SUCCESSI DI GOVERNO: LASCIATI MORIRE SULLA ROTTA LIBICO-TUNISINA
Le responsabilità dell’Unione europea (e dell’Italia) per gli abusi commessi in Libia ai danni dei migranti
di Fulvio Vassallo Paleologo
Abstract
Le motivazioni dei più recenti provvedimenti di fermo amministrativo inflitti alle navi delle ONG che operano attività di ricerca e salvataggio nelle acque internazionali del Mediteraneo centrale si basano sulla violazione del decreto legge n.1 del 2 gennaio 2023 e delle conseguenti disposizioni del centro di coordinamento della Guardia costiera di Roma (IMRCC) che dopo le prime chiamate di soccorso avrebbe comunicato ai comandanti delle navi umanitarie di rivolgersi alla “competente” Centrale di coordinamento della sedicente Guardia costiera “libica”(JRCC), se non alla Centrale di coordinamento tunisina, quando l’area dei soccorsi si trovava più vicino al limite delle acque territoriali tunisine. In qualche provvedimento di fermo amministrativo si arriva ad ipotizzare che gli interventi di soccorso avrebbero messo a rischio i naufraghi, assumendo in modo evidente la stessa valutazione fornita dai libici, al termine di interventi in acque internazionali nei quali per interrompere le attività di ricerca e salvataggio delle ONG avevano fatto ricorso all’uso delle armi, ed avevano determinato situazioni di panico con conseguenze mortali.
Sullo sfondo delle prassi di fermo amministrativo delle navi delle ONG che non obbediscono al coordinamento delle autorità libiche si colloca la complicità dell’Unione europea che sostiene economicamente la Guardia costiera libica, curandone da anni la formazione, e agevola con gli assetti aerei di Frontex le intercettazioni dei barconi in fuga verso l’Europa, su quella rotta del Mediterraneo centrale che rimane l’unico canale di ingresso per i migranti abusati e intrappolati in Libia. Come se il contrasto dell’immigrazione clandestina che costituisce la base del coordinamento operativo con le autorità libiche potesse cancellare gli obblighi di ricerca e soccorso, fino allo sbarco in un porto sicuro (place of safety-POS) imposti a Frontex, ed agli Stati europei ospitanti, dunque anche all’Italia, dal Regolamento europeo n.656 del 2014.
I rapporti elaborati dalle principali agenzie delle Nazioni Unite (OIM, UNHCR) e le ispezioni dei rappresentanti della missione UNSMIL dimostrano nel corso degli anni una persistente violazione dei diritti umani delle persone migranti intrappolate in Libia, durante i loro tentativi di transito verso l’Europa attraverso la rotta del Mediterraneo centrale. Quella che è diventata la rotta migratoria più letale del mondo. Il quadro attuale della situazione dei migranti in Libia, fornito dalle Nazioni Unite ancora alla fine dello scorso anno, conferma che la situazione di gravi e diffuse violazioni dei diritti umani, rilevata dalla Corte di Cassazione nella pronuncia sul caso ASSO 28, che si riferiva al 2018, persiste ancora oggi.
Non basta impugnare i provvedimenti di fermo amministrativo che sanzionano le navi umanitarie che non si sono fatte coordinare dalle autorità libiche e che hanno condotto i naufraghi soccorsi in acque internazionali verso un porto sicuro che nè la Libia, nè la Tunisia potevano garantire. Occorre denunciare a livello internazionale tutte quelle autorità e quelle centrali di coordinamento che collaborando nelle intercettazioni in mare delegate alle autorità libiche si rendono complici dei trattamenti inumani o degradanti riservati alle persone bloccate in acque internazionali e riportate in territorio libico. Vanno altresì denunciate tutte le responsabilità istituzionali nei casi di omessa o ritardata attività di ricerca e salvataggio (SAR) derivante dalla mancata risposta alle chiamate di soccorso.
Si può anche ritenere che quando le centrali di cordinamento di Frontex o le autorità italiane ospitanti i mezzi di Frontex, comunichino con i libici la presenza di imbarcazioni tracciate in acque internazionali, all’interno della zona SAR “libica” queste autorità esercitino una giurisdizione effettiva sulle persone che sono a bordo dei barconi intercettati, perchè ne determinano la sorte, e prima di quel tracciamento non vi era alcuna autorità statale che potesse esercitare su di loro la propria giurisdizione.
Non si può ammettere che per il gioco incrociato del riconoscimento di enormi zone SAR attribuite per ragioni politiche ed economiche alla Libia (ed a Malta), con gli accordi bilaterali che legano questi paesi tra loro ed all’Italia, ci siano persone abbandonate in acque internazionali su imbarcazioni fatiscenti prive di bandiera, in situazione di grave pericolo (distress), sottratte a qualsiasi giurisdizone, dunque persone i cui diritti fondamentali, a partire dal diritto alla vita, non potrebbero trovare tutela. Persone private di ogni diritto, persino del diritto alla vita, come del diritto al soccorso, senza che ci sia nessun responsabile per la loro perdita. Fino al punto che chi osa soccorrerle e chiede di sbarcarle in un porto sicuro, testimone di una sistematica omissione di soccorso da parte degli Stati costieri, rischia di essere sanzionato.
1. La normativa europea di riferimento
Le motivazioni dei più recenti provvedimenti di fermo amministrativo inflitti alle navi delle ONG che operano attività di ricerca e salvataggio nelle acque internazionali del Mediteraneo centrale si basano sulla violazione di quanto disposto dal Decreto legge n.1 del 2 febbraio 2023, convertito nella legge n.15/2023 e delle conseguenti disposizioni del centro ,di coordinamento della Guardia costiera di Roma (IMRCC), che dopo le prime chiamate di soccorso, avrebbe comunicato ai comandanti delle navi umanitarie di rivolgersi alla “competente” Centrale di coordinamento della sedicente Guardia costiera “libica”(JRCC), se non alla Centrale di coordinamento tunisina, quando l’area dei soccorsi si trovava più vicino al limite delle acque territoriali tunisine. In qualche provvedimento di fermo amministrativo si arriva ad ipotizzare che gli interventi di soccorso avrebbero messo a rischio i naufraghi, assumendo in modo evidente la stessa valutazione fornita dai libici, al termine di interventi in acque internazionali nei quali per interrompere le attività di socorso delle ONG avevano fatto ricorso all’uso delle armi, ed avevano determinato situazioni di panico con conseguenze mortali.
Alla base dei provvedimenti di fermo amministrativo, e delle valutazioni che ne costituiscono la premessa del tutto falsa, c’e la considerazione che i migranti intercettati in acque internazionali e riportati in Libia, dopo essere stati abbandonati alla sedicente Guardia costiera “libica”, non subirebbero quegli abusi indicibili denunciati ad ogni visita degli ispettori delle Nazioni Unite (missione UNSMIL), abusi che sono stati documentati ancora lo scorso anno.
Sullo sfondo delle prassi illegittime di fermo amministrativo delle navi delle ONG che non obbediscono al coordinamento delle autorità libiche si colloca la complicità dell’Unione europea che sostiene economicamente la Guardia costiera libica, curandone da anni la formazione, e agevola con gli assetti aerei di Frontex le intercettazioni dei barconi in fuga verso l’Europa, su quella rotta del Mediterraneo centrale che rimane l’unico canale di ingresso rimasto aperto per i migranti abusati e intrappolati in Libia. Frontex, malgrado le dimissioni del suo precedente direttore Fabrice Legeri, adesso candidato al Parlamento europeo con un partito di destra, sostituito dopo una inchiesta del Garante europeo per i diritti umani (Ombudsmann) sui respingimenti illegali dalla Grecia verso la Turchia, ha intensificato la sua collaborazione con autorità di un paese che non rispetta i diritti umani, ed anzi giustifica come doverosa la propria collaborazione con la sedicente Guardia costiera libica. Come se il contrasto dell’immigrazione clandestina che costituisce la base del coordinamento operativo con le autorità libiche, potesse cancellare gli obblighi di ricerca e soccorso, fino allo sbarco in un porto sicuro (place of safety-POS) imposti a Frontex, ed agli Stati europei ospitanti, dunque anche all’Italia, dal Regolamento europeo n.656 del 2014.
In base all’art. 4 del Regolamento, ” Nessuno può, in violazione del principio di non respingimento, essere sbarcato, costretto a entrare, condotto o altrimenti consegnato alle autorità di un paese in cui esista, tra l’altro, un rischio grave di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura, alla persecuzione o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti, o in cui la vita o la libertà dell’interessato sarebbero minacciate a causa della razza, della religione, della cittadinanza, dell’orientamento sessuale, dell’appartenenza a un particolare gruppo sociale o delle opinioni politiche dell’interessato stesso, o nel quale sussista un reale rischio di espulsione, rimpatrio o estradizione verso un altro paese in violazione del principio di non respingimento”.
Secondo il Considerando 8 del Regolamento, ” Durante operazioni di sorveglianza di frontiera in mare, gli Stati membri dovrebbero rispettare i rispettivi obblighi loro incombenti ai sensi del diritto internazionale, in particolare della convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, della convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare, della convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo, della convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale e del suo protocollo per combattere il traffico di migranti via terra, via mare e via aria, della convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati, della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, del patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, della convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, della convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo e di altri strumenti internazionali pertinenti.
Secondo il Considerando 13 dello stesso Regolamento, ” L’eventuale esistenza di un accordo tra uno Stato membro e un paese terzo non esime gli Stati membri dai loro obblighi derivanti dal diritto dell’Unione e internazionale, in particolare per quanto riguarda l’osservanza del
principio di non respingimento, quando gli stessi Stati sono a conoscenza, o dovrebbero esserlo, del fatto che lacune sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo in quel paese terzo equivalgono a sostanziali motivi per ritenere che il richiedente asilo rischi concretamente di subire trattamenti numani o degradanti, o quando tali Stati sanno o dovrebbero sapere che quel paese terzo mette in atto comportamenti in violazione del principio di non respingimento“.
Se è vero che le più recenti scelte della Commissione e del Consiglio europeo spingono nella direzione di una crescente collaborazione con i paesi terzi, nelle attività di contrasto dell’immigrazione irregolare, rafforzando il ruolo di Frontex, si deve prendere atto che le decisioni politiche degli organismi europei non si sono ancora tradotte in atti legislativi che modifichino il Regolamento europeo n.656 del 2014, che come tale rimane vincolante per i legislatori nazionali e per tutte le autorità amministrative, politiche e di polizia degli Stati membri. I respingimenti collettivi rimangono comunque vietati dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art.19) e dall’art.4 del Quarto Protocollo allegato alla Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo. Come si è fatto nel caso del coinvolgimento dei mezzi di Frontex nelle attività illegali di respingimento collettivo dalla Grecia in Turchia, occorre promuovere identiche azioni di responsabilità per i respingimenti che gli assetti di Frontex permettono sulle rotte del Mediterraneo centrale.
2. Norme interne e prassi operative che eludono il divieto di respingimenti collettivi
Nel 2012 l’Italia veniva condannata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo per i respingimenti collettivi effettuati nel 2009 direttamente verso il porto di Tripoli dalla motovedetta Bovienzo della Guardia di finanza. Dopo quella condanna le autorità europee ed italiane adottavano una cinica strategia di respingimenti su delega, formando, rifornendo ed assistendo la sedicente Guardia costiera “libica”, ed in misura minore la Guardia costiera tunisina, e contribuendo in questo modo alla dichiarazione di una zona SAR “libica” nel 2018. Appena dopo che il Memorandum Gentiloni-Minniti con il governo di Tripoli del 2017 aveva rilanciato la cooperazione operativa con la sedicente Guardia costiera “libica”, prevista nel “Protocollo aggiuntivo” del 2007 stipulato da Amato ai tempi del primo governo Prodi, poi richiamato nel Trattato di amicizia Italia-Libia firmato da Berlusconi nel 2008. Evidenze processuali, come la sentenza del Giudice delle indagini preliminari di Catania nel 2018 sul caso Open Arms, e rapporti internazionali, dimostravano come, anche dopo la creazione di una zona SAR libica, erano le autorità italiane che attraverso la missione NAURAS di base a Tripoli, nel porto militare di Abu Sittah, di fatto coordinavano le attività di ricerca e salvataggio affidate alle motovedette “libiche” donate dall’Italia.
Non venivano prese in considerazioni le prove documentali e le risultanze processuali dalle quali veniva confermata la collusione di parte della Guardia costiera libica con le milizie solidali con i trafficanti di persone e di petrolio che controllavano importanti porti della Tripolitania come Zawia, sede di una importante base dell’ENI, tanto che nel quadro di corsi di formazione esponenti di queste milizie potevano venire in Italia e visitare sedi istituzionali importanti, come il ministero dell’interno e la centrale di coordinamento della Guardia costiera. Intanto, già nel 2017, Frontex accusava le navi del soccorso civile di fare il gioco dei trafficanti, direttamente o indirettamente, e di ostacolare le proprie attività. Le navi di soccorso delle ONG, che fino a quel tempo avevano collaborato con Frontex e con la Guardia costiera italiana, dovevano essere allontanate dal Mediterraneo centrale, per lasciare spazio alla sedicente Guardia costiera “libica”, rifornita ed assistita dalle autorità italiane che le donavano decine di mezzi. Erano gli anni delle “consegne concordate” con i trafficanti libici e dei “taxi del mare”, tesi oggi destituite di fondamento in sede processuale, ma capaci di scavare un solco profondo e duraturo di disinformazione e odio sociale che divideva l’opinione pubblica italiana.
Negli anni che andavano dal 2018 in poi, ma soprattutto dal 2020, quando il ruolo di coordinamento operativo dei giardiacoste libici dell’Italia veniva meno, per effetto del maggior potere assunto dalla Turchia dopo il conflitto scoppiato nel 2019 tra il generale Haftar ed il governo di Tripoli, aumentava il ruolo di Frontex con l’operazione Themis, nel tracciamento delle imbarcazioni cariche di migranti in fuga dalle coste nordafricane, e quindi nelle relative segnalazioni inviate ai libici, oltre ch agli italiani ed ai maltesi. Anche la missione europea EUNAVFOR MED, adesso ribattezzata IRINI, collaborava attivamente nel tracciamento e nella segnalazione delle imbarcazioni da intercettare nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale. In questo modo, grazie anche al maggior numero di motovedette fornite dall’Italia ai libici, cresceva in modo esponenziale il numero delle persone intercettate in mare e riportate verso gli orrori inimmaginabili della Libia (come riferivano i rapporti delle Nazioni Unite).
Come si legge in un importante Rapporto di Human Rights Watch, l’agenzia Frontex “negli ultimi anni, ha stipulato contratti con società private per utilizzare un drone Heron a pilotaggio remoto – un drone relativamente grande e disarmato progettato per la raccolta di intelligence e la sorveglianza – e diversi aerei pilotati in decollo dagli aeroporti di Malta e dall’ Italia”. Per le attività di Frontex, comprese quelle di tracciamento in acque internazionali e di comunicazione con i libici, è bene ricordare, sono direttamente responsabili i vertici dell’agenzia e le autorità di coordinamento degli Stati ospitanti.
L’agenzia di giornalisti d’inchiesta Lighthouse Reports ha pubblicato diversi rapporti riguardanti la collaborazione tra l’agenzia di frontiera dell’UE Frontex e la Guardia costiera libica, evidenziando i collegamenti diretti tra le risorse aeree di Frontex che individuano le barche e la loro successiva intercettazione da parte della Guardia Costiera.
Si creava in questo modo una mistificazione degli eventi di soccorso, come se si trattasse di eventi di immigrazione irregolare, ma oltre il cd. law enforcement (monitoraggio e interventi per contrastare l’immigrazione irregolare) non si garantiva più la presenza di mezzi di soccorso in acque internazionali. Come riporta il Coriere della sera, “L’agenzia europea per le frontiere Frontex non è in grado di “adempiere ai propri obblighi in materia di diritti fondamentali” a causa della sua dipendenza dagli Stati membri dell’UE quando una barca di migranti è in pericolo, ha evidenziato il mediatore civico europeo (Ombudsman) Emily O’Reilly in un rapporto a seguito di un’indagine sulle operazioni di Frontex in mare”.
3. La situazione strutturale di persistenti violazioni dei diritti umani e di trattamenti degradanti in Libia dal 2018 ad oggi
I rapporti elaborati dalle principali agenzie delle Nazioni Unite (OIM, UNHCR) e le ispezioni dei rappresentanti della missione UNSMIL dimostrano nel corso degli anni una persistente violazione dei diritti umani delle persone migranti intrappolate in Libia, durante i loro tentativi di transito verso l’Europa attraverso la rotta del Mediterraneo centrale. Quella che è diventata la rotta migratoria più letale del mondo. Il recente Memorandum d’intesa concluso lo scorso anno tra l’Unione Europea e la Tunisia ha aggravato una situazione già difficile, sia per i respingimenti collettivi dalla Tunisia alla Libia, da cui adesso si verifica la maggior parte delle partenze, che per gli interventi violenti delle motovedette tunisine, incrementati dalla cessione di mezzi da parte dell’Italia, che operano in stretta sinergia con le autorità europee ed italiane. Gli accordi con la Tunisia dello scorso anno contribuiscono quindi a peggiorare la condizione delle persone migranti respinte, espulse e intrappolate in Libia e ad un calo delle partenze dalla Tunisia corrisponde un incremento delle partenze dalla Libia. Aumentano quindi i respingimenti collettivi, camuffati da soccorsi in acque internazionali, delegati alla sedicente Guardia costiera libica.
La Libia non può garantire ancora oggi luoghi sicuri di sbarco perchè in tutti i centri di detenzione le persone sono esposte ad abusi indicibili ed a continue estorsioni, senza che le autorità statali possano garantire una qualsiasi tutela. A nulla rilevano le dichiarazioni recentemente rese dal ministro dell’interno Piantedosi nel corso del processo Salvini per il caso Open Arms del 2019, secondo le quali gli abusi ai danni dei migranti intercettati in mare e riportati in Libia avverrebbero soltanto nei centri informali gestiti dalle milizie e non nei cd, centri “governativi”. In realtà, secondo rapporti dello scorso anno, anche nei cd. centri governativi le persone in stato di detenzione erano, e rimangono esposte, ad ogni tipo di abusi e non possono avvalersi di alcun mezzo effettivo di difesa. Un rapporto di Human Rights Watch del 2019, No Escape from Hell – EU Policies Contribute to Abuse of Migrants in Libya, non lasciava dubbi sulla sorte destinata alle persone intercettate in mare e ricondotte nei centri di detenzione libici.
Appare assai importante, anche per valutare la situazione nei centri di detenzione e nelle acque riconosciute come zona SAR “libica” la Relazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite del 26 agosto del 2019 sulla Libia perchè fotografa una situazione che le autorità italiane tendono ancora oggi a nascondere. Nel Rapporto, che non poteva essere ignorato dal Viminale, si legge che “Si sono verificati episodi di violenza e di uso letale della forza nei confronti di tali persone migranti in detenzione, anche dopo le proteste dei migranti contro le condizioni della detenzione. L’UNSMIL ha monitorato le segnalazioni di incidenti mortali durante la detenzione ufficiale nei centri a Tariq al-Sikkah, Qasr Bin Ghashir, Zawiyah e Sabhah.“
Nel settembre del 2020 l’UNHCR adottava un importante “ Posizione sulla designazione della Libia come paese terzo sicuro e come luogo sicuro ai fini dello sbarco dopo il salvataggio in mare.” Nel documento si prende atto della perdurante divisione del paese, e si stabilisce che “la Libia non dovrebbe essere considerata un paese terzo sicuro alla luce dell’assenza di un sistema di asilo funzionante, le difficoltà e gli abusi ampiamente denunciati affrontati dai richiedenti asilo e dai rifugiati in Libia, l’assenza di protezione da tali abusi, mancanza di protezione contro il respingimento e mancanza di soluzioni durature”.
In particolare, al paragrafo 33 del documento si osserva che “Nell’ambito del salvataggio in mare e in linea con il diritto marittimo internazionale, lo sbarco deve avvenire in modo prevedibile in un luogo sicuro e in condizioni che sostengano il rispetto dei diritti umani
coloro che vengono soccorsi, inclusa l’adesione al principio di non respingimento”. Quando le persone sono soccorse in mare, anche da navi militari e commerciali, ricorre “la necessità di evitare lo sbarco territori in cui le [loro] vite e libertà (…) sarebbero minacciate. circostanza rilevante per determinare cosa costituisce un luogo sicuro. Alla luce della instabile situazione della sicurezza in generale e in particolare per i rischi per la protezione dei cittadini stranieri (inclusa la detenzione arbitraria e illegale in condizioni di inadeguatezza). condizioni nei centri di detenzione gestiti dallo Stato e segnalazioni di gravi violazioni e abusi contro i diritti di asilo richiedenti asilo, rifugiati e migranti, tra gli altri, da parte di milizie, trafficanti, l’UNHCR non ritiene che la Libia soddisfi i criteri per essere designata come luogo sicuro allo scopo di sbarco a seguito del salvataggio in mare“.
Ancora quest’anno, malgrado siano stati possibili alcuni corridoi umanitari,l’UNHCR ricordava come “la Libia non è un rifugio sicuro”. Come dichiarava Chiara Cardoletti, rappresentante dell’UNHCR per Italia, Santa Sede e San Marino,”sappiamo che per i rifugiati la Libia è ancora un paese molto complicato. Finora non ci sono stati molti miglioramenti. La Libia non ha firmato la Convenzione sui rifugiati del 1951 ed è un Paese in cui assistiamo ancora a tanti episodi, anche di grave violenza, che colpiscono donne e uomini nei centri di detenzione.”. Non sembra dunque che ci sia spazio per distinguere a questo punto tra centri di detenzione governativi e centri di detenzione “informali”, perchè sono tutti sotto il controllo diretto o indiretto delle milizie che controllano con le armi il territorio, e in tutti i centri di detenzione sono documentati abusi ed estorsioni.
Un rapporto della Comissione LIBE del Parlamento europeo nel 2021 a fronte degli abusi commessi da Frontex alle frontiere esterne dell’Unione Europea, in rapporto diretto con le autorità di paesi terzi che non rispettavano i diritti fondamentali della persona migrante, forniva una serie di raccomandazioni che il Direttore generale e i membri dell’Agenzia avrebbero dovuto seguire, ma le prassi successive, anche dopo la sostituzione del Direttore esecutivo, non sono sostanzialmente cambiate.
Gi interventi in mare delle motovedette libiche, dopo il tracciamento aereo garantito dagli assetti di Frontex diventavano sempre più violenti, mentre le navi umanitarie inviate dalle ONG per svolgere attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali restavano bersaglio delle minacce armate dei guardiacoste libici, prima di essere colpite e immobilizzate dopo lo sbarco in Italia da provvedimenti di fermo amministrativo. E intanto le autorità italiane e maltesi rifiutavano di intervenire nella cd. zona SAR libica, ed invitvano le navi che operano soccorsi in quella zona a rivolgersi alle “autorità competenti”, dunque alla sedicente Guardia costiera libica, o meglio alle Guardia costiere che le milizie libiche controllano senza un coordinamento unificato. Come, del resto, anche in base al Rapporto UNSMIL del 5 aprile 2023, non si può dire che la Libia costituisca ancora oggi un entità statale unitaria, motivo che da solo dovrebbe comportare la decadenza degli accordi stabiliti in passato con il governo di Tripoli. Ancora lo scorso anno la Missione delle Nazioni Unite in Libia (UNSMIL) ha affermato di continuare a ricevere segnalazioni di sparizioni forzate e prolungata detenzione arbitraria di cittadini libici e non libici nelle carceri e nei centri di detenzione in tutto il paese, senza distinzioni tra centri governativi e centri informali. “La Missione ha continuato a ricevere segnalazioni consistenti di uomini e donne detenuti in tutte le parti della Libia sottoposti a maltrattamenti, violenza sessuale, tortura o pratiche sessuali coercitive in cambio di acqua, cibo o beni essenziali”. La stessa misssione ha anche espresso una “preoccupazione” per l’aumento” della detenzione di minori migranti in violazione degli obblighi del Paese ai sensi del diritto internazionale sui diritti umani”, affermando che molti dei minori detenuti sono stati anche vittime di tratta e abusi.
Il quadro attuale della situazione dei migranti in Libia, fornito dalle Nazioni Unite conferma che la situazione di gravi e diffuse violazioni dei diritti umani rilevata dalla Corte di Cassazione nella pronuncia sul caso ASSO 28, che si riferiva al 2018, persiste ancora oggi, come si può ricavare peraltro da aggiornati rapporti internazionali e da documentate indagini giornalistiche che hanno raccolto dati incontrovertibili dalle vittime, testimoni diretti degli abusi subiti in Libia, anche dopo la intercettazione in mare da parte della sedicente Guardia costiera libica.
Secondo il più recente Rapporto UNSMIL al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 7 dicembre 2023, (punto 82) “il ripetersi di scontri armati in aree densamente popolate di Tripoli e Bengasi e Gharyan è molto preoccupante. Questi incidenti sono un forte promemoria della fragilità del panorama politico e di sicurezza e sottolineano l’urgenza di risolvere il problema stallo politico e portare il paese alle elezioni. Sottolineano inoltre la frammentazione dell’apparato di sicurezza, che potrebbe minare gli sforzi in corso per
coltivare un ambiente sicuro favorevole alle elezioni. Inoltre, gli sviluppi in Niger e Sudan, nonché le ostilità al confine tra Libia e Ciad, hanno sollevato preoccupazione per i potenziali effetti destabilizzanti sulla Libia.. Il Relatore dello stesso Rapporto (punto 83), esprime gravi preoccupazioni “per le diffuse violazioni del diritto internazionale, compresa la legge sui diritti umani, in Libia e la mancanza di responsabilità per i colpevoli. Arresti e detenzioni arbitrarie in tutto il Paese, nonché erosione della cittadinanza, evidenziano un’allarmante violazione dei diritti alla libertà di espressione, l’associazione e l’assemblea pacifica e minano un ambiente favorevole elezioni. Sono inoltre preoccupato per la crescente militarizzazione della legge operazioni di controllo in tutto il paese e sottolineano che tali operazioni dovrebbero essere condotta da forze dell’ordine civili addestrate e attrezzate”.
In particolare, il Segretariato generale del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, si esprime in questi termini : “Le deportazioni diffuse e le espulsioni collettive di migranti e richiedenti asilo, in condizioni disumane, devono finire. Incoraggio tunisini e libici controparti a lavorare insieme per fornire la protezione internazionale richiesta e assistenza ai migranti e ai richiedenti asilo. Esorto le autorità libiche a trovare alternative alla detenzione dei migranti e dei richiedenti asilo e a garantire un trattamento umano a tutti detenuti, con l’obiettivo a lungo termine della depenalizzazione, del trattamento umano e accesso ai procedimenti giudiziari. Le continue espulsioni di migranti e richiedenti asilo dalla Libia ai paesi vicini è vietato dal diritto internazionale e deve cessare. Ribadisco che la Libia non è un porto sicuro di sbarco e non sono ammessi profughi e ai migranti intercettati lungo la rotta del Mediterraneo centrale dovrebbe essere assegnato a porto di sbarco sicuro, in conformità con il diritto del mare, internazionale, con il diritto marittimo, con il diritto internazionale dei diritti umani e il diritto dei rifugiati.
Sempre lo scorso anno, la commissaria Ue per gli Affari Interni, Ylva Johansson, ha ammesso che “con alcuni Paesi vicini è più difficile collaborare, come con la Libia, dove ci sono chiare indicazioni di criminali che si sono infiltrati nella Guardia Costiera“.
Sono anche provati rapporti di collaborazione tra Frontex, le autorità maltesi e le milizie che controllano le coste della Cirenaica, in respingimenti collettivi che confliggono con il diritto internazionale e con le norme euro-unitarie, comportando il ritorno, ma sarebbe meglio dire la deportazione, dei naufraghi intercettati in mare, in territori nei quali non hano riconosciuto alcun diritto, certamente non verso porti sicuri. Lo scambio di mail ed i rapporti continuativi di comunicazione e collaborazione operativa inquadrano una piena complicità tra l’agenzia europea Frontex e le guardie costiere libiche. Come sottolinea Matteo de Bellis di Amnesty International, “Frontex utilizza aerei e droni per identificare tutte le persone che cercano di mettersi in salvo in Europa attraversando il Mediterraneo, e poi allerta la guardia costiera libica. Di conseguenza, rifugiati e migranti vengono regolarmente intercettati e rimandati in Libia, dove subiscono detenzioni arbitrarie e torture su vasta scala”.
Secondo un Rapporto di Human Rights Watch e di Border Forensics ,aggiornato al 2022, il tracciamento aereo operato da Frontex, per consentire alla guardia costiera libica di intercettare le imbarcazioni in acque internazionali, pur essendo a conoscenza che i migranti, ma sarebbe meglio parlare di naufraghi, affronteranno abusi sistematici una volta ricondotti con la forza in Libia, rende l’Agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne complice degli abusi.
In una recente indagine pubblicata da Lighthouse Report, Frontex è accusata di aver condiviso, dopo il tracciamento aereo, la posizione delle imbarcazioni di migranti con la guardia costiera libica via e-mail oltre 2.000 volte in tre anni nonostante la piena consapevolezza da parte dell’agenzia degli abusi commessi dai guardiacoste libici. Il nuovo Direttore esecutivo dell’agenzia, rinadisce ancora di recente che l’agenzia è tenuta per legge a informare le autorità libiche della presenza di barche di persone migranti in difficoltà nella zona SAR (Search and Rescue) di competenza del paese: «Dobbiamo informarli: non farlo significherebbe giocare con le vite dei migranti […] ed è un gioco che non farò mai». Leijtens ha dichiarato che secondo il diritto internazionale Frontex è tenuta a segnalare la presenza di navi in difficoltà alle «autorità competenti: se [la nave] si trova nelle acque di competenza della Libia, questo include anche le autorità libiche». La posizione del Direttore di Frontex corrisponde a quella del governo italiano ed a quanto disposto dal Decreto legge “Piantedosi” n.1/2023, ma si scontra con l’evidenza dei fatti, dai quali si ricava che gli interventi in acque internazionali delle “autorità competenti”, dunque quelle” libiche” nella zona SAR riconosciuta al governo di Tripoli, non garantiscono effettivamente il diritto al soccorso, e soprattutto non garantiscono lo sbarco in un porto sicuro (place of safety-POS), come sarebbe imposto dal Regolamento europeo n.656 del 2014 , dal diritto internazionale del mare e dalla Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951.
L’Unione europea continua così, ed anzi tende ad intensificare, ” la collaborazione con gli attori istituzionali libici in materia di migrazione nella piena consapevolezza del loro ruolo nelle violazioni dei diritti umani dei migranti” Per quanto tempo ancora l’Italia e l’Unione europea continueranno a collaborare con il governo di Tripoli, che tra i suoi componenti ha un ministro dell’interno sospettato a livello internazionale di essere espressione di milizie colluse con i trafficanti e di essersi appropriato di fondi destinati al contrasto dell’immigrazione illegale ?
Come si legge in un recente Rapporto della Presidenza del Consiglio dell’Unione Europea, “L’ultima mappatura delle parti interessate effettuata dalla delegazione dell’UE mostra ancora una volta che l’UE è pienamente consapevole che la maggior parte degli attori istituzionali libici che fanno parte del comitato direttivo per il sostegno alla gestione integrata delle frontiere e della migrazione in Libia (SIBBMMIL), finanziato dall’UE, fanno parte di un quadro frammentato della governance della migrazione in Libia, che è priva di forti istituzioni centrali, soprattutto nella Libia occidentale. È inoltre pienamente consapevole che le milizie sono collegate in diversi modi agli attori governativi poiché la gestione della migrazione è diventata un business redditizio. Il documento menziona che le milizie beneficiano del circuito economico della gestione della migrazione sia formalmente (attraverso contratti) che informalmente (schiavitù, estorsione). I principali soggetti istituzionali coinvolti nella migrazione e nella gestione delle frontiere e con i quali l’UE collabora sono la Direzione per la lotta all’immigrazione illegale (DCIM), la Guardia costiera libica (LCG), l’Autorità generale per la sicurezza costiera (GACS), l’Agenzia per la sicurezza delle frontiere (BSA) ), l’autorità competente per i passaporti, le guardie di frontiera terrestri (LBG), il ministero degli Interni (MOI) e il ministero degli Affari esteri (MOFA)”.
Secondo lo stesso documento del Consiglio dell’Unione europea, aggiornato allo scorso anno, dunque ancora attuale, “Il rapporto evidenzia l’incapacità della Guardia costiera nazionale di rispettare gli standard che ci si aspetta da una guardia costiera nazionale e menziona i filmati delle ONG che documentano la condotta pericolosa della Guardia costiera nazionale. In termini di attori responsabili delle intercettazioni marittime, si evidenzia che il ruolo di GACS è diminuito durante lo scorso anno, anche a causa dell’emergere di nuovi attori. Come è ampiamente noto, la LCG non può essere vista come un’istituzione coerente. L’unità Zawiya è ad esempio sotto il comando del capitano Abdul Rahman, alias. Bija, che è sulla lista del Comitato per le Sanzioni delle Nazioni Unite. La Guardia costiera libica continua a essere uno dei principali destinatari del SIBMMIL dell’UE, ricevendo attrezzature e corsi di formazione”.
Come può Frontex asserire di essere tenuta ad avvertire degli eventi di soccorso la sedicente Guardia costiera libica, quando il Consiglio dell’Unione europea “evidenzia l’incapacità della Guardia costiera nazionale di rispettare gli standard che ci si aspetta da una guardia costiera nazionale” ? In altri termini, ammesso anche l’obbligo di avvertire i libici, che peraltro viene rispettato anche dai comandanti delle navi umanitarie del soccorso civile, come può ritenere Frontex di rispettare il mandato e gli obblighi imposti dal Regolamento UE n.656/2014 se, dopo avere avvertito le autorità libiche non svolge alcuna attività per garantire lo sbarco dei naufraghi in un porto sicuro, dove questi possano presentare una domanda di asilo e non subire ulteriori violazioni dei diritti fondamentali della persona ? Spetterebbe invece a Frontex ed agli Stati costieri dela sponda nord del Mediterraneo centrale garantire missioni di soccorso in acque internazionali, anche avvalendosi delle Organizzazioni non governative, in modo da garantire lo sbarco dei naufraghi in un porto sicuro che la Libia, nelle sue diverse articolazioni politiche, militari e criminali, non può evidentemente garantire. Del resto dovrebbe essere proprio questo l’oggetto del coordinamento nelle attività di salvataggio in acque internazionali che la Convenzione di Amburgo sulla ricerca ed i soccorsi in mare (SAR) del 1979 impone agli Stati firmatari, obbligo che viene eluso quando il coordinamento si rivolge ai paesi terzi, che non garantiscono porti sicuri di sbarco, e risulta esclusivamente finalizzato ad impedire che i naufraghi possano essere sbarcati in territorio europeo. Anche a costo di contrastare gli interventi SAR delle navi umanitarie, per interposta guardia costiera “libica”, e di causare in questo modo un aumento delle vittime.
4. Azioni contro la collaborazione italiana ed europea con la sedicente Guardia costiera “libica”
La collaborazione delle autorità europee (ed italiiane) con le autorità di frontiera (DCIM) e con la sedicente Guardia costiera “libica”, che neppure tale si può definire perchè priva di una unica centrale di coordinamento (MRCC) nulla si sa della struttura che gli italiani avrebbero dovuto allestire a Tripoli, ed espressione delle milizie e del governo che controllano soltanto una parte del paese, configura quindi gravi illeciti. Illeciti che potranno essere fatti valere sul piano internazionale, davanti al Tribunale penale internazionale ed alla Corte europea dei diritti dell’Uomo, di fronte alle istituzioni europee ed alla Corte di Giustizia UE di Lussemburgo, oltre che sul piano interno, di fronte ai giudici penali, ed anche davanti alla giustizia amministrativa. Che dopo essere arrivata, sulla base di un corretto richiamo al diritto internazionale, a sospendere nell’agosto del 2019 un divieto di ingresso inflitto ad una nave umanitaria (caso Open Arms), dopo un soccorso in acque internazionali, sembra oggi allineata agli indirizzi “sovranisti” del governo piuttosto che al rispetto dele Convenzioni internazionali e dei Regolamenti europei.
Come ricorda in un interessante articolo Alberto Pasquero “ Il 3 giugno 2019, i giuristi Omer Shatz e Juan Branco hanno presentato alla Procura della Corte Penale Internazionale (CPI) una Comunicazione in base all’articolo 15 dello Statuto di Roma, sollecitando un’indagine sulle responsabilità penali dei vertici dell’Unione europea e dei suoi Stati membri per crimini contro l’umanità commessi ai danni di persone migranti nel Mediterraneo e in Libia a partire dal 2013 fino ad oggi”. Nel settembre 2022, il procuratore della Corte penale internazionale (CPI) ha affermato in una dichiarazione che, secondo la valutazione preliminare del suo ufficio, i crimini contro i migranti in Libia “potrebbero costituire crimini contro l’umanità e crimini di guerra”.
Flavia Pacella, in un contributo del 2019, osservava al riguardo che “non sarebbe difficile per la Procura internazionale sostenere che la condotta dei nostri Ministri possa astrattamente configurarsi come agevolazione materiale ex art. 25(3)(c). In primo luogo, non vi può essere dubbio sul fatto che il supporto finanziario, tecnico e tecnologico italiano costituisca di per sé una condotta materialmente agevolatrice. In secondo luogo, tale contributo, poiché fornito direttamente alla Guardia costiera libica e agli altri soggetti statali che si occupano dei migranti, autori principali dei presunti illeciti, si pone in una relazione causale rispetto alla commissione dei crimini. Infatti, l’effetto immediato della condotta ministeriale è proprio quello di trattenere i migranti in territorio libico, aumentando in tal modo il numero di vittime e determinandone l’assoluta impossibilità di sottrarsi agli abusi”. Si aggiunge che “in particolare, la Procura dovrebbe sostenere che, sebbene le
autorità italiane abbiano agito con il fine primario e astrattamente legittimo di
interrompere i flussi migratori in entrata (e non certo di contribuire alla commissione di
crimini contro l’umanità nei confronti dei migranti), il fatto che esse abbiano concluso
gli accordi con la volontà di fornire un aiuto materiale alle autorità libiche e nella piena
consapevolezza che, nel normale corso degli eventi, si sarebbero verificati gravissimi
abusi, vuol dire che i ministri italiani hanno accettato il rischio (conosciuto) di agevolare
la condotta criminosa degli autori principali”.
La configurazione di una responsabilità penale internazionale delle autorità europee o italiane appare tuttavia priva di una immediata efficacia deterrente, per i tempi della giustizia internazionale e per la difficoltà della prova, consideranto che gli Stati hanno da tempo gli strumenti per nascondere le modalità operative di gestione dei controlli di frontiera dietro una ragnatela di competenze e lo scudo del segreto militare. Sarà allora necessario rivolgersi alla magistratura amministrativa, alle corti penali, ai tribunali civili, ed alla giurisdizione sovranazionale dell’Unione europea e del Consiglio d’Europa (Corte europea dei diritti dell’Uomo).
Occorre ricercare strumenti sanzionatori, sul piano della responsabilità penale a livello nazionale, ed anche nell’ordinamento dell’Unione Europea, una volta che si accerti una deliberata finalità elusiva di norme cogenti sancite dal diritto internazionale, euro-unitario e nazionale. Di fronte ai trattamenti inumani o degradanti inflitti alle persone bloccate in mare dalla sedicente guardia costiera libica e riportate nei centri di detenzione in Tripolitania, ad esempio, non può evitarsi il richiamo al reato di tortura, previsto anche nel nostro ordinamento, o all’omissione di soccorso, per riscontrare poi possibili complicità e le conseguenti responsabilità. Vanno denunciate tutte le responsabilità istituzionali nei casi di omessa o ritardata attività di ricerca e salvataggio (SAR) derivante dalla mancata risposta alle chiamate di soccorso da parte delle centrali nazionali o internazionali di coordinamento (MRCC). Al di là degli strumenti sanzionatori si dovrà valutare la possibilità di accedere alle misure riparatorie, come il risarcimneto del danno, le misure punitive a carattere pecuniario da parte della stessa Unione Europea, la responsabilità patrimoniale individuale degli agenti che hanno operato in violazione di norme e convenzioni internazionali.
Non basta, quindi, impugnare i provvedimenti di fermo amministrativo che mirano a bloccare le navi umanitarie che non si sono fatte coordinare dalle autorità libiche e che hanno condotto i naufraghi, soccorsi in acque internazionali, verso un porto sicuro che nè la Libia, nè la Tunisia potevano garantire. Qualora si accerti la violazione di Regolamenti europei, e queste violazioni fosero sistematiche, si potrebbe ricorrere alla Corte di Giustizia dell’Unione europea, sollecitando la magistratura nazionale a sollevare una serie di questioni pregiudiziali interpretative, anche per vagliare la conguenza della legislazione nazionale, e delle prassi correlate, con il quadro normativo unionale e in particolare con il Regolamento Frontex (oggi Guardia di frontiera e costiera europea) n.656/2014.
Occorre denunciare tutte quelle autorità e quelle centrali di coordinamento che collaborando nelle intercettazioni in mare delegate alle autorità libiche si rendono complici dei trattamenti inumani o degradanti riservati alle persone bloccate in acque internazionali e riportate in territorio libico. Nel corso degli anni, in diverse occasioni, il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa ha invitato il governo italiano a sospendere le attività di cooperazione in atto con la guardia costiera libica che incidono sul rimpatrio in Libia delle persone intercettate in mare ma questi inviti sono rimasti senza esito e le autorità europee ed italiane hanno sostenuto l’intensificazione dei rapporti di cooperazione operativa con i libici (e con la Tunisia).
Come ha osservato la Corte europea dei diritti dell’Uomo nel caso Hirsi, gli accordi sottoscritti nel tempo da Italia e Libia per il contrasto dell’immigrazione clandestina non permettono di escludere o limitare l’applicabilità delle norme internazionali di tutela dei diritti umani. La Corte ha ribadito che la proibizione di cui all’art. 3 CEDU (“Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”) è assoluta. Non possono esistere né accordi bilaterali, né circostanze eccezionali, che facciano venir meno le responsabilità degli Stati contraenti a questo riguardo. La Libia non ha ratificato la Convenzione di Ginevra del 1951 e ancora oggi i rapporti internazionali evidenziano l’assenza in quel Paese di qualunque procedura di asilo che garantisca uno status di soggiorno regolare. Per i libici tutti i richiedenti asilo sono migranti “illegali”.Né la presenza dell’UNHCR poteva, e può ancora oggi, considerarsi una garanzia sufficiente, considerato che le autorità libiche non attribuivano, e non attribuiscono, alcun valore allo status di rifugiato (par. 152 e 153); anzi, numerosi rimpatri forzati di migranti, inclusi rifugiati, erano stati denunciati da Human Rights Watch e UNHCR (par. 154). Rimpatri forzati che proseguono ancora oggi come emerge dai rapporti UNSMIL ai Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
5. Le persone migranti in acque internazionali non sono sottratte a qualsiasi giurisdizione
Per la Corte europea dei diritti dell’Uomo (sentenza Hirsi), «secondo il diritto internazionale in materia di tutela dei rifugiati, il criterio decisivo di cui tenere conto per stabilire la responsabilità di uno Stato non sarebbe se la persona interessata dal respingimento si trovi nel territorio dello Stato, o a bordo di una nave battente bandiera dello stesso, bensì se essa sia sottoposta al controllo effettivo e all’autorità di esso».
Secondo quanto rilevato dai giudici di Strasburgo, inoltre, ogniqualvolta uno Stato eserciti, attraverso suoi agenti che operino al di fuori del suo territorio, controllo e autorità su un individuo, si può parlare di esercizio extra-territoriale della giurisdizione (par. 74). Seppure non si possa verificare che i migranti intercettati dalle motovedette libiche in acque internazionali siano sotto il “continuo ed esclusivo controllo de iure e de facto” delle autorità italiane o di quelle europee, il ruolo di coordinamento esercitato attraverso il tracciamento aereo, e l’assistenza tecnica o operativa fornita alla sedicente Guardia costiera libica, che non appaiono finalizzati allo sbarco in un “porto sicuro”, come sarebbe imposto dalle Convenzioni internazionali, permettono di configurare precisi elementi di complicità delle autorità italiane ed europee. Complicità che si possono concretizzare sulla base di prove evidenti nella commissione di abusi e in generale nei trattamenti inumani o degradanti inflitti ai naufraghi ricondotti in territorio libico, che sono ben noti a queste stesse autorità, che con i loro agenti le rendono possibili, e che dunque ricadono sotto la giurisdizione italiana ed europea. Tutti gli atti che costituiscono un esercizio di giurisdizione, seppure concorrente con quella esercitata dalle autorità libiche, richiedono l’applicazione obbligatoria delle Convenzioni internazionali sui diritti umani e dei rifugiati ratificate dall’Italia e dagli altri Stati membri dell’Unione Europea. In altri termini gli accordi con i libici non sollevano l’Italia, o l’Unione europea, e le sue agenzie, dal rispetto delle Convenzioni internazionali in materia di soccorsi in mare e tutela dei rifugiati e richiedenti asilo, Se non sarà possibile fare valere queste responsabilità davanti alla Corte europea dei diritti dell’Uomo, per le difficoltà di fornire un quadro probatorio completo, rimane aperta la denuncia dei comportamenti dell’agenzia Frontex davanti agli organi di controllo ed alla Corte di Giustizia dell’Unione europea. Occorrerebbe comunque sospendere ogni forma di collaborazione con le autorità libiche finchè queste non assicurino il pieno ed effettivo rispetto dei diritti fondamentali della persona.
Si può anche ritenere che quando le centrali di cordinamento di Frontex o le autorità italiane ospitanti i mezzi di Frontex, comunichino con i libici la presenza di imbarcazioni tracciate in acque internazionali, all’interno della zona SAR “libica” queste autorità esercitino una giurisdizione effettiva sulle persone che si trovano a bordo dei barconi intercettati, dal momento che in acque internazionali ne determinano la sorte, e prima di quel tracciamento non vi era alcuna autorità statale che potesse esercitare su di loro la propria giurisdizione. Le Convenzioni internazionali di diritto del mare attribuiscono inoltre al primo RCC (centrale di coordinamento) contattato la responsabilità del coordinamento delle attività di ricerca e salvataggio, in attesa che queste vengano prese in carico dall’autorità statale competente, attesa che nel caso delle diverse guardie costiere libiche si rivela spesso vana. Se Frontex si ritiene obbligata ad informare le autorità libiche della presenza di imbarcazioni cariche di migranti nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale, la stessa agenzia, e gli Stati (Italia e Malta) che ne ospitano i mezzi, dovrebbero essere ritenuti responsabili per tutti i casi in cui le autorità libiche non inviano mezzi, o inviano mezzi di soccorso che causano la morte dei naufraghi, o ancora operano il trasferimento verso centri di detenzione in territorio libico, nei quali non sono garantiti i diritti fondamentali delle persone. Che non appena sbarcate a terra scompaiono nelle mani delle milizie che controllano il territorio con le armi.
In nessun caso le operazioni di ricerca e soccorso in acque internazionali dovrebbero essere coordinate da una autorità marittima di un paese che non può garantire porti sicuri di sbarco. Sono i paesi che possono garantire “porti sicuri di sbarco” che rimangono obbligati ad interventi di ricerca e soccorso anche al di fuori delle proprie zone SAR. Sarebbe questa una precisa ragione di nullità del Memorandum Italia-Libia del 2017 e delle correlate intese operative, almeno alla luce dell’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati, secondo cui “È nullo qualsiasi trattato che, al momento della sua conclusione, sia in contrasto con una norma imperativa di diritto internazionale generale. Ai fini della presente convenzione, per norma imperativa di diritto internazionale generale si intende una norma che sia stata accettata e riconosciuta dalla Comunità internazionale degli Stati nel suo insieme in quanto norma alla quale non è permessa alcuna deroga e che non può essere modificata che da una nuova norma di diritto internazionale generale avente lo stesso carattere”. Appare indubbio alla prova dei fatti, e dei rapporti internazionali, che l’applicazione del Memorandum d’intesa tra Italia e Libia e degli accordi tra le autorità europee ed il governo di Tripoli comportino la cancellazione totale del diritto di asilo delle persone intrappolate in Libia, ed abbia come conseguenza diffuse violazioni dei loro diritti fondamentali, fino alla lesione del diritto al soccorso in mare e del diritto alla vita. Diritti sanciti da Convenzioni internazionali nelle quali si possono rinvenire “norme imperative di diritto internazionale generale“.
Non si può ammettere in definitiva che per il gioco incrociato del riconoscimento di enormi zone SAR (di ricerca e soccorso) attribuite per ragioni politiche ed economiche alla Libia (ed a Malta), con gli accordi bilaterali che legano questi paesi tra loro ed all’Italia, sotto l’occhio vigile di Frontex, ci siano persone abbandonate in acque internazionali su imbarcazioni fatiscenti prive di bandiera, in situazione di grave pericolo (distress), ma che siano sottratte a qualsiasi giurisdizone, e poi abbandonate a milizie che nessuna autorità statale riesce a controllare, dunque persone i cui diritti fondamentali, a partire dal diritto alla vita, non potrebbero trovare tutela davanti a nessuna giurisdizione. Persone private di ogni diritto, persino del diritto alla vita, senza che ci sia nessun responsabile per la loro perdita. Fino al punto che chi osa soccorrerle in acque internazionali e chiede di sbarcarle in un porto sicuro, testimone di una sistematica omissione di soccorso da parte degli Stati costieri, rischia di essere sanzionato dagli artefici di queste politiche di morte che continuano a nascondersi dietro gli accordi bilaterali e le loro responsabilità istituzionali.
10/3/2024 https://www.a-dif.org/
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