Sulla responsabilità penale del RLS
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La sentenza
“Le parole sono importanti” dice il protagonista di un celebre film di qualche anno fa. E lo sono tanto più quando compaiono scritte in atti pubblici che, come le sentenze della magistratura, esprimono un giudizio su comportamenti e fatti. Le sentenze innanzitutto si rispettano. Ovviamente si possono anche commentare e finanche criticare. Se il commento pretende di essere scientifico occorre una specifica competenza, cosicché chi commenti scientificamente una sentenza penale non può non essere un attento conoscitore del diritto penale e della sua evoluzione, così come non può non conoscere lo specifico oggetto della sentenza.
Di norma, uno studioso del diritto del lavoro, quand’anche di lungo corso, non possiede tutte le competenze per commentare scientificamente a dovere una sentenza penale. Tuttavia, esiste una materia che, pur costituendo un ambito speciale del diritto penale, al tempo stesso rappresenta un naturale terreno di elezione del diritto del lavoro. Infatti, se il diritto della salute e della sicurezza sul lavoro, in virtù del carattere fondamentale dei beni che presidia, per un verso è costruito dal punto di vista normativo sulla base di categorie penalistiche (dalle posizioni di garanzia al principio di effettività, fino all’apparato sanzionatorio, essenzialmente penale), per altro verso fa necessariamente leva su concetti di chiara matrice giuslavoristica (dal datore di lavoro al dirigente, dai lavoratori ai loro rappresentanti), riferendosi ad ambiti (come l’impresa e le pubbliche amministrazioni, ma non solo) la cui attività si avvalgono essenzialmente dell’apporto del lavoro umano mediante le relazioni individuali e collettive che intercorrono tra chi dà lavoro e chi lo presta.
Senza dire poi che il principio che da più di ottant’anni ispira tutto il sistema prevenzionistico si rinviene pur sempre nell’inossidabile previsione dell’art. 2087 c.c.: una norma civilistico/lavoristica, assunta da sempre a cardine del sistema anche da parte della giurisprudenza penale e che, ad onta della sua natura di norma di legge ordinaria, nella sostanza opera come una sorta di grundnorm dellamateria, sulla quale peraltro incidono disposizioni di rango superiore come le convenzioni dell’OIL, le direttive europee e norme costituzionali come gli artt. 32 e 41. Se è vero che, nel momento in cui vengono in gioco sotto il particolare angolo visuale del diritto della salute e della sicurezza sul lavoro, quei concetti di chiara matrice giuslavoristica assumono contorni non sempre identici a quelli che li connotano nel diritto del lavoro (basti pensare alle figure del datore di lavoro e del dirigente), è però anche vero che in altri casi la dimensione tipicamente giuslavoristica o, per meglio dire, giussindacale, di certi istituti tende a mantenere gran parte del suo proprium pur se con qualche adattamento.
Infatti, sebbene la rappresentanza per la sicurezza sul lavoro promanata dalla direttiva quadro 89/391/CEE e poi materializzatasi nel contesto italiano con le figure del RLS e del RLST, sia una rappresentanza particolare per il suo carattere assolutamente necessario a differenza delle altre forme di rappresentanza dei lavoratori nei luoghi di lavoro, tuttavia – almeno nel caso del RLS – resta pur sempre uno strumento di tutela collettiva delle persone che lavorano che è diretta espressione della loro volontà, secondo i tradizionali meccanismi della rappresentanza sindacale.
D’altronde, non a caso, l’art. 50, comma 2, del d.lgs. n. 81/2008 afferma che nei confronti del RLS si applicano le stesse tutele previste dalla legge per le rappresentanze sindacali. E se il RLST non esprime direttamente la volontà dei lavoratori delle piccole imprese, essenzialmente perché in simili contesti è più difficile manifestarla, nondimeno, una volta individuato, diviene pur sempre a tutti gli effetti loro rappresentante come se essi stessi gli avessero conferito mandato.
Né può dimenticarsi che, in Italia, la dimensione della tutela collettiva per la salute e la sicurezza dei lavoratori era conosciuta ben prima dell’avvento della direttiva quadro del 1989 grazie al glorioso quanto purtroppo poco valorizzato art. 9 dello Statuto dei lavoratori del 1970. 2. Ammesso dunque che, data la pertinenza al diritto del lavoro del tema della rappresentanza in tema di sicurezza sul lavoro, chi coltiva il diritto del lavoro, nonostante la sua incompetenza penalistica, possa esprimere un’opinione su di una sentenza penale su quel tema, è soprattutto sulle parole utilizzate nella sentenza che vale la pena concentrare innanzitutto l’attenzione.
Se l’art. 2, lett. i,del d.lgs. n. 81/2008, sulla scorta della direttiva 89/391/CEE, ha definito “la persona eletta o designata per rappresentare i lavoratori per quanto concerne gli aspetti della salute e della sicurezza durante il lavoro” come “rappresentante dei lavoratori per la sicurezza”, e non già – come scritto nella sentenza (presumibilmente per un refuso) – come “responsabile dei lavoratori per la sicurezza”, qualche motivo deve pur esserci. E il motivo è semplicemente quello della consapevolezza che la endemica debolezza individuale dei lavoratori nei confronti della controparte datoriale esige di essere bilanciata dalla presenza di un soggetto che, rappresentandone collettivamente gli interessi, ne renda più effettivo il diritto ad un ambiente salubre e sicuro, come emerge d’altronde a più riprese nella citata direttiva del 1989 che evoca praticamente sempre insieme “i lavoratori e i loro rappresentanti”.
Se la stessa direttiva del 1989, affermando ripetutamente che i rappresentanti dei lavoratori “hanno una funzione specifica in materia di protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori”, identifica tale funzione esclusivamente nel rappresentare i lavoratori per i problemi citati, qualche motivo deve pur esserci. E il motivo è semplicemente che tale funzione – quanto mai importante e di per sé assai difficile da esercitare, come l’esperienza insegna ampiamente – non può essere confusa con alcun’altra. Se la stessa direttiva del 1989 riconosce ripetutamente a tali rappresentanti esclusivamente diritti – come d’altronde accade nell’art. 50 del d.lgs. n. 81/2008, là dove il termine “attribuzioni” evoca inequivocabilmente “diritti” – e non “compiti”, come invece si dice ripetutamente nella sentenza (e questo non pare un refuso), qualche motivo deve pur esserci. E il motivo è semplicemente che il termine “compiti” nel d.lgs. n. 81/2008 allude agli obblighi che esso impone a una serie di soggetti: in primis, quelli gravati di posizioni di garanzia (v. in tal senso l’art. 37, comma 7, in relazione al datore di lavoro, al dirigente e al preposto), oppure altri soggetti non gravati di posizioni di garanzia, come il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, in ragione della loro funzione di consulenza diretta nei confronti del datore di lavoro.
E se dunque, per un verso, il termine “compiti” tende a ricomprendere sia veri e propri obblighi per lo più penalmente sanzionati, sia funzioni che, ancorché non sanzionate, sono comunque necessarie per l’efficientamento del sistema di prevenzione aziendale, potendo comunque rilevare ex post sul piano del diritto penale comune ove il loro cattivo o omesso svolgimento possa rivelarsi concausa di un infortunio, per altro verso non pare dubbio che il termine “attribuzioni” evochi il riconoscimento di diritti, poteri e facoltà e non di doveri, sanzionati o meno che siano. Per inciso, va sottolineato come il legislatore pone esplicitamente un dovere in capo al RLS solo in relazione al rispetto delle disposizioni sulla privacy e del segreto industriale relativamente alle informazioni contenute nel documento di valutazione dei rischi e nel Duvri nonché al segreto in ordine ai processi lavorativi di cui venga a conoscenza nell’esercizio delle funzioni (art. 50, comma 6). Se il d.lgs. n. 81/2008 non ha previsto a carico del RLS alcuna sanzione non è solamente, come pure è evidente, perché in capo ad esso non vi sono posizioni di garanzia e doveri bensì solo attribuzioni, ma anche perché, dato il ruolo rappresentativo del RLS, la sua eventuale inefficienza può essere “sanzionata” esclusivamente sul piano della sua legittimazione, mediante la revoca della fiducia da parte dei rappresentati.
Così come, nel caso del RLST, la sua eventuale inefficienza, opportunamente segnalata dai lavoratori, può essere “sanzionata” dagli organismi da cui esso promana. Va da sé che nessun rilievo riveste il fatto che il d.lgs. n. 81/2008 preveda che il RLS non possa subire pregiudizio alcuno a causa dello svolgimento della propria attività, dal momento che tale previsione, che riguarda anche altri soggetti del sistema di prevenzione aziendale (come, ad esempio, il preposto), concerne esclusivamente il rapporto interprivato con il datore di lavoro e non ovviamente altri aspetti. 3. Qui lo studioso di diritto sindacale e del lavoro che si occupa di sicurezza sul lavoro si ferma e auspica che altri studiosi della materia – in primis i penalisti, ma non solo – vogliano esprimere su queste pagine la propria opinione su questa pronuncia.
Non trascurando le possibili ripercussioni “politiche” della sentenza specialmente in termini di possibile disincentivo a ricoprire il ruolo di RLS, al giurista non può non interessare verificare anche il fondamento delle argomentazioni sulla cooperazione colposa del RLS. Ferma restando l’importanza dei fatti di causa e della loro valutazione e considerando che, a quanto consta, la sentenza – anche per l’evidente difficoltà di individuare una posizione di garanzia in capo al RLS – pare ricostruire la colpevolezza del RLS non tanto in base all’art. 40, capoverso, c.p., ai sensi del quale “non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”, sarebbe comunque interessante capire se sia ammissibile parlare di cooperazione colposa ai sensi dell’art. 113 c.p. – ai sensi del quale “nel delitto colposo, quando l’evento è stato cagionato dalla cooperazione di più persone, ciascuna di queste soggiace alle pene stabilite per il delitto stesso” – ove il soggetto non solo non abbia alcun obbligo giuridico in merito, ma non disponga neppure di alcun potere di intervenire direttamente sull’organizzazione aziendale, essendo invece titolare solo di prerogative e diritti.
In altri termini, se il mancato esercizio di tali diritti possa essere considerato un comportamento omissivo equivalente nei fatti alla mancata adozione delle cautele necessarie per tutelare la sicurezza dei lavoratori. Detto altrimenti, sarebbe ammissibile intravvedere nei tipici strumenti di tutela collettiva del diritto sindacale, come il diritto di consultazione e gli altri diritti di partecipazione previsti dal d.lgs. n. 81/2008, anche doveri di prevenzione e protezione?
Questi sono, ovviamente, solo alcuni possibili spunti di riflessione e la Rivista è grata fin da ora a chi vorrà offrire il proprio contributo sul tema.
Paolo Pascucci
Direttore di Diritto della Sicurezza sul Lavoro
10/10/2023 journals.uniurb.it
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