e Frosinone e quelle siciliane di Palermo e Agrigento». Sintesi finale: su 356 «paritari» in Campania quelli finiti nel dossier sono 82. Quasi uno su quattro. Un’enormità.
Una progressione inarrestabile: dal 2015/16 fino a questo anno scolastico «l’incremento di iscritti a livello nazionale nelle paritarie tra il quarto e il quinto anno delle superiori è stato di 166.314». Oltre 105 mila in Campania, gli altri in tutte le altre regioni messe insieme. Un caso? Dice il Dpr 122/2009 che «ai fini della validità degli anni scolastici, compreso l’ultimo anno di corso (…) è richiesta la frequenza di almeno tre quarti dell’orario annuale». Ma in realtà «in base a quanto risulta da contratti per l’iscrizione nella scuola visionati da «Tuttoscuola», in molti casi sono esplicitamente previste nel corso dell’anno scolastico trasferte di 48-72 ore presso l’istituto dove si svolgerà l’esame finale per un numero di visite che si conta sulle dita di una mano».
Un weekend ogni tanto… «La violazione di legge sulla frequenza per almeno tre quarti dei giorni di lezione messa in atto quasi sempre dagli istituti in odore di diplomificio è la loro carta vincente verso la clientela». Pronta a pagare, stando ai tariffari on-line, «una cifra compresa tra i 1.500 e i 3.000 euro, più una tassa d’iscrizione che va da 300 a 500 euro. Per gli esami di idoneità, il prezzo varia tra i 1.500 e i 3.000 Euro. Per il diploma di maturità la retta media è 2.500-4.500 Euro. Ma ci sono casi in cui si arriva a 8.000 o addirittura a 10.000…»
E lo Stato che fa? Boh… «Sembra abbia rinunciato alla lotta contro i diplomi facili, azzerando o quasi i controlli». Due numeri: negli anni 90 gli ispettori che facevano le verifiche «erano 696. Ne sono rimasti in servizio solo 24. Alcuni prossimi alla pensione. Ai quali si aggiungono 59 dirigenti tecnici con incarichi triennali che dovrebbero vigilare su circa 8 mila istituzioni scolastiche statali e circa 12 mila paritarie. Ottantatré ispettori per 20 mila scuole… Nel Regno Unito gli ispettori sono circa 2 mila (inclusi quelli part-time), in Francia circa 3 mila». Auguri… Perché non ne assumono? Una parola: «Il penultimo concorso è stato nel 1989; il successivo iniziato nel 2005 si è concluso nel 2014. Infine il nuovo concorso ha mosso i primi passi nel 2019 e ad oggi non è stato ancora bandito». Due concorsi in 34 anni. Prova provata che l’andazzo non scandalizza poi più di tanto.
Sono anni, del resto, che fior di intellettuali, economisti, studiosi della scuola, chiedono inutilmente di rovesciare il principio, ormai fossile, del valore legale del titolo di studio. «Quel valore legale non garantisce un suo valore reale», spiega ad esempio Andrea Ichino, autore con Guido Tabellini del libro Liberiamo la scuola, «Allo stesso modo, la certificazione legale di un insegnante non garantisce la sua qualità: tutti ricordiamo gli insegnanti davvero bravi avuti nella nostra carriera scolastica così come quelli pessimi, eppure erano tutti insegnanti certificati dallo Stato». Che senso ha restare inchiodati lì, alla scartoffia timbrata, in un contesto così?
Le bandiere a lutto e l’autonomia delle università – Roars
La decisione del Rettore dell’Università per Stranieri di Siena Tomaso Montanari che, unico tra i rettori delle Università italiane, si è rifiutato di collocare la bandiera a lutto per la scomparsa di Silvio Berlusconi, è stata accolta dal silenzio dell’accademia Italiana e dei suoi vertici. Montanari ha inviato una lettera alla CRUI in cui, dopo aver ricordato che la sua decisione è una conseguenza dell’insussistenza di obblighi per le università, chiede conto del silenzio del Presidente e della CRUI di fronte allo “scomposto attacco politico e mediatico a una università e a un rettore che esercitavano i diritti e doveri connessi all’autonomia”. Come accoglierà la CRUI la lettera di Montanari? Sosterrà che le università erano obbligate dalle norme a esporre la bandiera a lutto, sconfessando quindi l’iniziativa di Montanari? Oppure ammetterà che tutte le università meno una hanno scelto deliberatamente, esercitando la loro piena autonomia, di esporre la bandiera a lutto? In quest’ultimo caso, per quale ragione la CRUI non è intervenuta a difesa della scelta autonoma di una università di non esporre la bandiera a lutto? Qualsiasi sia la risposta, la CRUI ha scritto un’altra pagina che si aggiunge alle molte che indicano la sua debolezza nel difendere l’autonomia delle università di fronte al potere politico.
La decisione del Rettore dell’Università per Stranieri di Siena Tomaso Montanari che, unico tra i rettori delle Università italiane, si è rifiutato di collocare la bandiera a lutto per la scomparsa di Silvio Berlusconi, è stata accolta dal silenzio dell’accademia Italiana e dei suoi vertici. Montanari ha indirizzato una lettera alla CRUI cui allega il documenta che giustifica in punta di diritto la sua decisione, ratificata all’unanimità dal senato accademico e dal consiglio di amministrazione di UNISTRASI. In quel documento si mostra che la scelta di non esporre la bandiera a lutto è una conseguenza delle norme che riguardano l’autonomia universitaria determinando l’insussistenza di obblighi per le università per quanto riguarda il collocamento delle bandiere a lutto sugli edifici pubblici in occasione del lutto nazionale.
In forza di questa assenza di obblighi, Montanari, rivolgendosi al presidente della CRUI e rettore dell’università di Messina Salvatore Cuzzocrea, scrive di essere molto colpito dal silenzio tuo e della CRUI di fronte allo scomposto attacco politico e mediatico a una università e a un rettore (minacciato sui media addirittura di arresto e di condanna penale!) che semplicemente esercitavano – in piena legittimità e in attuazione della Costituzione, legge e codice etico proprio – i diritti e i doveri connessi all’autonomia. Lo statuto della CRUI (articolo 2 comma 1) prevede che “la CRUI sostiene e difende l’autonomia delle università aderenti ad ogni condizionamento esterno di carattere ideologico, economico o confessionale”.
A questo punto delle due l’una. Se tutti i rettori e la CRUI ritengono che le università fossero obbligate dalle norme a esporre la bandiera a lutto, il silenzio di fronte agli attacchi ricevuti da Montanari indica una presa di distanza dalla sua iniziativa.
Se Montanari ha ragione riguardo all’insussistenza dell’obbligo, questo significa che tutte le università hanno deliberatamente scelto, in base al principio di autonomia, di esporre le bandiere a lutto. Anche la decisione di Montanari di non esporre la bandiera a lutto è frutto di una deliberazione che discende dal principio dell’autonomia universitaria. E allora il silenzio di fronte agli attacchi ricevuti da Montanari indica che la CRUI non ha ritenuto di difendere una università dagli attacchi alla sua autonomia.
Qualsiasi sia la risposta – se ci sarà una risposta -, la CRUI ha scritto un’altra pagina che si aggiunge alle molte che indicano la sua debolezza nel difendere l’autonomia delle università di fronte al potere politico.
Noi pensiamo che ci sarebbero molte ragioni perché la piccola UNISTRASI e il suo rettore decidano di lasciare la CRUI, chiarendo così che, al di là delle norme statutarie, la Conferenza dei Rettori non sa fare altro che negoziare briciole di risorse con i governi di turno, concedendo in cambio la progressiva abdicazione ai principi fondanti di autonomia e indipendenza delle università.
De Luca: L’iscrizione a Medicina è un marchettificio, una porcheria – Angelo Vitolo
“Oggi l’iscrizione alle facoltà di Medicina è diventata un marchettificio, è una porcheria. Non solo per i test, i quiz e le palle. Abbiamo ragazze e ragazzi che, per affrontare i test di accesso, vanno a fare i corsi di formazione a 5mila euro l’uno. E’ una vergogna. I figli della povera gente non possono più andare a Medicina, non va bene”. A dirlo il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, incontrando il personale dell’Asl Napoli 3.
Il governatore, ribadendo la sua idea che occorra abolire il numero chiuso per accedere al corso di laurea, ha aggiunto: “Preferisco ingolfare la facoltà di Medicina, poi la selezione si fa sul campo se il ragazzo ha voglia di studiare, ha passione, allora andrà avanti. Ogni volta abbiamo una motivazione demenziale. Ma come è possibile? Un povero cristo di ragazzo che viene da una famiglia di povera gente, ma dove li trova i 5mila euro per fare il corso per partecipare ai quiz? E poi ne facciamo due l’anno, ti dicono il risultato dopo sei mesi. Ma questo è un manicomio, non è un Paese civile”.
E ancora, con dichiarazioni che non mancheranno di sollevare polemiche: “Preferisco fare la selezione sul merito e non sulla condizione economica dei ragazzi perché, tra l’altro, avere migliaia di ragazze e di ragazzi che vanno a fare i test e non li superano sta determinando una valanga di ragazzi depressi, frustrati, in crisi perché quando vai a fare il test una volta, due volte e non lo superi, cominci ad avere problemi psicologici, senso di inferiorità e questo non è vero, non è così”, ha concluso De Luca.
Orientatori e scuola disorientata – Paola Lattaro
Qualche settimana fa Pietro Di Martino, docente dell’Università di Pisa, in un bel seminario sul ruolo del problem solving in matematica, tenuto all’Università “Federico II” di Napoli, ha citato il professor Paolo Guidoni, che nel libro Il senso di fare scienze (IRRSAE Piemonte – Bollati Boringhieri, 1995) scrive:
Uno dei mali più gravi della scuola si chiama «far finta». Imparare a far finta, giorno dopo giorno; insegnare a far finta, giorno dopo giorno; affaticarsi, giorno dopo giorno, perché il far finta di oggi sia coerente con quello di ieri e di domani, il far finta dell’allievo con quello dell’insegnante, dei colleghi insegnanti, del direttore, dell’ispettore, della circolare ministeriale.
Si dovrebbe stare a scuola per capire e per spiegare, cioè per aiutare a capire; per imparare, anche, e quindi per insegnare-aiutare a imparare. Ma la scuola si trasforma da subito (so che non è sempre e dappertutto cosi, ma vogliamo guardare le cose in faccia?) in un totalizzante laboratorio di far finta. Per favore, fai finta di aver capito – per bene, però: in modo che io possa far finta che tu abbia veramente capito, in modo che tu possa illuderti che questo significa aver capito, e sapere, in modo che tutto vada avanti cosi, da un programma all’altro, da una circolare all’altra, da un ciclo all’altro: tanto, del diritto di tutti a essere aiutati a capire a nessuno importa, basta che la macchina funzioni senza tanti schizzi e rumori e soprassalti. Poi, a discriminare i prodotti ci penserà la vita.
Queste parole mi sono tornate in mente quando sono stata invitata dall’ex assessore all’istruzione del Comune di Napoli, Annamaria Palmieri, attualmente dirigente a Torino, a intervenire in un’iniziativa pubblica organizzata a Napoli con rappresentanti del mondo della scuola e del ministero dell’istruzione (non sono ancora pronta per chiamarlo Mim, non credo che lo sarò mai), per un confronto sulla riforma che introduce in classe la figura dell’orientatore. Un docente cioè che, attraverso 30 ore curricolari, dovrebbe affiancare gli studenti e aiutarli a capire chi sono, dove vogliono andare, cosa vogliono essere. Mi sono tornate in mente le parole così amaramente vere di Guidoni, perché sono portata a credere che questa novità dell’orientatore sarà un altro “far finta” della scuola italiana e non servirà affatto ad aiutare qualche studente a “capire”.
A convincermi ancora di più che sarà così, il fatto che l’orientatore sarà formato con un corso online di 20 ore, e l’apoteosi della scuola che fa finta è la scuola che si fa online. Ma credo che sarà l’ennesimo fare finta soprattutto perché se si volesse fare veramente, allora si affronterebbero, subito, seriamente e con cognizione di causa, i temi sui quali davvero c’è l’urgenza evidente di dover intervenire. Temi quali il reclutamento e la formazione dei docenti, la dispersione scolastica, la didattica, l’edilizia scolastica, l’alleggerimento di tutta quella burocrazia che soffoca insegnanti e dirigenti e che toglie energia, tempo e spazio alle cose davvero importanti di cui ci dovremmo occupare. Perché una scuola che funziona, capace di far appassionare gli studenti, di farli innamorare della cultura, del sapere, della bellezza, di far venire fuori i loro talenti, capace di farlo nel quotidiano grazie, prima di tutto, a docenti adeguati al compito che devono svolgere, allora è una scuola che orienta, che naturalmente orienta.
E invece come funziona da noi? C’è un orientamento che comincia a monte, che è condizionato dallo status sociale di provenienza e che, ovviamente con delle eccezioni, orienta da subito le future scelte degli studenti perché la società e la scuola non sono in grado di “rimettere le cose in pari”. In base al background familiare già si può fare una previsione, per esempio, sulla scuola secondaria di secondo grado alla quale un ragazzo o una ragazza approderà (se ci approderà). Se sei, socialmente parlando, uno “sfigato”, è molto probabile che frequenterai un istituto tecnico o ancora di più un professionale e che non penserai di laurearti. Invece quanti ragazzi conosciamo realmente che, figli della borghesia, di genitori laureati e benestanti, frequentano una scuola che non sia un liceo classico o scientifico o, al massimo, linguistico? Qualcuno c’è, certo, ma si tratta di una minoranza che non incide sui numeri. Ed è pure ovvio che quando non si favorisce la contaminazione sociale, quando non c’è una sana e necessaria promiscuità sociale, quando non si mischiano le carte, si creano situazioni e ruoli sociali che tendono a cristallizzarsi, che non sono passibili di modifica, che non evolvono.
Quanto rivoluzionario sarebbe invece cambiare la narrazione delle scuole normalmente considerate di serie B, renderle così forti e invitanti (e potrebbero esserlo assolutamente) da fare in modo che siano prese in considerazione anche dagli studenti che considerano scuola solo il liceo? E, al contrario, adoperarsi perché i licei non siano considerati le scuole per “i bravi”, le scuole della competizione, del merito. Poi, guarda caso, a “meritare” sono sempre gli studenti e le studentesse provenienti da contesti familiari favorevoli, privilegiati, quelli che hanno i soldi per l’insegnante privato al primo 4. Perché non fare sì, invece, che tali scuole siano accessibili a tutti (che non significa affatto scuole ”facili”)? Fare in modo, quindi, che ad essere accessibile a tutti sia una certa idea di sapere e di cultura, che deve essere per tutti.
Poi c’è, secondo me, un altro tipo di orientamento, un orientamento strisciante, da mettere in relazione con le materie per cui noi docenti spesso valutiamo che uno studente non sia “portato”. Ho più volte avuto modo di constatare che la passione per un certo tipo di sapere, da parte dei discenti, è quasi sempre frutto della fortuna di avere un bravo docente come mediatore, così come il rifiuto per una disciplina spesso è la conseguenza della maniera in cui quella disciplina viene presentata in classe. In particolare poi, insegnando matematica, so quanto sia facile liquidare le difficoltà che uno studente ha in questa materia (e in generale nelle materie scientifiche) con un “non è portato”, quando invece gli studi di neuroscienze (pensiamo per esempio a quelli di Dehaene) ci dicono che tutti i bambini sono dotati di capacità matematiche innate.
Come afferma, infatti, Dennis Sullivan, professore alla Stony Brook University e alla City University di New York:
[…] la matematica è un’attività naturalmente “umana”, tanto che i bambini, prima ancora di andare a scuola, sono quasi tutti dei piccoli matematici: sono incuriositi dai numeri e dalle figure geometriche. Poi vanno a scuola e imparano “qualcosa” che viene chiamata matematica e che li allontana dalla disciplina.
E così accade facilmente che, andando avanti con il percorso scolastico, quel bambino che “giocava” con la matematica si scontri con docenti che gli girano le spalle tutto il tempo, per scrivere alla lavagna formule calate dall’alto e quindi senza senso, da imparare a memoria, e che quel bambino si scontri con la demonizzazione dell’errore, quando invece l’errore è la sola strada per capire e imparare, si scontri con il fatto che essere bravi in matematica per molti insegnanti voglia dire essere veloci a rispondere, e se sei più lento, se hai bisogno di più tempo per pensare, allora non sei buono.
Lezione dopo lezione, così, il rapporto emotivo con la disciplina inesorabilmente cambia e se prima quel bambino si divertiva quando faceva matematica adesso si angoscia e tutto si risolve con il fatto che “non è portato”, e queste poche parole orientano eccome la sua vita! Così può accadere che, già alle alla secondaria di primo grado, la scuola da frequentare dopo si scelga in base all’importanza che ha la matematica in quell’indirizzo e, se poi si andrà anche all’università, si scelga il corso di laurea senza esami di matematica. Perché “non sei portato”, così ti è stato detto, così ti è stato fatto capire, di questo sei stato convinto e te lo porterai dietro per tutta la vita…
Per concludere, è opportuno porsi una domanda. Sicuramente in questa ennesima riforma, ad opera del governo attuale, saranno investiti dei soldi. Non avrebbe molto più senso investirli, per esempio, per formare docenti che non dicano mai più la frase “non sei portato” ma che, invece, quando un allievo è in difficoltà, abbiano gli strumenti migliori per aiutarlo a trovare la strada per arrivare al successo in quella disciplina, facendo in modo quindi che quel ragazzo, quella ragazza, non decida la sua vita unicamente essendo condizionato dalle difficoltà incontrate?
Un altro tipo di orientamento, strisciante anche questo, è dato dall’assenza, in determinati indirizzi, di discipline che dovrebbero essere patrimonio di tutti. Perché nei tecnici e nei professionali la filosofia non è proprio contemplata? Come se questi ragazzi non avessero diritto ad accedere a quegli strumenti che consentono di pensare e di pensare meglio. La filosofia è uno di questi, eppure a molti studenti e studentesse essa è totalmente negata. Non far studiare filosofia non significa già orientarli verso una vita in cui avranno meno risorse per porsi domande e per cercare risposte?
Non è su tutto questo che dovremmo, allora, riflettere e intervenire per consentire alle ragazze e ai ragazzi delle nostre scuole di imparare a orientarsi giorno dopo giorno, nel quotidiano che vivono in classe, senza bisogno di introdurre nuove figure, probabilmente poco credibili? Ancora una volta una riforma che francamente non ci serve, che non risponde alle vere urgenze del mondo dell’istruzione, ma al drammatico e imperante “far finta” della scuola italiana. Ancora una volta mi domando se chi decide per la scuola, la scuola la conosca e la ami. Ritorno allora a uno che la scuola la conosceva e la amava veramente, ritorno cioè a Paolo Guidoni, faccio mie le sue parole e le giro a tutti quelli che vorrebbero una scuola vera, sensata, motivante e bella:
Ogni società e ogni cultura ha la scuola che si merita (perché è la scuola che sceglie di avere). Ogni scuola ha la società e la cultura che si merita (perché è la società e la cultura che sceglie di formare). Vogliamo provare a rompere il cerchio della riproduzione incrociata del peggio?
Tutor o Gestore del personale? – Giuseppe Bagni
Nella scuola a breve è previsto l’ingresso di un numero considerevole di tutor. È una novità non da poco, molto significativa sia a livello pedagogico che politico.
Partiamo dal primo.
Non c’è dubbio che la possibilità di sviluppare un rapporto più stretto tra un docente e ognuno dei suoi allievi, pur all’interno della dimensione collettiva, sia una risorsa importante, direi anche una necessità, visto lo stato di difficoltà psicologica ed emotiva che attraversano, in particolare oggi, bambini bambine ed adolescenti. Nel mio lavoro con gli alunni tra i 14 e i 16 anni ho potuto toccare con mano il bisogno di ciascuno di loro di avere con gli insegnanti uno scambio più stretto, personale, meno illuminato dalla luce dell’aula.
Quello che scrivono nei temi oppure nelle chat con un docente mostra spesso il bisogno di stabilire una comunicazione che superi i limiti imposti dal contesto classe, dove, a pensarci bene, la parte più ampia della conversazione che un docente ha con un singolo allievo avviene alla lavagna, di fronte all’intera classe, in un assetto valutativo spesso mortificante. Succede qualcosa di diverso solo in caso di problemi, ma forse proprio quella routine è il problema.
Il tutor di Valditara andrà a colmare questo vuoto?
No, non può farlo.
La nostra esperienza di insegnanti, ma anche di studenti che siamo stati, ci dice che si possono incontrare insegnanti che ti cambiano la vita – come altri che te la rovinano – ma in nessun caso questo avviene per designazione e comando. Un rapporto formativo privilegiato si stabilisce solo con qualcuno che gode della nostra fiducia. È una scelta personale, condivisa da entrambi anche se spesso tacita. Risultato di una relazione che si è sviluppata nel tempo. Nessun docente investito del ruolo di tutor e formato con 20 ore a distanza potrà essere questo se non lo era già.
Si dirà che nessuno pretende questo, ma semplicemente l’istituzione di una figura di esperto orientatore che in base al percorso e ai risultati degli allievi sappia essere il consigliere per le scelte future. Non sono d’accordo neanche solo a questo livello perché è un’assunzione di responsabilità individuale quindi impropria, capace solo di essere l’ennesimo impoverimento della scuola. Perché togliere una responsabilità che deve essere di tutti gli insegnanti per attribuirla ad alcuni è impoverire.
Trovo molto positivo il coinvolgimento dello studente nella elaborazione del suo portfolio che rappresenterà la riflessione sul percorso fatto e sui punti di forza personali che è sempre mancata, ma non può che essere il compito di ogni insegnante per ogni materia in quanto unico competente in questo ruolo di guida. Per gestire il processo complessivo c’è già la figura del coordinatore di classe.
Allora questo esercito di tutor in arrivo a che logica pedagogica corrisponde? Si vuol riconoscere l’importanza della cura di ogni singolo alunno e alunna offrendo loro la possibilità di un rapporto individuale? Sappiamo quanto esso sia prezioso. Ma una cosa è prendersi cura di ciascuno con l’obiettivo di aiutarlo a riflettere e riconoscere il proprio personale percorso dentro quello della classe, declinando l’apprendimento come il successo personale in un’impresa collettiva; un’altra è considerare la classe una sommatoria di casi individuali come fossero pazienti di una corsia di ospedale che necessitano ciascuno di una precisa terapia. Questa è pessima pedagogia che palesa una precisa idea di scuola e di politica scolastica che ci porta al secondo livello del discorso.
Il tempo della scuola per il governo non è più quello dove si favorisce e attende con pazienza la crescita di ogni ragazzo e ragazza, che può essere lenta, piena di incertezze e arretramenti, come anche di scatti improvvisi in avanti. Per questa politica ogni bambino è già cresciuto, si sa quello che può fare e non fare. Si tratta di scoprire i talenti e i non-talenti e mettere ciascuno sul percorso per lui più agevole.
“Orientare” è un compito fondamentale della scuola solo se significa aiutare a “orientarsi” – i verbi della scuola dovrebbero essere tutti declinati al riflessivo – ma il governo lo trasforma nel dovere di smistare, e di farlo il prima possibile.
In questa logica il tutor si avvicina più al profilo del Responsabile delle risorse umane di una qualunque azienda, piuttosto che alla responsabilità di chi dovrebbe tutelare un percorso di crescita di cui nessuno può conoscere l’esito ponendo accanto ad ogni banco l’avviso “Attenzione lavori in corso”.
Quale sarà l’esito di queste scelte? La segregazione scolastica degli alunni più fragili nei percorsi di minor studio sarà amplificata, perché è abbastanza evidente che se il mercato richiede manodopera per lavori dove è sufficiente poco studio la cosa più sensata è avviare gli studenti che studiano poco in percorsi curvati verso di essi. E per Valditara va fatto il prima possibile, in coerenza con la sua dichiarazione che “dobbiamo insegnare già dalle scuole elementari la centralità e la bellezza del lavoro“.
E intanto in questo nuovo contesto professionale si differenzieranno le funzioni dei docenti e la loro remunerazione dando l’impressione di aver creato una carriera docente dando più soldi a pochi e risparmiando su tutti.
La scuola di classe in versione post-moderna – Fabrizio Marchi
Come ho già avuto modo di dire in precedenti articoli la scuola italiana è tuttora una scuola di classe. Sono però in buona parte cambiate le condizioni e le modalità di questa selezione (di classe). Vediamo di capirci qualcosa.
Da tempo infatti, diciamo da almeno tre decenni, la scuola è diventata un sostanziale parcheggio per masse di giovani che verranno poi abbandonate al loro destino una volta entrate nel “mercato del lavoro” – ridotto ad una sorta di hobbesiano “homo homini lupus”, di giungla dove i lavoratori e le lavoratrici si azzannano fra loro in una competizione diseguale camuffata da “libero mercato” – in base alle competenze acquisite e ovviamente (e soprattutto) alla loro condizione sociale.
Fino ad una quarantina di anni fa, la scuola operava una forte selezione – sempre rigidamente di classe – a partire dalle elementari. La selezione avveniva all’inizio del percorso, gli studenti giudicati “inabili” venivano espulsi dal sistema scolastico fin dalla scuola primaria (elementari e medie inferiori). Emblematiche in tal senso erano le famose “classi differenziali” dove venivano concentrati i ragazzi che avevano problemi di vario genere, sociali, psicologici, familiari, relazionali e quant’altro.
Nella scuola media che frequentavo io, ricordo bene la famigerata “sezione H” (anche dalla scelta della lettera traspariva la pulsione sordidamente classista e razzista della “cultura” dominante all’epoca). Quando noi studenti “normali” passavamo davanti alla sezione H avvertivamo una sensazione nello stesso tempo di sollievo per il fatto di vivere una condizione di “normalità” sociale e personale e, dall’altra, di inquietudine se non di vera e propria paura di poter precipitare anche noi in quella specie di ghetto per disadattati sociali e umani. Infatti le classi differenziali servivano anche da deterrente sui ragazzi, appunto, “normali” e quindi come una sorta di ricatto psicologico. Per la serie: “Se ti comporti male è lì che finirai”. Fortunatamente quella specie di apartheid per giovani e giovanissimi è stata superata nel tempo da una mobilitazione culturale e politica che ha portato a superare quello scempio.
Dopo le elementari e le medie iniziava quindi la biforcazione – esistente in larga parte anche oggi – fra chi continuava gli studi negli istituti tecnici e professionali (quasi esclusivamente maschili), chi negli istituti magistrali e linguistici (a maggioranza femminile) e chi nei licei classici e scientifici.
Come vediamo, la struttura stessa della scuola era ed è tuttora predeterminata. Nei tecnici e nei professionali finiscono i giovani (quasi esclusivamente maschi) di estrazione popolare e proletaria (quando non vengono espulsi prima) destinati ad ingrossare le fila del lavoro operaio e manuale più o meno generico e dequalificato e in moltissimi casi precario. Sono quelli che tuttora svolgono i mestieri più usuranti e rischiosi e che muoiono pressoché in esclusiva sul lavoro; una tragedia sociale e di genere maschile ovviamente occultata dai media che accendono i riflettori solo e soltanto sulla condizione femminile.
Gli istituti magistrali, alberghieri e linguistici (in gran parte femminili) sono per lo più preposti a sfornare lavoratrici del settore terziario e impiegatizio, comunque subalterne quanto i primi e spesso anche in questo caso precarie. Del resto la precarietà del lavoro è ormai la normalità, in seguito all’ennesima rivoluzione tecnologica e al grande processo di ristrutturazione del lavoro che ha determinato nelle società capitaliste negli ultimi decenni.
Infine abbiamo i licei classici, scientifici e artistici (a maggioranza, anche se non schiacciante, femminile) dove ovviamente finiscono in buona parte i figli e le figlie delle classi medie e medio-alte, anche se negli ultimi tempi la situazione, in virtù della scolarizzazione di massa, si è modificata e anche molti giovani di ceto medio basso e a volte basso sono finiti a frequentare i licei, anche se di periferia. Anche per gli studenti che frequentano i licei la selezione sarà comunque di classe, anche se formalmente partono dalla stessa base di partenza. E’ ovvio che anche fra coloro che si diplomeranno in un liceo ci sarà chi potrà continuare gli studi universitari e chi sarà oberato dalla necessità di trovare un lavoro, chi si troverà avvantaggiato nel trovare una collocazione professionale una volta terminati gli studi universitari in virtù della sua appartenenza familiare e sociale, e chi se la dovrà cavare con le sue sole forze. Certamente ci sarà anche una percentuale, di sicuro non maggioritaria, di giovani nati “senza camicia”, senza beni al sole e senza genitori benestanti o illustri che riusciranno a collocarsi, a fare carriera e ad affermarsi socialmente. Ma proprio questi ultimi sono necessari al “sistema dominante” per poter giustificare ideologicamente se stesso. Per la serie “chi lo vuole veramente ce la può fare”. E’ la logica dell’“uno su mille ce la fa” come recita anche una famosa canzone. Quand’anche fossero cento su mille il discorso non cambierebbe di una virgola. Il “sistema” ha necessità di coprire e camuffare la sua natura di classe per cui un certo numero di persone DEVE potercela fare ed entrare quindi nel salotto buono, altrimenti se così non fosse il sistema perderebbe di credibilità e di quella necessaria dose di “falsa coscienza” necessaria alla sua autoriproduzione.
La scolarizzazione di massa, per essere ancora più chiari, sostenuta dai grandi partiti di massa della cosiddetta Prima Repubblica, ha allungato sensibilmente il periodo di permanenza della gran parte dei giovani nella scuola e ha ampliato la fascia di studenti di origine popolare che frequentano i licei, ma non ha affatto modificato la struttura di classe della scuola che corrisponde, naturalmente, alla struttura altrettanto di classe della società civile. Tuttora, anche se l’espulsione dalla scuola è molto meno forte nelle scuole primarie rispetto al passato – anche perché sarebbe troppo difficile da assorbire da parte del mercato un eccesso di manodopera giovanile, anche se a basso o a bassissimo costo – la selezione, comunque ormai minima, anche nelle scuole secondarie superiori avviene su dinamiche rigidamente sociali. Ad essere bocciati o non ammessi, ad esempio, agli esami di maturità, sono gli studenti più fragili, sia personalmente che socialmente. Lo studente o la studentessa con una famiglia socialmente robusta alle spalle in grado di sborsare qualsiasi cifra in termini di spese legali per fare ricorso o comunque di esercitare una forte pressione sulla scuola, non verrà mai bocciato/a o non ammesso/a agli esami di maturità. Sia i presidi che i docenti sono peraltro letteralmente terrorizzati alla sola idea del ricorso, anche se per ragioni in parte diverse. I presidi sono ormai dei manager e ragionano come tali. Quanti più studenti sono iscritti ad una scuola tanto più quella stessa scuola potrà beneficiare di fondi pubblici o europei per progetti che poi verranno portati avanti da alcuni docenti che in genere sono quelli che fanno parte della “corte” che ruota attorno ai presidi o ai “reggenti” (in assenza dei presidi) in una spirale “perversa”, diciamo così, che serve ad alimentare invidie, rancori, competizioni e quindi sostanzialmente a dividere il corpo docente (di cui peraltro faccio parte da quasi una decina d’anni a questa parte) il quale, sia chiaro, non per questo deve essere sollevato dalle sue responsabilità. Qualsiasi docente provvisto di un briciolo di onestà intellettuale sa perfettamente che le cose stanno in questo modo.
In conclusione, è stato allungato moltissimo per la maggior parte dei giovani il periodo di permanenza a scuola, per le ragioni che ho sia pure molto sommariamente spiegato sopra. La scuola è sostanzialmente ridotta ad un parcheggio dove non interessa quasi più a nessuno (tranne che a quei docenti volenterosi e provvisti di coscienza) la formazione e la crescita culturale e umana dei ragazzi. Al contrario si tende sempre più a contrarre, anche in termini di spazio e tempo, lo studio delle materie umanistiche e a riempire la scuola di progetti e/o vari corsi di formazione che dovrebbero sulla carta preparare i giovani all’ingresso nel mondo del lavoro e che invece contribuiscono ad impoverirli sia culturalmente che professionalmente ed umanamente. La famosa alternanza scuola-lavoro ha aperto la strada a questo processo di sostanziale impoverimento della scuola italiana. La contraddizione è palese. Si è lottato per decenni per una scuola inclusiva che si voleva fondata sulla formazione e sulla crescita culturale dei giovani a prescindere, e oggi al contrario gli si dice di fatto che non devono perdere più di tanto tempo sulla storia, la filosofia, le lettere antiche o moderne, la letteratura latina e greca o anche di altre grandi culture (mai peraltro inserite nei programmi scolastici) perché devono prepararsi ad entrare nel mondo del lavoro, cioè nel mercato selvaggio e de-regolato dove in realtà soltanto alcuni riusciranno ad “emergere”, con quali modalità e criteri è tutto da vedere, ma questo è assolutamente indifferente al “sistema”.
L’idea di scuola concepita dai Padri Costituenti è ormai solo sulla carta. Ha vinto la cultura “anglosaxon”, cioè quegli “spiriti animali del capitalismo” applicati ad un paese già zeppo di contraddizioni storiche e sociali non ancora superate come il nostro. Il risultato è evidente a chiunque non abbia portato il cervello all’ammasso o, peggio, al monte dei pegni.
Una catastrofe per l’istruzione pubblica: dalla scuola dello Stato alla scuola delle Regioni – Alessandro Giarrettino
L’autonomia differenziata: «attuazione» o decostruzione del testo costituzionale?
Il 2 febbraio scorso, con l’approvazione in Consiglio dei ministri, è iniziato il percorso del Disegno di legge finalizzato ad attuare l’«articolo 116, terzo comma, della Costituzione» secondo principi di «decentramento amministrativo», «sussidiarietà e differenziazione» (art. 1). I dieci articoli di cui è composto il testo delineano quale sarà (o dovrebbe essere) la nuova Italia regionalizzata, già esistente in potenza ormai da oltre vent’anni, in virtù della riforma del Titolo V della Costituzione, e ora pronta a essere concretizzata nella realtà di venti regioni, di fatto, a statuto speciale.
Secondo gli estensori del testo «l’autonomia differenziata può rappresentare una svolta rispetto ai vincoli che attualmente impediscono il pieno soddisfacimento dei diritti a livello territoriale e la valorizzazione delle potenzialità proprie delle autonomie territoriali»: in nessuno modo, ci si affretta a precisare nella Relazione illustrativa, «si vuole dividere il Paese, né favorire regioni che già viaggiano a velocità diversa rispetto alle aree più deboli dell’Italia» (RL, p. 1). Tuttavia le direttrici scelte per la realizzazione dell’autonomia differenziata pongono, ab origine, questioni controverse.
La prima, ovvero «il procedimento di determinazione dei Livelli essenziali delle prestazioni (LEP) concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» (RL, p. 2), è un nodo essenziale che rischia di scardinare i principi di coesione e uguaglianza sociale su cui è fondata la nostra Repubblica. Soprattutto perché le clausole finanziarie del DDL stabiliscono che «dall’applicazione della presente legge e di ciascuna intesa non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica» (art. 8, c. 1): stante questo principio, sarà molto difficile garantire le misure perequative e di promozione dello sviluppo economico, della coesione e della solidarietà sociale, come stabilito dall’articolo 9, tanto più che i LEP, soprattutto nell’ambito di diritti fondamentali quali la sanità e l’istruzione, si configurano come obiettivi minimi e non preludono a un miglioramento dei servizi di base in regioni già svantaggiate.
La seconda, di carattere metodologico, riguarda la «strada del disegno di legge di attuazione», che, si legge nella Relazione, consentirebbe «un più ordinato e coordinato processo» attuativo e «un più ampio coinvolgimento delle Camere» (p. 2). Tuttavia, nonostante si insista molto sul suo ruolo attivo e determinante nella realizzazione dell’autonomia differenziata, è lecito nutrire più di qualche dubbio sulla effettiva funzione del Parlamento, visto che la parte sostanziale delle procedure di approvazione, così come viene delineata nell’articolo 2, è affidata all’intesa tra Governo e Regioni.
La rilevanza, davvero capitale per il futuro della società italiana, di un tema come quello dell’autonomia differenziata, che combina anche linguisticamente elementi assai problematici in un Paese storicamente affetto da frammentazione politico-territoriale e da profonde disuguaglianze geografico-sociali, ha aperto un dibattito il cui schema appare già significativamente delineato. Il mondo produttivo rappresentato da Confindustria ha subito dato pieno sostegno all’azione di governo in un incontro svoltosi il 22 febbraio tra il Consiglio delle Rappresentanze Regionali e il ministro Calderoli, confermando, come riportato dall’ANSA, «la volontà di una fattiva collaborazione». Al polo opposto, il mondo delle organizzazioni dei lavoratori esprime la propria radicale contrarietà a un progetto che mina alle fondamenta i valori repubblicani di solidarietà e uguaglianza su cui si basa l’esistenza stessa dei diritti sociali e civili. La UIL ha preso posizione anche nello specifico del settore dell’istruzione e, durante i recenti Stati generali sulla scuola del Trentino Alto Adige, ha sottolineato i pesanti limiti che l’autonomia differenziata impone alla libertà di insegnamento1. La CGIL si era mossa in anticipo, organizzando già il 20 gennaio un convegno sul tema: gli interventi di giuristi del calibro di Gaetano Azzariti e Giovanni Maria Flick hanno messo in guardia sulla pericolosa combinazione di autonomia differenziata e presidenzialismo, denunciando i rischi di manomissione e, in sostanza, di decostruzione della nostra Costituzione insiti in un’operazione del genere.
In effetti, proprio la questione costituzionale si pone come il nucleo centrale del problema. Se la Costituzione è un sistema complesso di valori e norme che si tengono reciprocamente, modificare un elemento, per di più essenziale, del sistema equivale a trasformare il senso e i significati di tutto l’insieme, e anche delle istituzioni fondamentali che consentono la coesione dei valori e l’uguaglianza dei diritti che il sistema-Costituzione prevede. A cominciare proprio dalla scuola, che ha avuto il compito storico di costruire e garantire, anzitutto sul piano linguistico-culturale, l’unità e l’indivisibilità della Repubblica. Quali potrebbero essere gli effetti dell’autonomia differenziata sulla scuola della Costituzione?
La scuola delle Regioni, ovvero del neoliberismo sociale
In realtà, se adeguatamente contestualizzata, l’autonomia differenziata è leggibile come il culmine di un processo storico iniziato più di venticinque anni fa con la Legge 15 marzo 1997 n. 59, la quale, introducendo «l’autonomia delle istituzioni scolastiche e degli istituti educativi», ha avviato un inarrestabile percorso di «riorganizzazione dell’intero sistema formativo» (art. 21), il cui fine ultimo è appunto la nascita della scuola delle Regioni (e, al loro interno, dei centri e delle periferie in un pulviscolo di scuole territorializzate). È infatti questo l’obiettivo della Carta di Genova, atto programmatico della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, presentato già nel 2021 nell’ambito del Convegno Nazionale sulla Riforma dell’Orientamento.
Nel documento, attorno al cardine dell’orientamento concepito come «un processo complesso che concorre allo sviluppo della comunità» (CG, p. 1) e funzionale a garantire il successo formativo e contrastare il fenomeno dei NEET, viene disegnato un nuovo sistema di istruzione nel quale sono le imprese, e non gli istituti scolastici, a essere considerate «un luogo privilegiato di apprendimento e di orientamento»: ciò che conta, insomma, è la realtà lavorativa, che si sovrappone alla realtà educativa e, in base ai «fabbisogni professionali delle imprese», orienta i giovani «alla scelta del percorso formativo più idoneo»; in tale contesto, la vocazione e gli interessi di ognuno devono essere compatibili con «il ruolo del tessuto produttivo locale e del capitale sociale» che, nella volontà delle Regioni, diventerà il fulcro del processo formativo (CG, p. 2).
Stabiliti questi principi, ne consegue che alla didattica, e quindi ai docenti che la realizzano, le Regioni assegnano compiti specifici ben diversi da quelli attuali: tra gli altri, rendere sistematico e generalizzato l’«istituto dei piani formativi individualizzati», superare «l’identità tra classe demografica e aula» e (naturalmente) introdurre «modalità didattiche innovative che in parte superino le lezioni frontali», incentivando così una non meglio precisata partecipazione attiva degli studenti (CG, p. 3). Il documento predispone anche le modalità per raggiungere questi obiettivi. Con l’argomento, sottilmente demagogico, di soddisfare le legittime aspirazioni e «necessità del singolo» studente si prescrive la ricetta della «flessibilità nella progettazione», che ha lo scopo dichiarato di garantire «una maggiore differenziazione dell’offerta formativa dei territori» e di «favorire lo sviluppo di competenze spendibili nel mercato del lavoro» (CG, p. 3).
Lo strumento operativo di questa impostazione radicalmente funzionalista sono i moduli di orientamento, anticipati nella Carta di Genova e già in attuazione con l’ultima Legge di Bilancio (29 dicembre 2022, n. 197). L’articolo 555 stabilisce infatti l’«estensione dei percorsi di orientamento scolastico, con moduli curricolari anche superiori alle 30 ore per le classi terze, quarte e quinte del Triennio e nel primo Biennio della scuola secondaria superiore e nelle classi della scuola secondaria inferiore con moduli di 30 ore, curricolari o extracurricolari», che sanciscono un ulteriore scardinamento dei curricula disciplinari immettendo, per forza di legge e senza alcun dibattito pubblico, attività di orientamento che cominciano addirittura dalla scuola primaria. Oltre a ciò, le Regioni intendono istituire la «nuova figura di orientatore», soggetto giuridico non ben definito ma di cui tutte le istituzioni scolastiche «dovranno dotarsi» e che rientrerà nella Riforma del reclutamento dell’organico. Una figura che andrà a ingrossare il corpo sempre in crescita del middle management delle scuole italiane, la cui istituzionalizzazione è di fatto lo strumento per introdurre il profilo contrattuale del docente-burocrate e creare ulteriori fratture nella già poco coesa classe docente. Il nuovo docente-orientatore avrà inoltre il compito di sviluppare la «didattica orientativa», saldandola (era facile immaginarlo) alla didattica per competenze, l’altro grimaldello economicistico già messo a sistema negli istituti professionali.
Insomma, la scuola delle Regioni così come emerge dalla Carta di Genova si fonda su principi di soverchiante orientamento al mercato del lavoro, supportato dalla nuova “metodologia” della didattica orientativa, e di forte individualizzazione dei processi di insegnamento e apprendimento, oltre che di privatizzazione della scuola democratica, in perfetta coerenza con il paradigma neoliberista che, come segnala anche la costituzionalista Alessandra Algostino2, si nasconde subdolamente dietro le spinte centrifughe e anticostituzionali dell’autonomia differenziata.
Il testo della Carta di Genova conferma esplicitamente che la regionalizzazione della scuola non è altro che un aggiramento del paradigma costituzionale per consentire al processo di edificazione della nuova scuola neoliberista di completarsi. Il cardine valoriale della scuola delle Regioni non è infatti la Costituzione ma il «catalogo di conoscenze, abilità, competenze e best practice internazionali relative a professioni specifiche», ovvero le World skills competition che riflettono la «visione condivisa a livello globale» delle conoscenze e abilità richieste «per poter mantenere un alto livello di competitività» (CG, p. 7). Un sistema di istruzione, quindi, in cui la competizione – altro dogma neoliberista – è l’apice del processo formativo, in un cortocircuito ideologico tra pretesa valorizzazione dei territori e loro effettivo assoggettamento all’economia globalista.
La profondità della trasformazione in atto è tale da impedire una esaustiva valutazione di tutte le conseguenze che la regionalizzazione comporterebbe per la scuola pubblica italiana, già «letteralmente buttata nel mercato e da esso soggiogata» nel corso degli ultimi due decenni: per cui, come aveva già correttamente interpretato qualche tempo fa, proprio in questo spazio, Giorgio Cremaschi, l’autonomia differenziata consisterebbe in «uno degli atti conclusivi della devastazione neoliberista della società italiana»3.
In una scuola sottratta al perimetro costituzionale e definitivamente inserita nella cornice del neoliberismo sociale sarebbe infatti difficile individuare i LEP per l’istruzione, unico (e assai esile) baluardo di uno Stato sociale determinato a livello nazionale, così come risulterebbe arduo, se non impossibile, garantire la libertà di insegnamento, schiacciata tra didattica orientativa e per competenze, o eludere gli interessi regionalistici che inevitabilmente vincolerebbero le procedure di reclutamento e formazione dei docenti oltre che, inevitabilmente, la scelta degli stessi contenuti didattici. Infine, l’istituzionalizzazione di “valori” quali l’individualismo e la competitività, trapiantati dall’ambito economico a quello pedagogico, già di per sé complesso, avrebbe senza dubbio ricadute negative generalizzate sulla formazione culturale e sullo stesso benessere sociale e psicologico delle nuove generazioni. Stanno lì a testimoniarlo anche le durissime denunce di studenti e studentesse delle nostre Università4, dove si celebrano ormai da tempo merito e competizione senza neanche preoccuparsi più di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale» (Cost., art. 3) che limitano i valori di libertà ed eguaglianza alla base dell’istruzione democratica.
Per una scuola della Costituzione
È possibile contrastare il processo di trasformazione regionalistica e neoliberista e proteggere il nostro sistema di istruzione come fondamento dello Stato sociale? Una prima forma di contrasto e protezione è di natura giuridica e risiede anzitutto negli articoli della Costituzione, in particolare l’articolo 119 che prevede la valorizzazione delle regioni più deboli, ovvero il Mezzogiorno e le Isole5 cui si aggiungono gli articoli 2 e 3, che impongono doveri di solidarietà politica, economico-sociale e di pari opportunità, e l’articolo 5 che dispone il principio di coesione («una e indivisibile») quale cornice identitaria della Repubblica, messa in serio pericolo dai fenomeni di disgregazione e frammentazione che l’autonomia differenziata innescherebbe. Né sarebbe costituzionalmente tollerabile che i principi fondamentali del nostro ordinamento fossero disattesi dalle norme di funzionamento demandate ai singoli territori nell’esercizio del diritto all’istruzione.
È chiaro che anche la libera azione sindacale (di nuovo, garantita dalla Costituzione) può giocare un ruolo decisivo nella partita della regionalizzazione scolastica, se è in grado di comprendere la reale posta in gioco, che va ben al di là della reintroduzione delle “gabbie salariali”, in ogni caso inaccettabile perché, tra le altre cose, utilizza «il differenziale nel costo della vita (di mercato) come criterio per definire i compensi»6. Il fatto è che a essere ormai a rischio di estinzione è l’idea stessa di una scuola pubblica e democratica, e cioè fondata, negli scopi e nei metodi, sull’uguaglianza dei diritti e sulla libertà di insegnare e imparare, fattori universali di autentica pluralità culturale. Saldare in un unico fronte costituzionale sindacati e opinione pubblica, mobilitando scuole e università ma anche le associazioni di docenti e genitori e le organizzazioni studentesche, è forse il modo migliore per cominciare a definire una nuova strategia di sviluppo collettivo della conoscenza, che solo una scuola della Costituzione può garantire.
1 Sul problema specifico cfr. R. Puleo, L’autonomia differenziata e la pressione sulla libertà di insegnamento.
2 A. Algostino, Perché il “disegno di legge Calderoli” è un progetto contro la Costituzione.
3 “Autonomia differenziata: il liberismo si fa stato”. Intervista a Giorgio Cremaschi a cura di Katia Trombetta.
4 Si veda, ad esempio, il discorso della studentessa Emma Ruzzon all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università di Padova.
5 In particolare, sui differenziali territoriali negli apprendimenti scolastici, si legga il Rapporto annuale 2022 elaborato dall’ISTAT in cui si osserva «l’ampliamento di alcune delle disuguaglianze, con regioni del Mezzogiorno che si sono allontanate dal resto del Paese, anche per effetto delle più forti difficoltà da parte di scuole e famiglie ad adeguarsi ai cambiamenti richiesti, soprattutto in contesti socio-economici particolarmente difficili» (p. 257).
6 C. Saraceno, Il peso delle parole, “la Repubblica”, 27 gennaio 2023, p. 32.
Il bluff del merito e della flessibilità nella società prestazionale. I rischi della Psicoistruzione – Michele Lucivero e Andrea Petracca
La ratifica da parte della VII Commissione Permanente (Cultura, Scienza e Istruzione) il 6 dicembre 2022 della decisione del nuovo governo di rinominare alcuni ministeri, tra cui quello dell’Istruzione e del Merito, che un tempo era della Pubblica Istruzione, non deve essere presa come una misura inessenziale nella vita politica del nostro Paese, ma ha un profondo significato dal punto di vista storico e socio-culturale. Si tratta di una iniziativa che obbedisce ad una precisa logica di risemantizzazione del reale, di ridefinizione dei confini linguistici entro cui la realtà deve avere uno ed un solo significato possibile, annichilendo ogni altro tentativo di lettura e interpretazione.
Storicamente la risemantizzazione unilaterale del reale, calata perlopiù dall’alto in maniera coercitiva e non, invece, intesa come l’esito di un processo decisionale collettivo e condiviso, si è presentata spesso come un primo e significativo atto politico di ridefinizione dell’orizzonte culturale di una società o di una comunità. Tutti i regimi, a partire da quello della Rivoluzione francese per finire a quello fascista e sovietico hanno elaborato, congiuntamente all’uso massiccio della forza, strumenti ideologici e linguistici per ri-nominare gli oggetti della vita quotidiana, le strategie politiche, le persone stesse, per mezzo di pronomi (Voi/Lei), apposizioni (camerata/compagno), fino alla ridefinizione dello stesso calendario. L’esigenza coercitiva di risemantizzare il reale da parte del biopotere imperante è la prima forma di rottura con il passato, un messaggio chiaro che nell’arco di una generazione riesce ad avere effetti pervasivi sulla società, così come ancora oggi in ambienti poco scolarizzati (e ciò non è casuale) l’uso del pronome Voi permane in maniera piuttosto diffusa.
È bene chiarire, tuttavia, che non è la risemantizzazione del reale un problema in sé, anzi che il linguaggio nel corso del tempo possa mostrarsi insufficiente ad esprimere la varietà dell’esistente in mutamento è una necessità non solo storico-evolutiva, ma esprime, soprattutto, lo sforzo di ampliamento progressivo dei diritti, delle libertà sostanziali (empowerment), la cui fruizione si è effettivamente ampliata nei secoli, ma, forse, ancora non del tutto.
Questa deriva neoliberista della società prestazionale, dunque, che vorrebbe fare del merito, non meglio che astrattamente definito, il puntello ideale di ogni contesto sociale e che trascina con sé, evidentemente, anche la scuola, luogo deputato a forgiare la forma mentis di future generazioni flessibili, se prima era abbozzata in maniera subdola e ufficiosa, nelle more di governi supertecnici e ipercompetenti incontestabili, adesso, invece, è piuttosto evidente. La legittimazione elettorale conferisce peso politico a indirizzi chiaramente neoliberisti e così diventa esplicito ciò che prima era solo implicito, cioè il tentativo di smantellare la scuola pubblica, quella dell’inclusione, degli ultimi, della lentezza dell’educare, per fare spazio alla scuola competitiva centrata sul merito, sulla valorizzazione, sulla prestazione sempre efficiente ed efficace.
Basterebbe rileggere le parole del Rapporto finale del 13 luglio 2020, scritto dal Comitato di esperti presieduto da Patrizio Bianchi, per comprendere la continuità neoliberista su cui convergono in relazione alla “scuola del merito” tanto lo schieramento dell’attuale sinistra, quanto quello della destra che convince e vince. Del resto, già nell’ambito delle misure atte a garantire la ripresa dal Covid-19, gli esperti del Rapporto finale, nominati dalla ministra Lucia Azzolina, ritenevano necessario «riassegnare centralità allo sviluppo delle potenzialità di ciascuno, trasformare ogni persona nel primo ingegnere di sé stessa (a partire dagli insegnanti)»[1].
La logica sottesa a questa nuova sbandierata concezione della scuola del merito, e alla tanto desiderata società meritocratica in generale, obbedisce ad un principio di prestazione legato alla continua e martellante necessità del soggetto di ottimizzare il proprio fare, un assunto che non era sfuggito al filosofo Michel Foucault sul finire degli anni ’70. Il filosofo francese nel suo Nascita della biopolitica, ravvisava un ripiegamento del soggetto su sé stesso, un inizio di cambiamento della gestione del potere, il quale, abbandonando le tecniche di dominio coercitivo da parte degli apparati repressivi di Stato, elaborava apparati molto più subdoli di controllo delle coscienze attraverso le tecnologie del sé, quelle che costringono il soggetto a diventare, con una incredibile eco rispetto al dettato del Comitato presieduto da Bianchi, «imprenditore di sé stesso»[2].
Foucault, tuttavia, muore nel 1984 e non può immaginare l’evoluzione del mondo dopo il 1989, tra caduta del muro di Berlino, crollo dell’Unione Sovietica e nascita del World Wide Web, eventi, questi ultimi, entrambi avvenuti nel 1991, da considerarsi a tutti gli effetti come spartiacque decisivi per il cambiamento della società e dell’economia globale al limitare del secondo secolo.
Dopo Foucault è il filosofo sudcoreano, naturalizzato tedesco, Byung-Chul Han in Psicopolitica a tracciare quelli che sono i passaggi cruciali che trasformano la società moderna del biopotere, caratterizzata dal dominio sui corpi attraverso la repressione, il controllo istituzionale, la coercizione, le istituzioni totali, nella società postmoderna neoliberale (e/o neoliberista), caratterizzata dalla prestazione, dall’ottimizzazione, dal merito, dall’eccessiva libertà che il soggetto, divenuto progetto, fatica a gestire.
È in questo quadro socio-culturale che si deve leggere il cambiamento in atto nella scuola pubblica, quella che deve puntare sul merito a partire dai e dalle docenti per terminare poi sugli alunni e sulle alunne, come dice Pietro Ichino, il quale ci spiega sulle pagine di Repubblica in che modo anche la sinistra deve credere al merito per valorizzare i figli delle famiglie meno abbienti.
Il merito diventa così la parola chiave per comprendere la transizione antropologica in atto nella nostra società, una trasformazione che valorizza l’homo faber, la prestazione, le opere, quasi come fosse un rigurgito calvinista. Il soggetto (da sub-iectus, posto sotto), sostiene Han, già connotato da un rapporto antropologico di assoggettamento, lascia il posto al progetto (da pro-iectus, gettato avanti), alla prestazione da talent show, di cui ha assunto la piena e angosciante responsabilità.
Ciò, aggiungiamo, avviene nel silenzio o con la complicità di apparati istituzionali, capaci di rigenerarsi all’interno di un processo di adiaforizzazione istituzionale. Un processo che informa pure gli apparati pubblici, fondandosi cinicamente, a partire dallo smantellamento del welfare state, dell’autonomia differenziata e dalla privatizzazione di servizi essenziali, sull’intreccio perverso tra la loro sottomissione a logiche di mercato iperliberiste e una ipocrita mistica della sollecitudine, una sorta di «lubrificazione dei rapporti sociali attraverso il sorriso istituzionale»[3], in realtà un malcelato ghigno dietro cui si cela l’irriducibile narcisismo della politica.
In un contesto siffatto, il ripiegamento del soggetto sul progetto determina una frattura abissale, che difficilmente risulterà ricucibile, tra la dimensione politica, sociale e civile dell’individuo, che viene lasciata alla competenza del tecnico, del professionista nel globale disinteresse, ma anche nella completa incapacità di penetrare nei suoi complessi meccanismi, da cui l’adiaforizzazione deresponsabilizzante, e la dimensione privata, che, invece, viene totalmente addossata al singolo.
Da qui deriva l’assunto fondamentale della società neoliberale, accettato perlopiù come un assioma indimostrabile e necessario, tanto quanto l’assetto economico neoliberista attuale: se l’individuo-progetto fa bene, allora egli viene valorizzato, premiato, può avanzare. Se, invece, l’individuo fa male, allora viene sanzionato, riprovato, castigato, subisce una diminutio, perché non conta la sua esistenza nuda, ma il suo mero fare, che è sempre fungibile, sostituibile da ciò che è più efficiente nella società flessibile, che rende anche giuridicamente più agevole il licenziamento mediante l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Ed è in questo continuo clima di pressione che la nostra società manda in tilt il cervello di milioni di persone, così come manda in tilt il cervello di milioni di studentesse e di studenti, generando quella che è l’attuale prospettiva della Psicoistruzione, vale a dire un regime scolastico ansiogeno, iperstressante, laddove la controparte alla valorizzazione del merito è la colpevolizzazione del demerito. Tutto ciò si inserisce perfettamente nel solco dell’attuale concezione dominante nella società neoliberista, per la quale la stessa povertà, la cui responsabilità non è da imputare che a sé stessi, subisce un pesante processo di colpevolizzazione.
La Psicoistruzione, appendice educativa inerente le politiche scolastiche di quella che viene definita Psicopolitica da Han, è lo specchio di una concezione della libertà personale che, da un lato, si mostra in una veste meramente formale e non sostanziale, dall’altro esprime un punto di vista pericolosamente individualistico, sganciato dalle forme cooperative e collettive di crescita della comunità scolastica, prima, e della società civile, dopo.
Da questo punto di vista, è psicotica anche la condizione in cui versano i docenti e le docenti della scuola pubblica, che devono orientarsi tra i richiami all’efficienza pedagogica di strategie didattiche come il cooperative learning, la peer education, la recente vulgata mediatica sulla scuola senza voti, da un lato, e la necessità di scremare, discriminare e catalogare, valutando e giudicando, per mezzo di prove parallele, test INVALSI e prove oggettive una massa informe di studentesse e studenti il cui futuro non è associato ad alcun progetto, se non quello della futura civiltà tecnologica, interpretata perlopiù come una necessità impellente…
3/8/2023 da https://www.labottegadelbarbieri.org
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