Sui tratturi dei monti della Daunia
Sabato, spunta il sole all’orizzonte. Le pecore dei Fratelli Carrino, pensierose per il destino dei loro agnellini, mammelle rigonfie, vello arricciato, salutano con un accorato belato i monti della Daunia, circa mille metri di quota, a ridosso di Faeto, piccolo centro abitato della provincia di Foggia, dove si parla l’idioma franco-provenzale. Serbano gelosamente con sé – lo scruti nei loro sinceri occhi – il ricordo delle gustose erbe, brucate nei pascoli nelle tiepide stagioni, e rammentano con nostalgia l’accoglienza degli stazzi che le hanno riparate e difese nelle fresche nottate, quando con i loro dolci occhi sorridevano alle baluginanti stelle e chiacchieravano con la falce della luna calante che si dondolava nel cielo.
I cani, bianchi pastori abruzzesi, non stanno fermi un attimo. Controllano le prime file, girano sui fianchi e passano in rassegna la lenta retroguardia, obbligata ad accelerare il passo. Animali pragmatici, non abbaiano inutilmente. Loro! Chi (cani randagi, cinghiali, lupi o uomini) osasse insidiare le protette, sentirebbe affondare nelle proprie carni i robusti denti, e gli allevatori faticherebbero sette camicie a dischiuderne le salde mascelle.
Una ventina di chilometri da percorrere, oggi, del tratturello Camporeale-Foggia, diramazione del regio tratturo Candela-Pescasseroli. Il freddo incalza. Cade la pioggia. Insistente. I lampi fendono il cielo, i fulmini schizzano sulle elevate cime delle montagne e lacerano alberi isolati. Quasi immediatamente i tuoni rintronano nella valle. La lenta marcia continua imperterrita. Il vento, ululando, sferzando e facendo accapponare la pelle, non dà tregua. Incalza inclemente. Le infinite graminacee si piegano fino a toccar terra sotto le ripetute folate.
I pastori indossano un caldo maglione, pesanti pantaloni, scarponi e una giacca impermeabile con cappuccio. Le mani sono parzialmente coperte da guanti di lana, quella delle loro pecore. Sono intirizziti, nonostante la robusta protezione. Puntano strenuamente i piedi per terra e fanno fatica a resistere alle raffiche.
La processione continua a sfilare, umilmente, senza pompa, tabernacolo e banda. Né esplodono fuochi d’artificio. Solo cupi frastuoni risuonano indisturbati. Le foglie volano, atterrano e decollano di nuovo. Turbinano. Finiscono nelle pozzanghere e galleggiano. Il sordo scampanio del campanaccio del mastodontico montone echeggia a perdita d’occhio nelle sterminate lande, desolate. Chiama a raccolta il suo harem, non ne perde di vista neanche una delle sue protette. Squillano alcuni campanelli di pecore, che salutano con la coda le frettolose nuvole.
Le addormentate cime montuose, già scosse e strattonate dall’imperversare della bufera, si svegliano al richiamo sonoro, si guardano attorno e allungano l’aguzza testa. I massi erratici e le disseminate pietre rotolano lungo declivi battuti dal vento. Ciuffi di erba, nudi sterpi spinosi, brulli arbusti e radi alberi si assiepano lungo il percorso. Escono dalle tane i ciechi lombrichi, continuando a masticar terra. Solo le grotte e le nere cavità dall’eco angosciante restano accartocciate su sé stesse.
Cielo tetro. Nubi, nere come l’antracite. Siamo nel cuore di una bufera, capace di far decollare uomini ed animali. La resilienza soggiorna nelle azioni, parole ed emozioni dei tenaci pastori. Non demordono, procedono pervicacemente a passi cadenzati. Le pecore reagiscono, facendo massa compatta. Trotterellano impavide, mentre la loro urina scroscia tra le zampe posteriori, e le verdi deiezioni, disseminate e calpestate ripetutamente, fanno pensare ai sassolini di Pollicino.
Attraversiamo il bosco di Greci, paese di circa settecento abitanti in provincia di Avellino, che ha conservato nei secoli la lingua arbëreshe, un antico dialetto italo-albanese, unitamente alla cultura, ai costumi e alle tradizioni originarie. Siamo ad oltre ottocento metri sul livello del mare, su un’altura che domina la valle del Cervaro. Gli alberi d’alto fusto, leccio, roverella, ontano, pino d’Aleppo, stormendo rumorosamente si piegano, mentre i cespugli bassi e le erbe, per vedere più distintamente, si allungano sui verdi piedini nudi che affondano nella terra. In allerta, lepri, volpi, tassi, lupi cinghiali, la cui presenza fa rizzare le orecchie ai possenti cani dalle mascelle solide.
La Transumanza ora è patrimonio culturale dell’Unesco. L’ambito riconoscimento è stato concesso perché i pastori posseggono una conoscenza approfondita dell’ambiente, dell’equilibrio ecologico tra uomo e natura e valorizzano con la loro presenza il territorio incalzato dal dissesto idrogeologico, dalle inclemenze atmosferiche e dalle aggressioni umane.
Finalmente siamo nei pressi di Troia, cittadina sulle pendici del Subappennino Dauno a ridosso del Tavoliere delle Puglie. Forte fu il suo sviluppo sociale ed economico in età imperiale quando venne attraversata dalla via Traina, ricalcata nel medioevo dalla via Francigena. La concattedrale, dedicata alla Beata Vergine Maria Assunta in Cielo è uno dei capolavori dell’architettura romanica per le proporzioni e l’armonia della costruzione.
Gli animali possono riposare e alimentarsi. Durante il tragitto non hanno potuto consumare neppure uno spuntino erbaceo per l’inclemenza del tempo. Gli agnellini, che scalciavano con le zampette nell’utero materno per i sobbalzi, trovano finalmente quiete.
Gli ultimi, a sedersi a tavola e a distendersi sul letto, sono i tre fratelli legati da vincoli di sangue e dalla passione per gli animali e per la terra da coltivare. Allevano, allo stato brado nei pascoli aziendali, bufale di razza “Mediterranea”, bovini appartenenti al ceppo “Podolico Pugliese”, mille ovini di razza “Gentile di Puglia”, cavalli discendenti della razza “Pugliese”, asini di razza “Martina Franca” e “Amiatina”. Collaborano validamente e devotamente, Abib, Adem, Lumri tre giovani che hanno respirato da piccoli l’aria della Macedonia e Luciano, Basil, Ussein tre migranti che hanno rischiato di annegare nel Mediterraneo, dando l’addio al Senegal, l’amata terra natia.
Domenica, crepuscolo, rattrappiti, stiracchiando le braccia, si riparte. Dopo un’ora viene incontro la città di Troia con tre musicisti che, suonando zampogna, ciaramella e fisarmonica, rievocano le musiche della Novena. Durante la notte la pioggia ha tambureggiato sulle tegole e le lamiere di metallo, ora imperversa il vento. Intabarrati sui marciapiedi, ciuffi di adulti e bambini, riprendono con macchine fotografiche e smartphone l’incredibile processione di uomini e animali, seguita a debita distanza da alcune vetture di servizio. In alto, un’azzurra sportina di plastica viene sconquassata dalle raffiche inclementi.
Felice, il padre dei baldi pastori, scendeva ogni anno dal Molise per la transumanza. Ad Alberona si innamorò di Maria Grazia, una bella ragazza, e la sposò. Nacquero a distanza di pochi anni l’uno dall’altro tre figli, Cristoforo, Domenico e Gianfranco, imponenti per altezza e stazza, che hanno raccolto la pesante eredità dell’allevamento degli animali e della tutela ambientale. Sono entusiasti del loro lavoro, non lo cambierebbero con nessun altro al mondo. Nelle loro vene oltre al sangue umano scorre quello di ovini, bovini ed equini. Affrontano con levità la vita, ricorrendo all’ironia ed alla battuta di spirito. Grande condivisione, sinergia ed affabilità. “Abbiamo avuto un padre meraviglioso – confessano – La sua autorevolezza”, aggiungono, “lo portava ad ascoltare le nostre ragioni, ad argomentare ogni sua decisione. Mai si impuntava, e forte era il legame che lo univa a nostra madre, che lo adorava”.
Il tratturo, un tempo bianco e inerbato, ora, è in gran parte asfaltato. Solo qualche collinetta all’orizzonte e una sterminata pianura. Tante le pale eliche, che girando vorticosamente, accumulano energia pulita. Sulla nostra sinistra si intravede Lucera, frontalmente Foggia, mentre il profilo del Gargano ammicca dalla lontana marina.
Chiacchierate amabilmente, come se vi conosceste da tempo. Li informi di Angelo Giordano, l’agronomo di Ceglie Messapica, che si batte per l’autonomia alimentare e la biodiversità, favorendo la diffusione delle sementi locali. Riferisci di Vincenzo Paolillo che macina il Saragolla con un mulino a pietra, ottenendone una farina integrale che potenzia il sistema immunitario. Accenni alla “Masseria dei Monelli” di Conversano impegnata a produrre salsa a “sfruttamento zero”. Convenite che occorre fare rete, per valorizzare le immense risorse locali, ignorate, saccheggiate, devastate da molto tempo e pungolare i politici per la ripresa del Mezzogiorno.
Il gregge, lasciandosi alle spalle il comodo nastro bituminoso, imbocca una scorciatoia melmosa, impraticabile, costellata di pozzanghere ed acquitrini. I vostri piedi affondano profondamente, risuolandosi di uno spesso strato di fango scivoloso. Volano schizzi di melma ed improperi. Che brividi! Ecco l’antica Masseria Pavoni, risalente al XVII secolo, sita in agro di Lucera. Si affaccia sulla diga Capaccio, l’invaso idrico nei pressi del borgo San Giusto. L’Azienda pratica l’agricoltura biologica con indirizzo zootecnico, cerealicolo e olivicolo. Vengono coltivati grano duro e cereali minori, leguminose e piante foraggere destinate all’alimentazione del bestiame.
Sei accolto da Maria Grazia e Lina, sorelle che sposarono i fratelli Carrino. Oltre che dal tepore umano vieni gratificato dal calore prodotto da una stufa a legna, che riscalda anche l’acqua. Una famiglia patriarcale d’altri tempi. Genitori, fratelli, cognate e cugini condividono da tanti anni le gioie e le sofferenze della vita, portano avanti progetti e fatiche. Alle pareti, foto di cavalli, cani, pecore e bufale. Su uno stallone giganteggia la figura del patriarca Felice. Incede Maria Grazia, la figlia di Domenico, sorridente, con due orecchini giganti. Incantevole! Offre un album familiare. Un incessante susseguirsi di bellezze femminili; Veronica, sua cugina, bruna dagli occhi chiari, fasciata da un ammaliante vestito verde screziato di nero; Giada, l’altra cugina, piperina, sguardo malizioso; le figlie di Gianfranco, Claudia e Maria Grazia, affascinanti. In una foto le nipoti posano con lo zio Cristoforo.
Ai fornelli sono impegnate Lina, Antonella, moglie di Domenico e sua figlia Maria Grazia. Gli ingredienti emanano profumi che portano le ghiandole salivari a produrre cascate di ptialina. Un lungo tavolo accoglie i numerosi avventori, che assaporano pasta condita con pomodoro dolcissimo dell’azienda, carne di bufala, mozzarelle e ricotta di bufala, formaggi podolici, croccanti cartellate fatte in casa. Si brinda con vino di Troia. Un bicchierino di limoncello e… il caffè. Per un giorno tradisci la dieta vegana. Quando ti capiterà di nuovo, infatti, di gustare leccornie così deliziose? La tua coscienza, austera, comprende ma non condivide.
Buio, è l’ora della mungitura. Cristoforo legge nei miei occhi la voglia di mungere una pecora. Mi lavo le mani. Accarezzo le mammelle, prima l’una, poi, l’altra. Sono soffici e calde. Premo con due dita, come mi suggerisce. Nulla. Riprovo arrivando fino al lungo capezzolo. Finalmente… un getto sottile di latte finisce nella brocca, schizzando, e stille colpiscono il viso. Ero decisamente più bravo con mia madre, quando poppavo, ma allora in due anni avevo acquisito una bella esperienza!
Gli asini, i cavalli e le mucche vagano liberamente nei pascoli dell’azienda. Le bufale chiacchierano tra di loro nella fanghiglia, o si rifugiano sotto la tettoia. Trattori, escavatori, sollevatori e minuti attrezzi da lavoro dormono saporosamente.
Arrivano alle orecchie i gemiti di una bianca cagnetta che sta partorendo. Cristoforo, veterinario, amorevolmente se ne prende cura, ed uno dopo l’altro vengono scodellati due cuccioli neri, colore del mantello paterno. Ringrazi della splendida esperienza e con una generosa busta di ogni ben di Dio prendi la lunga e faticosa strada del ritorno a casa, riflettendo sulla distanza abissale dalla reale vita dei pastori della poesia di Gabriele D’Annunzio “Settembre andiamo, è tempo di migrare…”.
Domenico Dalba
28/12/2019 comune-info.net
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