Suruwa e Salima travolti nella pacchia dei profughi
La pioggia e il fuoco. La prima sui corpi di chi è costretto a dormire per strada, il secondo, ancora una volta, nell’inferno legalizzato della tendopoli di San Ferdinando. Due facce di una stessa medaglia, il decreto Salvini, che sbatte fuori casa i migranti, nottetempo, abbandonandoli al proprio destino. Sono storie che si incrociano quelle di Suruwa Jaithe e di Yousuf, Faith e la loro bimba di soli sei mesi. Il primo morto carbonizzato nel rogo che si è sviluppato in una tenda, i secondi lasciati per strada, senza alcun preavviso.
Aveva solo 18 anni e veniva dal Gambia Suruwa, che gli amici chiamavano “Sparo”. Viveva 44 chilometri più a nord della tendopoli, a Gioiosa Ionica, nello Sprar, dove sarebbe rimasto fino a marzo. Destinatario di protezione umanitaria, non sarebbe stato buttato per strada, come accaduto a tanti negli ultimi giorni. Ma il destino lo ha inseguito e trovato comunque. A San Ferdinando, nella notte tra sabato e domenica, era solo ospite di un amico. Ma il fuoco – sulla cui natura ora indagano i carabinieri – lo ha ucciso. I suoi amici, sentiti ieri dagli inquirenti, hanno un sospetto atroce: che quell’incendio possa essere stato appiccato da qualcuno. «Due persone che vivono nel campo sono venute a cercarlo raccontano all’Ansa – Quando abbiamo chiesto perché, hanno risposto: “niente, niente”, e se ne sono andati. Poco dopo è scoppiato l’incendio». È un inferno quella tendopoli, anche secondo il ministro dell’Interno Matteo Salvini, che pochi mesi fa aveva visitato il campo dopo la morte del sindacalista Soumayla Sacko, ucciso a colpi di fucile mentre cercava delle lamiere per costruire un riparo. Un posto in cui «non si respira», aveva detto. Lo stesso posto dove, pochi mesi prima, era morta anche Becky Moses, proprio come Suruwa, bruciata nella baracca in cui dormiva, dopo essere stata costretta a lasciare Riace. E due anni prima era toccato a Sekinè Traorè, 26enne maliano, ucciso dal colpo di pistola sparato da un carabiniere. Si muore di freddo o di fuoco, nei giorni in cui non è il caporalato ad uccidere o umiliare. Secondo le prime ricostruzioni, Suruwa sarebbe morto per un tragico destino, dal fuoco incontrollato salito da un braciere usato per scaldarsi da chi dorme per terra. «Era venuto in Italia un anno fa, voleva studiare. E adesso non c’è più», dice disperato Soumbu Jaithe, fratello di Suruwa. Quando è arrivato in Italia era finito in un centro a Stilo, sempre nel reggino, poi, dopo aver compiuto 18 anni il primo gennaio scorso, la Prefettura lo aveva trasferito a Gioiosa Ionica, tra marzo e aprile. «Frequentava i corsi – spiega Giovanni Maiolo, responsabile dello Sprar di Gioiosa – era un ragazzo assolutamente tranquillo, mai scontroso, con una certa timidezza. Oggi ( ieri, ndr) avrebbe dovuto fare un colloquio per stabilire, in base alle sue competenze, quale tirocinio formativo fare. E che purtroppo non farà più». A lui, spiega Maiolo, non sarebbe toccata la sorte prevista dal decreto sicurezza. «Riguarda i migranti nei Cara e nei Cas – conclude – A Rosarno era andato semplicemente a trovare degli amici, come hanno confermato i suoi coinquilini. Lo faceva spesso, anche per comprare del cibo africano che si trova solo negli spacci. Siamo sconvolti. Come Recosol vogliamo farci carico dei costi per riportare la salma a casa sua».
Di quella tragica notte rimangono i video di alcuni migranti, che hanno ripreso il fuoco divorare tutto. Sono le loro stesse voci a ripetere disperate di aver dovuto spegnere il fuoco da soli, perché il camion dei vigili del fuoco «è arrivato senza acqua». Un «luogo della morte riservato agli scarti dell’umanità», dice Domenico Lucano, sindaco sospeso di Riace, città dell’accoglienza. Un’accoglienza smantellata, mentre la tendopoli rimane in piedi. «Così finisce la pacchia di chi viene per trovare la vita e incontra la morte», si dispera.
IL PRESEPE VIVENTE DI CROTONE
Qualcuno li ha già ribattezzati così Yousuf, Faith e la loro bimba di soli sei mesi, finiti per strada, venerdì sera, per via del decreto Salvini. Li chiamano così per quella foto che li ritrae smarriti, rifiutati, con gli occhi fissi nel vuoto, dopo aver trascorso gli ultimi tempi nel Cara di Isola Capo Rizzuto, macchina statale dell’accoglienza che per la Dda è finita in mano alla ‘ ndrangheta. Si sono visti prelevare dalle loro stanze e portare alla stazione di Crotone, assieme ad altre 23 persone, sotto la pioggia, scaricati su un marciapiede. Rischiavano di passare la notte per strada, ma a loro e ad altre tre persone ci ha pensato la Croce Rossa. Perché oltre a quella famiglia – con Faith incinta al terzo mese – c’erano anche due donne vittime di tratta e una persona con problemi psichici. «Sono usciti dal Cara in quanto richiedenti asilo – spiega Francesco Parisi, presidente della Croce Rossa – e avendo terminato l’iter burocratico, anche se regolari, devono trovare un’altra sistemazione». La macchina organizzativa si è messa in moto, sollecitata dalla Caritas, e così Parisi ha trovato un tetto a quelle persone, in una struttura dell’associazione. Delle altre 17, alcune sono state ospitate in altre strutture da organizzazioni del luogo, altre sono rimaste per strada. «Negli occhi di quella mamma e di quel papà – racconta – ho visto soprattutto desolazione, frustrazione, senso di smarrimento. È successo tutto in fretta, non hanno dato loro nemmeno il tempo di capire come far fronte da soli ad una situazione del genere». Perché i migranti non sapevano nulla, pensando solo che quel furgone sul quale li hanno caricati li portasse in una nuova casa. E invece sono finiti per strada.
Nella sede della Croce Rossa i volontari hanno sistemato una culla da campeggio, uno scaldabiberon e riserve di latte pediatrico. Lì, dice Parisi, potranno rimanere finché non troveranno «una situazione più stabile e più dignitosa». Mangiano alla mensa, ma da ora ci penserà un catering. E Crotone, aggiunge, non è rimasta a guardare: «la popolazione ha risposto portando giocattoli, cibo e altro. Per un periodo avevo pensato la solidarietà non esistesse più, considerata la dilagante intolleranza e anche l’antisemitismo che si respira in questo periodo. È stato bello». Ma il problema, aggiunge, è la convinzione diffusa che dietro l’accoglienza ci sia un business, «una cosa che mi indigna perché non rende giustizia a chi – dice commosso – dedica parte della propria vita a rispondere a queste esigenze». Ora, stando ai dati, circa mille persone, in Calabria, rischiano di finire fuori dal circuito dell’accoglienza. Ma i numeri non contano: «in questo momento il dato essenziale è che ci sarà gente costretta a dormire per strada, contravvenendo il fine stesso del decreto, che era quello di portare sicurezza. Ma come si fa con bambini, vittime di tratta, malati? Bisogna considerare le vulnerabilità, al di là dei numeri. Anche un solo uomo abbandonato è una sconfitta».
Simona Musco
3/12/2018 http://ildubbio.news
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