“La guerra è sempre solo una sconfitta. Davanti al Presepe, per il Natale, chiediamo la pace”. Così il Papa due giorni fa. Possiamo ricordare qualche dato, e riflettere se possa fare qualcosa per la pace il nostro paese. Il numero di conflitti armati è il più alto dalla guerra mondiale. Ecco i maggiori, con il totale stimato di morti dall’inizio delle ostilità: Myanmar 200mila morti, Palestina-Israele 50mila morti, insurrezioni nel Maghreb 50mila morti, conflitti armati interni in Messico 350mila morti, Russia-Ucraina 200mila morti, Etiopia 500mila morti, Sudan 12mila morti, Colombia 450mila morti, Afghanistan 2 milioni di morti, Somalia 500mila morti, Repubblica Democratica del Congo 900mila morti, Nigeria 95mila morti, Iraq 1 milione di morti, South-Sudan 400mila morti, Boko Haram 360mila morti, Siria 500mila morti, Yemen 370mila morti. Trascuro molti conflitti «minori», anche se chi muore in un conflitto «minore» non muore di meno.
Due miliardi di esseri umani, uno su quattro, vivono in paesi coinvolti in conflitti. Le spese militari globali non sono mai state così alte. Hanno superato 2200 miliardi di Euro all’anno, cresciute quasi del 4% in termini reali dall’anno scorso. L’Europa ha visto la più forte crescita di spese militari degli ultimi trent’anni, +13%. Le tensioni sono cresciute bruscamente. Il commercio mondiale, che aveva reso prosperi i decenni passati, è ostacolato dalla richiesta di «decoupling» strategico delle economie: non ci si fida più gli uni degli altri. Le narrazioni reciproche di paesi avversari, compresi i nostri, hanno iniziato a descriversi vicendevolmente come demoniache. Nelle parole del Segretario Generale dell’ONU «Il mondo è a un punto di svolta».
Politicamente il mondo si sta separando in due blocchi di natura diversa. Da un lato un Occidente ora dominato da un solo paese, gli Stati Uniti, che si arroga a gran voce la leadership globale, spende più di ogni altro in armi, ha un migliaio di basi militari che costellano il pianeta, e un apparato industriale militare che si arricchisce. Ma dal Vietnam all’Afghanistan non ha fatto che perdere guerre contro nemici militarmente più deboli, e mancare gli obiettivi politici delle azioni militari, come in Iraq o in Libia. Guerre spesso iniziate con pretesti rivelatisi falsi, come in Vietnam o in Iraq. In oltre 30 conflitti, gli Stati Uniti sono in guerra dalla guerra mondiale, senza – a parte l’attentato alle torri – essere stati attaccati.
Dall’altro lato, il conglomerarsi di una galassia di paesi che sono cresciuti più rapidamente dell’Occidente, e formano la maggioranza demografica e ora anche economica del mondo. Il solo BRIC, inizialmente composto da Brasile, India, Cina e Russia e recentemente allargato, ha un’economia superiore a quella occidentale, e discute su come svincolarsi dalla sudditanza al dollaro. Questa parte comprende le grandi democrazie del pianeta, come India, Indonesia e Brasile, paesi come la Cina guidati da un partito comunista che ha ottenuto successi economici sbalorditivi unici nella storia, e un paese come la Russia, con un arsenale nucleare comparabile a quello statunitense. Interessi diversi, ma tutti sempre più insofferenti alla auto-proclamata leadership americana, che non ha più sufficiente forza economica, peso politico, o autorità morale per imporsi. Ancora meno per contenere il dilagare delle guerre.
Il «punto di svolta», indicato dal Segretario Generale del’ONU, ribadito da gran parte dei leader mondiali è l’alternativa fra due strade: da una parte la gestione multipolare, democratica, condivisa, dei problemi comuni, in cui gli interessi del pianeta intero siano tenuti in conto. Dall’altra, la determinazione degli Stati Uniti a spaccare il pianeta fra alleati e nemici, e imporre la supremazia di una minoranza, mascherandosi con la retorica vuota delle democrazie contro gli stati criminali. L’alternativa è se pensare in termini di conflitto o di collaborazione. Cercare di vincere guerre oppure fermarle ed evitarle. Il mondo, compresa una parte nutrita dei cittadini dell’occidente, chiede di fermare le guerre. Alle Nazioni Unite abbiamo appena visto gli USA mettere il veto alle richieste pressoché unanimi di un cessate il fuoco.
L’Italia dei decenni passati ha saputo giocare un ruolo di cerniera con altre regioni del mondo. Il nostro paese è caratterizzato da un sincero pacifismo culturale, nutrito anche dalle sue vive radici cristiane. Potrebbe portare una voce preziosa di saggezza e lungimiranza in Europa e all’interno dell’Alleanza Atlantica, frenandone il bullismo, chiedendo ascolto del resto del mondo, lavorando per democrazia globale e un pacifico multilateralismo. Se i paesi si rispettano e pensano a convivere invece che dominare o insultarsi, il mondo è abbastanza grande per tutti. Possiamo vivere in pace, senza farci imporre nulla dagli altri, ma senza imporci con la violenza. Senza intervenzionismi mascherati da crociate ideologiche. Le guerre finiscono quando si decide che la pace vale più della vittoria, e i problemi non finiscono con i massacri: si risolvono con la politica, dando il voto alle persone.
Nella campagna elettorale dell’attuale primo ministro, idee in questa direzione non erano assenti. C’era un’Italia che non fosse pavida, stesa a zerbino sotto le decisioni di potenze esterne, quando queste manchino di lungimiranza. Capisco che il primo partito al governo, matricola in deficit di credibilità, abbia cercato appoggio dai nostri alleati stretti. Ma spero che questa fase sia superata, e l’Italia sappia contribuire alla pace del mondo con qualcosa di più serio e ragionato che partecipare come uno zimbello alle guerre dei signori d’oltre oceano, che spacciano per operazioni di polizia una miope difesa a oltranza del dominio che stanno perdendo. «La guerra è sempre solo una sconfitta. Davanti al Presepe, per il Natale, chiediamo la pace». Io provo a chiederla, rispettosamente, come impegno del mio governo.
https://www.blog-lavoroesalute.org/wp-content/uploads/2015/11/biani-guerre.png739590franco.cilentifranco.cilenti2023-12-25 07:21:332023-12-25 07:21:55Un punto di svolta per capire cosa possiamo fare per la pace
Piccola Italia. «Siamo in guerra ma facciamo finta di niente e siccome non si è passati neppure da un dibattito parlamentare le nostre forze politiche, con qualche rara eccezione, fanno gli gnorri. Si va avanti così nella ‘guerra mondiale a pezzi’», la premessa sul Manifesto. La vergogna Onu che ci ha raccontato ieri Piero Orteca. Ora Alberto Negri sulle ignavie italiane mentre la ‘guerra mondiale a pezzi’, cresce e divampa.
Le nuove guerre che zitti zitti ci preparano. I ‘Grandi’ a leadership sempre più cadenti ad ordinarle, gli Ignavi sempre più servili, ad obbedire.
Guerra nel Mar Rosso: Houthi, un po’ all’Iran e alla Russia
Al decollo il coinvolgimento Usa ed europeo nel momento in cui gli Houthi, alleati di Teheran, hanno deciso di bersagliare con i droni le navi mercantili nel Mar Rosso dirette in Israele. Con Washington che guida una coalizione navale di una ventina di Paesi tra cui l’Italia.
In guerra a fingere che non c’è
Siamo in guerra ma facciamo finta di niente e siccome non si è passati neppure da un dibattito parlamentare le nostre forze politiche, con qualche rara eccezione, fanno gli gnorri. Si va avanti così nella «guerra mondiale a pezzi» di cui parlava papa Francesco e sulla quale ci facciamo quasi sempre un’opinione quando tornare alla diplomazia diventa impossibile.
Israele dopo Gaza guarda al Libano
Il conflitto in Medio Oriente si è già allargato con i missili tra gli sciiti Hezbollah e Israele su un confine dove lo Stato ebraico ha mobilitato 200mila soldati ed evacuato 80mila civili. Manovre per tenere sotto controllo la frontiera? In realtà sia Hezbollah che Teheran non sembrano intenzionati ad avviare un conflitto in grande stile: «La Siria ci è costata tantissimo», mi dice un diplomatico iraniano, mentre Israele con il suo ministro della difesa Gallant minaccia di tanto in tanto «di far tornare il Libano al Medio Evo». L’equilibrio qui appare sempre appeso a in filo.
Israele-Golan
Tutti i giorni, o quasi, Israele, partendo dal Golan che occupa dal 1967 (nonostante una recente risoluzione Onu gli imponga il ritiro), bombarda in Siria le postazioni di pasdaran iraniani ed Hezbollah libanesi, così come le milizie sciite bersagliano le basi americane nella regione petrolifere di Deir Ez-Zor che Washington non ha nessuna intenzione di mollare.
Israele-Siria
I raid israeliani in Siria sono il segnale che quell’accordo tra Putin e Netanyahu regge ancora: mai Mosca ha protestato contro il governo di Tel Aviv che prende di mira i maggiori alleati dei russi in Medio Oriente. La Siria, dopo l’inizio della rivolta contro Bashar Assad nel 2011, è diventata una sorta di condominio militare che racchiude guerre e rivalità degli ultimi decenni. A cominciare dall’Isis, che partendo dall’Iraq nella sua guerra rivolta soprattutto contro gli sciiti e i loro alleati, prima che contro l’Occidente, è ancora presente.
L’ex Isis mai morta
Idlib e provincia sono il santuario di vari gruppi jihadisti, la Russia, storica protettrice di Damasco, ha le sue basi militari siriane, mentre la Turchia occupa fasce consistenti di territorio nel nord della Siria dove ha massacrato i curdi con l’assenso americano, dopo che questi erano stati stoici alleati dell’Occidente contro il Califfato.
Guai americani in Iraq
Gli americani per altro hanno anche seri problemi con le milizie sciite in Iraq, circa 250mila uomini più forti dello stesso esercito iracheno. Dal 2003 con la guerra lanciata dagli Usa contro Saddam Hussein la Mesopotamia ha visto centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi. In vent’anni da allora queste ferite non si sono rimarginate.
Medio Oriente allargato
Se poi si volge lo sguardo al «Medio Oriente allargato» i motivi di preoccupazione sono molteplici. A partire dalla guerra civile in Sudan tra i due generali Burhan ed Hemetti clamorosamente uscita dai nostri riflettori, ma che continua con durissimi combattimenti e una tragedia umanitaria: secondo le Nazioni unite, il conflitto in Sudan ha causato da aprile almeno dodicimila vittime e più di sei milioni di sfollati.
Afghanistan illusoriamente rimosso
Per non parlare di quanto accade in Afghanistan, travolto da una crisi umanitaria senza precedenti, dove gli Usa congelano i fondi del governo talebano e impediscono persino l’attività umanitaria di base. Eppure sono stati loro a riconsegnare il paese dopo 20 anni ai talebani prima con gli accordi di Doha e poi con la fuga da Kabul nel 2021.
Adesso Abramo dice no
Soltanto uno sprovveduto poteva dichiarare che «il Medio Oriente è tranquillo» come ha fatto Sullivan. A meno che non si fosse così ottimisti (o sconsiderati) pensando di stendere un velo sulla regione con il ‘Patto di Abramo’, che puntava a ottenere il riconoscimento dello Stato ebraico da parte di Paesi come gli Emirati, il Bahrein, il Marocco, il Sudan e, soprattutto, l’Arabia Saudita. Ma ora tutto quanto è finito un binario morto a causa del conflitto in corso nella Striscia.
Pulizia etnica modello balcanico con applausi occidentali
Ora su Gaza, dopo le rappresaglie indiscriminate e decine di migliaia di morti, si aggira lo spettro dell’espulsione dei palestinesi. Con la conferma alla presidenziali egiziane del generale Al Sisi, si sono moltiplicate le pressioni sul Cairo perché si prenda i gazawi, o almeno una parte di loro. Una questione esplosiva e un’opzione per ora respinta da al-Sisi.
Eppure in un paio di mesi l’Egitto ha ricevuto, o ottenuto la promessa, di prestiti e aiuti per 26 miliardi di dollari, 9 miliardi di euro dall’Unione europea. Dietro le quinte si sta già scrivendo un storia amara sulla pelle dei palestinesi.
https://www.blog-lavoroesalute.org/wp-content/uploads/2023/12/immagine-144.png7201280franco.cilentifranco.cilenti2023-12-25 07:18:092023-12-25 07:18:12‘Guerra mondiale e pezzi’ denunciata dal Papa che per l’Italia ufficiale non c’è
Quando il Presidente israeliano Isaac Herzog descrisse l’assalto a Gaza come una guerra “per salvare la civiltà occidentale, per salvare i valori della civiltà occidentale”, in realtà non mentiva. Stava dicendo la verità, forse non proprio nel modo in cui la intendeva.
Quando il Presidente israeliano Isaac Herzog descrisse l’assalto a Gaza come una guerra “per salvare la civiltà occidentale, per salvare i valori della civiltà occidentale”, in realtà non mentiva. Stava dicendo la verità, forse non proprio nel modo in cui la intendeva.
La distruzione di Gaza viene infatti perpetrata in difesa dei valori occidentali, ed è di per sé una perfetta incarnazione dei valori occidentali. Non i valori occidentali che si insegnano a scuola, ma quelli nascosti che non vogliono guardiamo. Non la confezione attraente con gli slogan pubblicitari sull’etichetta, ma il prodotto che c’è effettivamente dentro la scatola.
Per secoli la civiltà occidentale è dipesa fortemente dalla Guerra, dal Genocidio, dal Saccheggio, dal Colonialismo e dall’Imperialismo, che ha giustificato utilizzando narrazioni basate sulla religione, sul razzismo e sulla supremazia etnica, tutte cose che vediamo oggi manifestarsi nell’incenerimento di Gaza.
Ciò a cui assistiamo a Gaza è una rappresentazione molto chiara di ciò che è veramente la civiltà occidentale rispetto a tutte le insensatezze sulla libertà e sulla democrazia che abbiamo imparato a scuola.
Una rappresentazione molto più chiara della civiltà occidentale di tutta l’arte e la letteratura con cui ci siamo orgogliosamente vantati nel corso dei secoli.
Una rappresentazione molto più chiara della civiltà occidentale rispetto all’amore e alla compassione attorno a cui ci piace far finta che ruotino i nostri valori giudaico-cristiani.
È stato così surreale guardare la destra occidentale blaterare di quanto sia selvaggia e barbara la cultura musulmana nel mezzo della resurrezione dell’islamofobia dell’era Bush nel 2023, anche mentre la civiltà occidentale provocava la morte di 10.000 bambini.
Quella montagna di bambini morti è una rappresentazione della cultura occidentale molto più rappresentativa di qualsiasi cosa Mozart, Da Vinci o Shakespeare abbiano mai prodotto.
Questa è la civiltà occidentale. Questo è quello che sembra.
La civiltà occidentale, dove Julian Assange attende il suo appello finale a febbraio contro l’estradizione statunitense per il giornalismo che ha denunciato i crimini di guerra statunitensi.
Dove veniamo alimentati da un diluvio ininterrotto di propaganda mediatica per apporre il nostro consenso a guerre e aggressioni che hanno ucciso milioni di persone e prodotto decine di milioni di sfollati solo nel 21° secolo.
Dove siamo tenuti distratti da insulsi divertimenti e guerre culturali artificiali in modo da non pensare troppo a cosa sia questa civiltà e chi sta uccidendo, mutilando, affamando e sfruttando.
Dove i cicli di notizie sono dominati più dai pettegolezzi sulle celebrità e dalle ultime sparate di Donald Trump che dalle atrocità di massa che vengono attivamente agevolate dai governi occidentali.
Dove i liberali si congratulano con se stessi per avere opinioni progressiste su razza e genere mentre i funzionari che eleggono aiutano a fare a pezzi i corpi dei bambini con esplosivi militari.
Dove gli ebrei sionisti concentrano se stessi e le proprie emozioni perché l’opposizione a un Genocidio attivo li fa sentire come se fossero perseguitati, e dove i sostenitori di Israele che non sono ebrei continuano a sentirsi perseguitati.
Dove un gigantesco impero mondiale alimentato dal Militarismo, dall’Imperialismo, dal Capitalismo e dall’Autoritarismo divora la carne umana con un appetito insaziabile mentre ci vantiamo per quanto siamo migliori di nazioni come l’Iran o la Cina.
Questi sono i valori occidentali. Questa è la civiltà occidentale.
Chiedete a qualcuno di dirvi quali sono i suoi valori e vi riempirà di aneddoti dal suono piacevole sulla famiglia, sull’amore, sulla cura o altro. Osservate le loro azioni per vedere quali sono i loro valori reali e spesso otterrete una storia molto diversa.
Siamo noi. Questa è la civiltà occidentale. Diciamo che diamo valore alla libertà, alla giustizia, alla verità, alla pace e alla libera espressione, ma le nostre azioni dipingono un quadro molto diverso. I veri valori occidentali, il vero prodotto racchiuso nella scatola sotto l’attraente etichetta, sono quelli che vedete messi in atto oggi a Gaza.
Caitlin Johnstone è una giornalista indipendente di Melbourne, Australia. I suoi scritti politici possono essere trovati su Medium e sulla sua pagina Facebook.
https://www.blog-lavoroesalute.org/wp-content/uploads/2023/12/immagine-140.png12002000franco.cilentifranco.cilenti2023-12-25 06:39:062023-12-25 06:39:08Le atrocità di Gaza appartengono ai valori occidentali
Pagine Esteri, 20 dicembre 2023. Secondo il portavoce delle forze armate israeliane, al 10 novembre, durante i primi 35 giorni di combattimenti, Israele ha attaccato un totale di 15.000 obiettivi a Gaza. Secondo diverse fonti, si tratta di una cifra molto alta rispetto alle quattro precedenti grandi operazioni nella Striscia. Durante “Guardian of the Walls” nel 2021, Israele ha attaccato 1.500 obiettivi in 11 giorni. Durante “Protective Edge” del 2014, durata 51 giorni, Israele ha colpito tra i 5.266 e i 6.231 obiettivi. Durante “Pillar of Defense” del 2012, sono stati attaccati circa 1.500 obiettivi in otto giorni. In “Cast Lead”, nel 2008, Israele ha colpito 3.400 obiettivi in 22 giorni.
Fonti dell’intelligence che hanno prestato servizio nelle precedenti operazioni hanno anche riferito a +972 e Local Call che, per 10 giorni nel 2021 e per tre settimane nel 2014, un tasso di attacco di 100-200 obiettivi al giorno ha portato a una situazione in cui l’aviazione israeliana non aveva più obiettivi di valore militare. Perché allora, dopo quasi due mesi, l’esercito israeliano non ha ancora esaurito gli obiettivi nell’attuale guerra?
La risposta potrebbe risiedere in una dichiarazione del portavoce dell’IDF del 2 novembre, secondo la quale l’IDF sta utilizzando il sistema di intelligenza artificiale Habsora (“Il Vangelo”), che secondo il portavoce “consente l’uso di strumenti automatici per produrre obiettivi ad un ritmo veloce e funziona migliorando il materiale di intelligence accurato e di alta qualità in base alle esigenze [operative]”.
Nella dichiarazione, un alto funzionario dell’intelligence afferma che grazie ad Habsora è possibile creare obiettivi per attacchi di precisione “causando grandi danni al nemico e danni minimi ai non combattenti. Gli operativi di Hamas non sono immuni – non importa dove si nascondano”.
Secondo fonti di intelligence, Habsora genera, tra l’altro, raccomandazioni automatiche per attaccare le residenze private dove vivono persone sospettate di essere agenti di Hamas o della Jihad islamica. Israele effettua poi operazioni di assassinio su larga scala bombardando pesantemente queste abitazioni.
Habsora, ha spiegato una delle fonti, elabora enormi quantità di dati che “decine di migliaia di agenti dell’intelligence non potrebbero elaborare” e raccomanda siti di bombardamento in tempo reale. Poiché la maggior parte degli alti dirigenti di Hamas si reca nei tunnel sotterranei all’inizio di qualsiasi operazione militare, le fonti affermano che l’uso di un sistema come Habsora consente di localizzare e attaccare le abitazioni di agenti relativamente giovani.
Un ex ufficiale dei servizi segreti ha spiegato che il sistema Habsora consente all’esercito di gestire una “fabbrica di assassini di massa”, in cui “l’enfasi è sulla quantità e non sulla qualità”. Un occhio umano “esaminerà gli obiettivi prima di ogni attacco, ma non ha bisogno di dedicare loro molto tempo”. Poiché Israele stima che ci siano circa 30.000 membri di Hamas a Gaza, e che siano tutti condannati a morte, il numero di potenziali obiettivi è enorme.
Nel 2019, l’esercito israeliano ha creato un nuovo centro che mira a utilizzare l’intelligenza artificiale per accelerare la generazione di obiettivi. “La Divisione Amministrativa degli Obiettivi è un’unità che comprende centinaia di ufficiali e soldati e si basa sulle capacità dell’IA”, ha dichiarato l’ex capo di Stato maggiore dell’IDF Aviv Kochavi in un’intervista approfondita con Ynet all’inizio di quest’anno.
“Si tratta di una macchina che, con l’aiuto dell’IA, elabora molti dati meglio e più velocemente di qualsiasi umano, e li traduce in obiettivi da attaccare”, ha proseguito Kochavi. “Il risultato è stato che nell’operazione Guardian of the Walls [nel 2021], dal momento in cui questa macchina è stata attivata, ha generato 100 nuovi obiettivi ogni giorno. Vedete, in passato a Gaza c’erano periodi in cui creavamo 50 obiettivi all’anno. E qui la macchina ha prodotto 100 obiettivi in un giorno”.
“Prepariamo gli obiettivi in modo automatico e lavoriamo secondo una checklist”, ha dichiarato a +972 e Local Call una delle fonti che ha lavorato nella nuova divisione amministrativa degli obiettivi. “È davvero come una fabbrica. Lavoriamo velocemente e non c’è tempo per approfondire l’obiettivo. Si ritiene che siamo giudicati in base al numero di obiettivi che riusciamo a generare”.
Un alto funzionario militare responsabile della banca degli obiettivi ha dichiarato al Jerusalem Post all’inizio di quest’anno che, grazie ai sistemi di intelligenza artificiale dell’esercito, per la prima volta l’esercito è in grado di generare nuovi obiettivi a un ritmo più veloce di quello degli attacchi. Un’altra fonte ha detto che l’impulso a generare automaticamente un gran numero di obiettivi è una realizzazione della Dottrina Dahiya.
Sistemi automatizzati come Habsora hanno quindi facilitato enormemente il lavoro degli ufficiali dell’intelligence israeliana nel prendere decisioni durante le operazioni militari, compreso il calcolo delle potenziali vittime. Cinque diverse fonti hanno confermato che il numero di civili che potrebbero essere uccisi in attacchi contro residenze private è noto in anticipo all’intelligence israeliana e appare chiaramente nel file dell’obiettivo sotto la categoria di “danni collaterali”.
Secondo queste fonti, esistono gradi di danno collaterale, in base ai quali l’esercito determina se è possibile attaccare un obiettivo all’interno di una residenza privata. Quando la direttiva generale diventa “Danno collaterale 5″, significa che siamo autorizzati a colpire tutti gli obiettivi che uccideranno cinque o meno civili – possiamo agire su tutti gli obiettivi che sono cinque o meno”, ha detto una delle fonti.
“In passato, non segnalavamo regolarmente le case dei membri minori di Hamas per i bombardamenti”, ha detto un funzionario della sicurezza che ha partecipato agli attacchi durante le operazioni precedenti. “Ai miei tempi, se la casa su cui stavo lavorando era contrassegnata come danno collaterale 5, non sempre veniva approvata [per l’attacco]”. Tale approvazione, ha detto, veniva data solo se si sapeva che un alto comandante di Hamas viveva nella casa.
“A quanto mi risulta, oggi possono contrassegnare tutte le case di [qualsiasi militare di Hamas, indipendentemente dal grado]”, ha continuato la fonte. “Si tratta di molte case. I membri di Hamas che non contano nulla vivono ovunque a Gaza. Quindi contrassegnano la casa, la bombardano e uccidono tutti”.
Una politica concertata per bombardare le case delle famiglie
Il 22 ottobre, l’aviazione israeliana ha bombardato la casa del giornalista palestinese Ahmed Alnaouq nella città di Deir al-Balah. Ahmed è un mio caro amico e collega; quattro anni fa abbiamo fondato una pagina Facebook in ebraico chiamata “Across the Wall“, con l’obiettivo di portare le voci palestinesi da Gaza al pubblico israeliano.
L’attacco del 22 ottobre ha fatto crollare blocchi di cemento sull’intera famiglia di Ahmed, uccidendo il padre, i fratelli, le sorelle e tutti i loro figli, compresi i neonati. Solo la nipote Malak, di 12 anni, è sopravvissuta ed è rimasta in condizioni critiche, con il corpo coperto di ustioni. Pochi giorni dopo, è morta anche Malak.
In totale sono stati uccisi ventuno membri della famiglia di Ahmed, sepolti sotto la loro casa. Nessuno di loro era un militare. Il più giovane aveva 2 anni; il più anziano, suo padre, ne aveva 75. Ahmed, che attualmente vive nel Regno Unito, è ora il solo sopravvissuto di tutta la sua famiglia.
Il gruppo WhatsApp della famiglia di Ahmed si intitola “Better Together”. L’ultimo messaggio che vi compare è stato inviato da lui stesso, poco dopo la mezzanotte della notte in cui ha perso la sua famiglia. “Qualcuno mi ha fatto sapere che va tutto bene”, ha scritto. Nessuno rispose. Si è addormentato, ma si è svegliato in preda al panico alle 4. Inzuppato di sudore, ha controllato di nuovo il telefono. Silenzio. Poi ha ricevuto un messaggio da un amico con la terribile notizia.
Il caso di Ahmed è comune a Gaza in questi giorni. Nelle interviste rilasciate alla stampa, i direttori degli ospedali di Gaza hanno ripetuto la stessa descrizione: le famiglie entrano negli ospedali come una successione di cadaveri, un bambino seguito dal padre e dal nonno. I corpi sono tutti coperti di terra e sangue.
Secondo ex ufficiali dell’intelligence israeliana, in molti casi in cui viene bombardata un’abitazione privata, l’obiettivo è “l’assassinio di agenti di Hamas o della Jihad”, e tali obiettivi vengono attaccati quando l’agente entra in casa. I ricercatori dell’intelligence sanno se anche i membri della famiglia o i vicini dell’operativo potrebbero morire in un attacco e sanno come calcolare quanti di loro potrebbero morire. Ognuna delle fonti ha detto che si tratta di case private, dove nella maggior parte dei casi non si svolgono attività militari.
+972 e Local Call non dispongono di dati sul numero di militari uccisi o feriti da attacchi aerei su abitazioni private durante la guerra in corso, ma è ampiamente dimostrato che, in molti casi, non si trattava di militari o politici appartenenti ad Hamas o alla Jihad islamica.
Il 10 ottobre, l’aviazione israeliana ha bombardato un edificio di appartamenti nel quartiere Sheikh Radwan di Gaza, uccidendo 40 persone, la maggior parte delle quali donne e bambini. In uno dei video scioccanti girati dopo l’attacco, si vedono persone che urlano, tengono in mano quella che sembra essere una bambola estratta dalle rovine della casa e se la passano di mano in mano. Quando la telecamera zooma, si vede che non si tratta di una bambola, ma del corpo di un bambino.
Uno dei residenti ha detto che 19 membri della sua famiglia sono stati uccisi nell’attacco. Un altro sopravvissuto ha scritto su Facebook di aver trovato solo la spalla di suo figlio tra le macerie. Amnesty ha indagato sull’attacco e ha scoperto che un membro di Hamas viveva in uno dei piani superiori dell’edificio, ma non era presente al momento dell’attacco.
Il bombardamento delle case delle famiglie in cui presumibilmente vivono operatori di Hamas o della Jihad islamica è probabilmente diventato una politica più concertata dell’IDF durante l’operazione “Protective Edge” del 2014. Allora, 606 palestinesi – circa un quarto dei morti civili durante i 51 giorni di combattimenti – erano membri di famiglie le cui case erano state bombardate. Nel 2015 un rapporto delle Nazioni Unite ha definito queste operazioni sia come un potenziale crimine di guerra sia come “un nuovo modello” di azione che “ha portato alla morte di intere famiglie”.
Nel 2014, 93 bambini sono stati uccisi a causa dei bombardamenti israeliani sulle case delle famiglie, di cui 13 avevano meno di un anno. Un mese fa, 286 bambini di età non superiore a 1 anno erano già stati identificati come uccisi a Gaza, secondo un elenco dettagliato con l’età delle vittime pubblicato dal Ministero della Sanità di Gaza il 26 ottobre. Da allora il numero è probabilmente raddoppiato o triplicato.
Tuttavia, in molti casi, e soprattutto durante le attuali operazioni a Gaza, l’esercito israeliano ha effettuato attacchi che hanno colpito residenze private anche quando non c’era un obiettivo militare noto o chiaro. Ad esempio, secondo il Committee to Protect Journalists, al 29 novembre Israele aveva ucciso 50 giornalisti palestinesi a Gaza, alcuni dei quali nelle loro case con le loro famiglie.
Roshdi Sarraj, 31 anni, giornalista di Gaza nato in Gran Bretagna, ha fondato un’agenzia di stampa a Gaza chiamata “Ain Media”. Il 22 ottobre, una bomba israeliana ha colpito la casa dei suoi genitori dove stava dormendo, uccidendolo. Anche la giornalista Salam Mema è morta sotto le macerie della sua casa dopo il bombardamento; dei suoi tre figli piccoli, Hadi, 7 anni, è morto, mentre Sham, 3 anni, non è ancora stata trovata sotto le macerie. Altre due giornaliste, Duaa Sharaf e Salma Makhaimer, sono state uccise insieme ai loro figli nelle loro case.
Gli analisti israeliani hanno ammesso che l’efficacia militare di questo tipo di attacchi aerei sproporzionati è limitata. Due settimane dopo l’inizio dei bombardamenti a Gaza (e prima dell’invasione di terra) – dopo che nella Striscia di Gaza erano stati contati i corpi di 1.903 bambini, circa 1.000 donne e 187 anziani – il commentatore israeliano Avi Issacharoff ha twittato: “Per quanto sia difficile da sentire, al 14° giorno di combattimenti, non sembra che il braccio militare di Hamas sia stato danneggiato in modo significativo. Il danno più significativo alla leadership militare è l’assassinio del [comandante di Hamas] Ayman Nofal”.
“Combattere contro animali umani”
I militari di Hamas operano regolarmente da un’intricata rete di tunnel costruiti sotto ampie zone della Striscia di Gaza. Questi tunnel, come confermato dagli ex ufficiali dell’intelligence israeliana con cui abbiamo parlato, passano anche sotto le case e le strade. Pertanto, i tentativi israeliani di distruggerli con attacchi aerei rischiano in molti casi di provocare l’uccisione di civili. Questa potrebbe essere un’altra ragione dell’alto numero di famiglie palestinesi spazzate via nell’attuale offensiva.
Gli ufficiali dell’intelligence intervistati per questo articolo hanno affermato che il modo in cui Hamas ha progettato la rete di tunnel a Gaza sfrutta consapevolmente la popolazione civile e le infrastrutture in superficie. Queste affermazioni sono state anche alla base della campagna mediatica che Israele ha condotto nei confronti degli attacchi e delle incursioni all’ospedale Al-Shifa e dei tunnel scoperti sotto di esso.
Israele ha anche attaccato un gran numero di obiettivi militari: operatori armati di Hamas, siti di lancio di razzi, cecchini, squadre anticarro, quartieri generali militari, basi, posti di osservazione e altro ancora. Fin dall’inizio dell’invasione di terra, i bombardamenti aerei e il fuoco dell’artiglieria pesante sono stati utilizzati per fornire supporto alle truppe israeliane sul terreno. Secondo gli esperti di diritto internazionale, questi obiettivi sono legittimi, purché gli attacchi rispettino il principio di proporzionalità.
In risposta a una richiesta di +972 e Local Call per questo articolo, il portavoce dell’IDF ha dichiarato: “L’IDF si impegna a rispettare il diritto internazionale e agisce in base ad esso, e nel farlo attacca obiettivi militari e non attacca i civili. L’organizzazione terroristica Hamas colloca i suoi agenti e i suoi mezzi militari nel cuore della popolazione civile. Hamas usa sistematicamente la popolazione civile come scudo umano e conduce i combattimenti da edifici civili, compresi siti sensibili come ospedali, moschee, scuole e strutture delle Nazioni Unite”.
Fonti dell’intelligence che hanno parlato con +972 e Local Call hanno affermato che in molti casi Hamas “mette deliberatamente in pericolo la popolazione civile di Gaza e cerca di impedire con la forza l’evacuazione dei civili”. Due fonti hanno affermato che i leader di Hamas “capiscono che il danno israeliano ai civili li legittima a combattere”.
Allo stesso tempo, anche se oggi è difficile da immaginare, l’idea di sganciare una bomba da una tonnellata con l’obiettivo di uccidere un agente di Hamas, ma che finisce per uccidere un’intera famiglia come “danno collaterale”, non è sempre stata accettata così facilmente da ampie fasce della società israeliana. Nel 2002, ad esempio, l’aviazione israeliana bombardò la casa di Salah Mustafa Muhammad Shehade, allora capo delle Brigate Al-Qassam, l’ala militare di Hamas. La bomba uccise lui, la moglie Eman, la figlia quattordicenne Laila e altri 14 civili, tra cui 11 bambini. L’uccisione ha suscitato un clamore pubblico sia in Israele che nel mondo, e Israele è stato accusato di aver commesso crimini di guerra.
Queste critiche hanno portato alla decisione dell’esercito israeliano, nel 2003, di sganciare una bomba più piccola, da un quarto di tonnellata, su una riunione di alti funzionari di Hamas – tra cui l’inafferrabile leader delle Brigate Al-Qassam, Mohammed Deif – che si svolgeva in un edificio residenziale di Gaza, nonostante il timore che non sarebbe stata abbastanza potente da ucciderli. Nel suo libro “Conoscere Hamas”, il giornalista israeliano veterano Shlomi Eldar ha scritto che la decisione di usare una bomba relativamente piccola era dovuta al precedente di Shehade e al timore che una bomba da una tonnellata avrebbe ucciso anche i civili nell’edificio. L’attacco fallì e gli alti ufficiali dell’ala militare fuggirono dalla scena.
Dopo Protective Edge del 2014, durante il quale Israele ha iniziato a colpire sistematicamente le case delle famiglie dal cielo, gruppi per i diritti umani come B’Tselem hanno raccolto testimonianze di palestinesi sopravvissuti a questi attacchi. I sopravvissuti hanno raccontato che le case sono crollate su se stesse, che i frammenti di vetro hanno tagliato i corpi di coloro che si trovavano all’interno, che le macerie “puzzano di sangue” e che le persone sono state sepolte vive.
Questa politica mortale continua ancora oggi, in parte grazie all’uso di armi distruttive e di tecnologie sofisticate come Habsora, ma anche grazie a un establishment politico e di sicurezza che ha allentato le redini dell’apparato militare israeliano. Quindici anni dopo aver insistito sul fatto che l’esercito si stava impegnando per ridurre al minimo i danni ai civili, Gallant, ora ministro della Difesa, ha chiaramente cambiato idea. “Stiamo combattendo contro animali umani e agiamo di conseguenza”, ha dichiarato dopo il 7 ottobre.
*Yuval Abraham è un giornalista e attivista basato a Gerusalemme
https://www.blog-lavoroesalute.org/wp-content/uploads/2023/12/immagine-139.png6401200franco.cilentifranco.cilenti2023-12-25 06:36:022023-12-25 06:36:04Una fabbrica di omicidi di massa: il bombardamento calcolato di Gaza da parte di Israele
Nella città della Natività circondata dall’esercito israeliano sono state annullate tutte le celebrazioni natalizie in solidarietà con Gaza sotto attacco. Previsti solo i riti religiosi
Dal 7 ottobre Betlemme è una città prigioniera, anche in questi giorni di Natale. Per entrarvi si è costretti a passare, e non è facile, il posto di blocco dell’esercito israeliano nei pressi del villaggio di Khader, a sud di Betlemme. Si resta in coda per un bel po’, anche un’ora all’uscita. Non c’è altro modo di arrivare in auto nella città. Tutti gli altri posti di blocco sono sigillati dal giorno dell’attacco di Hamas nel sud di Israele. Per ragioni di sicurezza, afferma Israele. Per i palestinesi invece è una punizione collettiva che stanno subendo città e villaggi della Cisgiordania. Da Khader si va verso il campo profughi di Dheisheh, quindi si passa per il sobborgo di Doha, poi all’incrocio grande di Beit Jala finalmente si svolta verso Betlemme. Giunti in città si capisce subito quanto forte sia il dolore dei palestinesi per i 20mila morti di Gaza e per l’offensiva israeliana che dura da quasi 80 giorni. E che i paesi occidentali, o gran parte di essi, lasciano continuare sebbene a pagare il conto più alto in vite umane, distruzioni e sofferenze siano i civili, a cominciare da donne e bambini.
Di solito a dicembre la piazza della Mangiatoia, davanti alla Chiesa della Natività, ospita un enorme albero di Natale, gli addobbi decorano e arricchiscono negozi, locali, hotel e ristoranti. E un nutrito programma di concerti, cortei e spettacoli natalizi anticipano e seguono l’ingresso a Betlemme del Patriarca latino (cattolico) che a mezzanotte notte officia la tradizionale messa di Natale. Riti e celebrazioni che si ripetono giorni dopo per il Natale degli Ortodossi. Manca poche ore al Natale e le strade e i cortili di Betlemme sono in gran parte vuoti. Le Chiese di tutta la Palestina hanno annunciato la cancellazione delle festività in un’espressione di unità con Gaza, limitando le attività di questo periodo alle preghiere. «Quest’anno non ci sono festeggiamenti, ma solo riti religiosi ed è giusto così, perché come si fa a gioire del Natale mentre dentro di noi crescono tristezza e amarezza per l’uccisione di tanti innocenti a Gaza, di così tanti bambini», ci spiega Nabil Giacaman, proprietario di un noto negozio di souvenir nella piazza della Mangiatoia e membro di una delle famiglie cristiane più importanti di Betlemme. Davanti al suo negozio, nella piazza, passano poche persone, in buona parte poliziotti dell’Autorità Nazionale.
Di fronte, sull’edificio del Centro turistico, sventolano una decina di bandiere palestinesi in fila, accanto a un poster enorme che chiede la fine della guerra. «Possibile che nel mondo non ci sia qualcuno che dica a Israele di finirla, di fermare il suo attacco, di interrompere la distruzione di Gaza?» domanda Giacaman. «Per questo» aggiunge «non abbiamo fatto l’albero a casa. Sono un cattolico e adoro il Natale con i suoi riti e le sue tradizioni, ma non c’è gioia, siamo a lutto quest’anno». La chiusura israeliana per Betlemme significa la fine di qualsiasi forma di turismo. «Nessuno può arrivare qui» ci dice ancora il commerciante «non mi riferisco ai turisti stranieri che, spaventati dalla guerra, non vengono in Terra santa. Parlo dei palestinesi di Gerusalemme e di quelli in Israele che non possono raggiungere Betlemme, non possono entrare in città. Betlemme è un carcere dove sono stati vietati persino i colloqui con i detenuti». I riflessi della guerra a Gaza sull’economia cittadina – Betlemme riceve fino a 1,5 milioni di turisti all’anno – si prevedono enormi e andranno ad aggiungersi a quelli causati dalle passate restrizioni sanitarie e di viaggio legate alla pandemia. Il ministero del turismo calcola le perdite nel 2023 in Cisgiordania intorno ai 200 milioni di dollari, di cui almeno il 60% a Betlemme.
Hanna Hanania, il sindaco, è impegnato a spiegare i motivi dell’annullamento delle celebrazioni natalizie e, più di tutto, la gravità della condizione di tutti i palestinesi a cominciare, naturalmente, da quelli a Gaza sotto attacco. È molto occupato ma trova qualche minuto per rispondere alle domande del manifesto. «Il nostro popolo sta vivendo giorni molti difficili, a Gaza è in corso un genocidio, una pulizia etnica, e la municipalità ha deciso di cancellare ogni attività che non sia legata ai riti religiosi del Natale» ci dice. «Non osiamo paragonare in alcun modo le sofferenze dell’economia di Betlemme con le devastazioni che subisce Gaza» aggiunge «allo stesso è evidente che la guerra e la chiusura (israeliana) stanno avendo un impatto durissimo sui commerci, sul lavoro, su tutte attività della nostra città. Israele deve fermarsi perché a Gaza è un massacro e perché la guerra sta devastando in modi diversi tutta la Palestina».
L’atmosfera cupa e triste di questi giorni ricorda quella che regnò a Betlemme per mesi durante l’operazione Muraglia di Difesa, nella primavera del 2002, quando Israele, nel pieno della seconda Intifada palestinese, rioccupò le principali città della Cisgiordania che aveva evacuato sette anni prima nel quadro degli Accordi di Oslo. L’assedio della Chiesa della Natività, circondata dai carri armati, è un ricordo indelebile per gli abitanti. «Avevo venti anni allora e ricordo bene quel clima tanto simile a questo. La differenza è che oggi non ci sono i carri armati sulle strade, ma chi ci garantisce che non tornino presto o tardi. Israele fa ciò che vuole e potrebbe trasformare la Cisgiordania in una distesa di macerie come Gaza. E il mondo sta zitto», afferma il proprietario di un caffè che preferisce non darci il suo nome: «Abbiamo paura di tutto, di parlare, di scrivere, di dire la nostra opinione. Ci arrestano per qualsiasi cosa». Dopo il 7 ottobre, nel distretto di Betlemme sono stati eseguiti dozzine di arresti. L’esercito israeliano concentra i suoi raid notturni nel campo profughi di Dheisheh, un tempo roccaforte della sinistra palestinese che considera una «base per il terrorismo». Ma sono presi di mira tutti i campi profughi della zona. Ad Aida, ai piedi della città, riferiscono di incursioni senza sosta. Tra gli arrestati figura anche un noto attivista, Munther Amira.
Nabil Giacaman prima di salutarci ci lascia il suo messaggio di Natale. «Il mondo deve capire che i palestinesi sono un popolo uguale agli altri, con gli stessi diritti e doveri e che vuole essere libero. I palestinesi non rinunceranno mai a poter decidere della propria vita e del proprio destino».
Immagine: foto di Michele Giorgio la piazza della Mangiatoia a Betlemme senza l’albero e gli addobbi di Natale
https://www.blog-lavoroesalute.org/wp-content/uploads/2023/12/immagine-138.png6401280franco.cilentifranco.cilenti2023-12-25 06:31:572023-12-25 06:31:59Non c’è Natale in Palestina: «Siamo tutti sotto attacco»
Yonatan Shapira riflette sulla deriva israeliana verso il giudeo-nazismo, così come su un’intervista di “60 Minuti” con un soldato israeliano che dice che per bombardare case con bambini dentro, deve avere fiducia nei valori morali dei suoi comandanti.
Immagine di copertina: Gli israeliani protestano davanti alla Corte Suprema di Gerusalemme contro il piano del governo israeliano Benjamin Netanyahu di riforma giudiziaria, 11 settembre 2023. (FOTO: ILIA YEFIMOVICH/DPA VIA ZUMA PRESS/APA IMAGES)
Sono passati esattamente vent’anni da quando Yonatan Shapira, un ex pilota di elicottero militare israeliano, si rifiutò di prestare servizio nell’esercito israeliano (insieme ad una ventina di altri piloti) perché Israele bombardava indiscriminatamente i civili. La scorsa settimana, il programma di notizie “60 Minutes” ha mandato in onda un programma contenente un’intervista con un pilota di elicotteri israeliano che si oppone alla riforma giudiziaria e la cui unica preoccupazione nel bombardare abitazioni civili era se potesse avere fiducia nei valori morali dei comandanti che le danno gli ordini. Ho trovato il momento ideale per intervistare Shapira su come vede il movimento anti-riforma giudiziaria di Israele e come la società israeliana è cambiata dal suo rifiuto di due decenni fa.
Jonathan Ofir: Stiamo parlando insieme, due israeliani, ora in Scandinavia, tu in Norvegia, io in Danimarca. L’altro giorno, il notiziario “60 Minutes” ha raccontato una storia sui manifestanti contro la riforma giudiziaria israeliana e si è concentrato su un gruppo chiamato Brothers in Arms (I Fratelli e Sorelle in Armi sono uno dei settori più influenti del movimento di protesta composto da riservisti e soldati dell’esercito). Sono stati intervistati tre rappresentanti, e c’è stato un momento cruciale in quell’intervista in cui il manifestante Shira Etting ha detto:
“Ero un pilota di elicotteri da combattimento. Se si vuole che i piloti siano in grado di volare e sganciare bombe e missili sulle abitazioni civili sapendo che potrebbero uccidere bambini, devono avere la massima fiducia nelle persone che prendono quelle decisioni”.
E il suo compagno, Ron Scherf, un comandante delle forze speciali, lo conferma: “nei loro valori morali”. E Shira Etting lo sottolinea di nuovo: “Esattamente”.
L’intervista arriva a quasi vent’anni dal tuo rifiuto di continuare il servizio militare come pilota di elicotteri nell’esercito israeliano e da quando sfidasti il comandante dell’aeronautica Dan Halutz chiedendogli se sarebbe disposto a bombardare comunque una casa sapendo che dentro ci sono dei civili, se fosse un’abitazione israeliana, e lui ha risposto di no.
Yonatan Shapira: Ho chiesto se avrebbero approvato il lancio di un missile per colpire qualsiasi bersaglio strategico o qualcosa del genere, sapendo che quello che chiamavano “danno collaterale” sarebbero stati civili israeliani, diciamo in una città israeliana come Tel Aviv. E in risposta alla mia domanda, ha detto che esiste una gerarchia del valore del sangue, ovviamente non ha detto valore del sangue, ma intendeva dire che il valore della vita è il seguente: in cima ci sono i cittadini israeliani; poi c’è l’esercito israeliano, i soldati; più sotto ci sono i civili palestinesi e alla fine i combattenti palestinesi. E quindi, non rischierebbe di lanciare un missile sapendo che ha buone possibilità di uccidere civili che appartengono dall’alto valore del sangue degli israeliani.
Ora, penso che se si torna indietro di vent’anni ascoltando quelle interviste che noi, io e i miei amici piloti cofirmatari della lettera, quando ci rifiutammo di continuare a prendere parte a questi crimini di guerra, probabilmente si troveranno dichiarazioni che non sono così diverse dalle parole di Shira, con una piccola differenza: pensavamo che non fosse normale, e per niente legittimo, sparare nelle case, sparare in un ghetto, sparare in un campo di concentramento in cui chiudiamo, umiliamo e opprimiamo le persone per decenni. Questo è il motivo per cui io e i miei compagni abbiamo deciso di non voler più prendere parte a questi orribili Crimini contro l’Umanità.
Jonathan Ofir: Il servizio di “60 Minutes” avrebbe dovuto valorizzare le forze che lottano per mantenere la democrazia in Israele, ma in realtà ha finito per condividere un’istantanea della degenerazione della società israeliana, di cui fa parte il gruppo di protesta Brothers in Arms. Cosa pensi sarà il catalizzatore di un vero cambiamento in Israele, e cosa può costringere queste persone a riconoscere che stanno normalizzando ciò che è disumano?
Yonatan Shapira: Per me, l’unica cosa che può accadere per salvare questo Paese è collaborare con i palestinesi che vivono in questa regione e fare di questa lotta una lotta per la vera democrazia e l’uguaglianza per tutti. I suoi leader, a mio parere, i leader che accoglierei sono i cittadini palestinesi dello Stato non democratico di Israele e gli israeliani che si stanno rendendo conto che essere un cittadino suprematista bianco o ebreo è totalmente illegittimo. Ma forse, in qualche strano modo, quei fratelli d’armi e quelle forze in Israele oggi si troveranno in prima linea a combattere nella guerra civile contro le potenze più naziste. E questo sarà il loro processo per rendersi conto di quanto sia brutale il sistema.
Forse è lì che stiamo andando: una guerra civile in cui da una parte ci sono l’estrema destra e i fanatici, e dall’altra ci sono queste persone che cercano di proteggere quella che non è mai stata una democrazia. E nel frattempo, forse, rendendosi conto che l’intero sistema è truccato, il tutto non è mai stato una democrazia.
Ho avuto una conversazione interessante con un mio amico, che non è mai stato d’accordo con me, abbiamo prestato servizio insieme nella stessa squadriglia. Lungo il corso di tutti questi ultimi vent’anni ho cercato di convincerlo a rifiutare. E per qualche ragione siamo comunque riusciti a restare in contatto, molte persone non volevano parlarmi, incontrarmi o continuare ad essere amici. Perché era chiaro nel nostro rapporto che rimango in contatto con loro perché ho ancora qualche speranza di poterli convincere a smettere di uccidere o a smettere di far parte di un’organizzazione terroristica omicida come l’esercito israeliano. Ma in una recente conversazione che ho avuto con un amico, che ora non vola più nell’Aereonautica: era un pilota di soccorso come me, ma poi è diventato un pilota della polizia sotto Itamar Ben-Gvir, il fanatico Kahanista che ora è Ministro, ed è ovviamente devastato dalla situazione attuale, mi diceva che forse è ora di andarsene, ma non solo di lasciare la polizia, di lasciare il Paese, perché non ha speranza. E gli ho detto no, non farlo. Avresti dovuto andartene prima e protestare contro questi crimini. Ora, devi restare lì, e probabilmente dovrai affrontare lo scontro più pericoloso, perché ora alcune forze all’interno dell’esercito e della polizia si stanno rendendo conto che sarà un sistema nazista in piena regola, quindi toccherà a voi combattere, magari per fare cose di cui noi, come attivisti non violenti, non abbiamo mai voluto far parte. Sono rimasti nel sistema così a lungo che non hanno il privilegio di andarsene adesso, prendendo la loro pensione di lusso e i loro pacchetti pensionistici. Potrebbero essere quelli che devono restare adesso e combattere perché nei prossimi anni sarà sempre più folle.
Ma ovviamente nessuno vuole farlo. Ma per me, in modo contorto e forse divertente, guardando Dan Halutz, il Generale che mi licenziò personalmente, era il simbolo di ciò contro cui combattemmo o contro cui lottammo all’epoca, vent’anni fa, quando presentammo la lettera dei piloti, ora è a capo di almeno 1.700 ex piloti ed equipaggi dell’Aeronautica militare ancora attivi che chiedono di rifiutarsi di obbedire agli ordini. Anche se non per le giuste ragioni, la storia ci scorre davanti e, in un certo senso, a volte scarica la responsabilità di alcune azioni sulle spalle di quelle persone che sono state cieche per tutti questi anni e forse lentamente, lentamente inizieranno ad aprire gli occhi.
Mi rivolgo a chi prima guardava le persone come te e me come super-super estremisti che parlavano di Israele come di uno Stato di Apartheid. Ora, è l’ex comandante del Mossad a dire che, sì, Israele sta imponendo l’Apartheid nei Territori Occupati. Quindi stanno accadendo alcune cose, e non tutte sono negative in un certo senso, e forse saranno quei criminali che sono rimasti nel sistema per così tanto tempo, che in un certo senso dovranno farlo: combattere quella vera battaglia.
Jonathan Ofir: Voglio chiederti riguardo al principio del deferimento della responsabilità morale, perché questo è ciò che è al centro di ciò che Shira Etting stava dicendo in “60 Minutes”. Deve avere la massima fiducia nelle persone che prendono quelle decisioni. Non importa quali siano queste decisioni. Ora, hai parlato del tuo amico che ora è pilota della polizia, da quello che ho capito, mi sembra che il suo problema sia che ora riceve ordini da Itamar Ben-Gvir, il kahanista, e forse quegli ordini saranno il stessi ordini che ha ricevuto dieci anni fa, ma ora li riceverà da un giudeo-nazista certificato, giusto? Quindi questo sta creando un enorme problema tra le persone, e questo è ciò che sta dicendo Shira Etting: se fosse Dan Halutz a darle l’ordine di uccidere una famiglia con bambini, allora probabilmente si sentirebbe meglio.
Yonatan Shapira: Cosa che in realtà ha fatto: dare l’ordine di uccidere i civili, quindi sì, è assolutamente giusto. Penso che l’automenzogna, l’autoinganno, si stiano sgretolando. E non è più possibile sostenerli quando il tuo comandante o il tuo ministro è un Kahanista suprematista ebreo neonazista in piena regola. Sì, penso che in un certo senso, ovviamente, guardo la cosa in modo molto distaccato, ma in un altro modo, alcune altre voci dentro di me dicono che forse è quello che dobbiamo vedere, forse è quello che questi ragazzi avevo bisogno di vedere, per ricevere ordini da questi nazisti, non da comandanti tipo Amos Oz che mandano i militari a bombardare Gaza mentre leggono una poesia, forse c’è bisogno di questi fanatici estremisti, nazisti, come si vuole chiamarli, in veste di comandanti, per svegliarsi.
Poiché è un momento molto critico, penso che la gente parli di tutte le proteste, e io sono assolutamente a favore della protesta, ma abbiano delle incertezze; quando siamo cresciuti in Israele, da bambini abbiamo imparato che i nazisti si devono combattere, non si negozia con i nazisti, quando i nazisti sono al potere, li combatti. E sai, ora vivo a Oslo in Norvegia, e non sembra che abbiano alcuna motivazione per esercitare pressioni su Israele. Il livello di ipocrisia è semplicemente incredibile. Continuerebbero a fare qualunque cosa dica loro il Dipartimento di Stato americano. Continuano a commerciare armi per vendere petrolio e difendere politicamente e diplomaticamente Israele. Proprio mentre parliamo, qualche giorno fa, la Ministra degli Esteri norvegese è tornata da un incontro con il Ministro degli Esteri israeliano. Quindi, vedo, si tratta dell’Occupazione israeliana, dell’Apartheid, comunque lo chiamiamo, Pulizia Etnica, come progetto comune, non solo di Israele, ed è davvero importante perché, per alcune persone nel Movimento di Solidarietà Palestinese in tutto il mondo, è facile guardare persone come te e me e attribuire la responsabilità di questi crimini a noi, alle nostre famiglie e alla nostra società. E io dico, no, non possono farlo. La continuazione di questa Pulizia Etnica in corso è in gran parte responsabilità di ogni Stato in Europa, degli Stati Uniti, ovviamente, dell’Australia, di tutti questi Paesi che sono totalmente parte del meccanismo che la rende possibile.
Quindi, l’ultima cosa che voglio infondere, nei cuori delle persone quando ascoltano te e me, è questo senso di discolpa: sostengo la Palestina, sono dalla parte buona. E laggiù, il pazzo fascista Israele è… no, è un progetto comune che non potrebbe mai continuare così a lungo senza la partecipazione attiva di tutti i Paesi europei, specialmente di quelle belle e pacifiche socialdemocrazie in Scandinavia, dove ci sono tutti questi progetti, il sostegno umanitario e tutto il resto. No, no, e ancora no, sono tutti parte attiva nella Pulizia Etnica in corso in Palestina.
Hanno qualche adesione formale che finanziano e danno dei soldi qua e là. E invitano tutte queste belle organizzazioni a parlare qui e a dare un po’ di sostegno umanitario. Ma dietro le quinte, sono loro la ragione per cui tutta questa follia continua. E ultimamente, è diventato sempre più importante per me dirlo, perché ho capito che questa è la vera ragione per cui continua, ci si deve rivolgere all’industria degli armamenti, al proprio Paese, ai nostri ministri che ne traggono profitto, noi semplicemente abbiamo scoperto qualche giorno fa che il marito della Ministra degli Esteri norvegese, ex Primo Ministro, si occupa delle scorte dei produttori di armi norvegesi, tutti beneficiano direttamente o indirettamente dall’uccisione di bambini palestinesi, che Shira e i suoi amici stanno uccidendo direttamente. Ma il proiettile viene anche da qui.
Jonathan Ofir: Quindi forse anche queste persone, e soprattutto negli Stati Uniti dove viene trasmesso il programma “60 Minutes”, stanno trovando in questi Fratelli in Armi una sorta di ammortizzatore morale?
Yonatan Shapira: Forniscono le armi di questi Fratelli in Armi. Quando guardano Shira parlare dell’uccisione di bambini palestinesi, dovrebbero sapere che il missile è fabbricato nel loro Paese. In molti casi, i missili Hellfire, ad esempio, sono prodotti in America, credo. E l’esplosivo viene fabbricato a 40 minuti da qui, vicino a Oslo, in un’azienda chiamata Chemring Nobel, che in realtà era precedentemente di proprietà della famosa famiglia Alfred Nobel, e si chiama ancora Nobel. Ed è lì che producono gli esplosivi che finiscono nella testata dei missili che Shira e i suoi amici stanno sparando contro le abitazioni di Gaza. Quindi sono tutti fratelli d’armi dei Fratelli in Armi israeliani.
Jonathan Ofir è un direttore d’orchestra, musicista, scrittore e blogger israelo-danese, che scrive regolarmente per Mondoweiss.
https://www.blog-lavoroesalute.org/wp-content/uploads/2023/12/immagine-137.png8001200franco.cilentifranco.cilenti2023-12-25 06:22:552023-12-25 06:26:01Un pilota israeliano obiettore riflette sullo stato del Regime Oppressivo e dell’Apartheid israeliani
NON AUTOSUFFICIENZA: «A 45 ANNI DALLA FONDAZIONE DEL SSN, IL GOVERNO LAVORI PER ASSICURARE I LEA E LA TUTELA SANITARIA DEI MALATI NON AUTOSUFFICIENTI, MINACCIATA DALLA LEGGE 33».
«DAL ‘PATTO PER UN NUOVO WELFARE’ GRAVI PROPOSTE DI ARRETRAMENTO SUI DIRITTI FONDAMENTALI DI MALATI E PERSONE CON GRAVI DISABILITÀ».
Nel 45° anniversario dell’istituzione del Servizio sanitario nazionale, pubblico e universalistico (23 dicembre 1978), il Coordinamento per il diritto alla sanità per le persone malate e non autosufficienti (Cdsa) rilancia il percorso di difesa del diritto alla salute dei malati non autosufficienti, specialmente anziani, con Alzheimer o altre demenze, e la mobilitazione civica seguita all’approvazione della negativa legge 33/2023, cosiddetta legge sulla non autosufficienza. I rappresentanti del Coordinamento, che raccoglie venti organizzazioni di tutela dei diritti dei malati o delle persone con grave disabilità non autosufficienti, rilanciano l’appello ad essere auditi con urgenza dal Governo per la scrittura dei decreti attuativi, affinché in essi sia confermata la tutela sanitaria universalistica e di lunga durata per i malati non autosufficienti, limitando il più possibile gli effetti negativi ed emarginanti della legge.
La norma è ferma al palo ed è «una buona notizia, per una pessima legge». È saltata la nomina entro 90 giorni dall’approvazione (marzo 2023) del CIPA (il Comitato interministeriale per le politiche in favore della popolazione anziana) e la legge di bilancio non prevede fondi specifici per la norma, mentre le tutele dei Livelli essenziali di assistenza sanitaria e socio-sanitaria per i malati non autosufficienti sono – ovviamente – salvaguardate. Fermi anche i decreti attuativi sulle questioni più delicate: l’istituzione di un SNAA (Sistema nazionale per la popolazione anziana non autosufficiente) in cui la legge punta ad emarginare malati e persone con disabilità non autosufficienti e l’istituzione della misura universale per la non autosufficienza, che annullerebbe l’indennità di accompagnamento, dirottandola sui servizi gestiti da privati.
«Sono tutti elementi che confermano quanto abbiamo sostenuto fin dai disegni di legge preparatori della norma – spiegano Laura Valsecchi di Medicina democratica e Maria Grazia Breda, presidente della Fondazione promozione sociale -: non assicura diritti esigibili e prospetta un sistema di minori tutele, in cui la limitazione delle risorse ‘comanda’ sui diritti degli utenti: basta non finanziare gli interventi, per annullare il diritto dei malati, ridotti a casi sociali e non più riconosciuti nel loro status di persone titolari del fondamentale diritto alla tutela della salute».
Eppure, le ragioni di preoccupazione rimangono, osserva Donatella Oliosi, presidente dell’associazione Di.A.N.A. di Verona: «Il termine per l’approvazione dei decreti attuativi è fissato dalla legge al 31 gennaio 2024: un tempo diventato strettissimo per approvare documenti fondamentali, che rendano inoffensiva una legge che ha il dichiarato proposito di spostare tutti i non autosufficienti (vecchi malati e persone con disabilità) in un settore socio-assistenziale (e non sanitario), non tutelato da diritti esigibili, certezza delle risorse e delle prestazioni».
Il Cdsa, riafferma la necessità della tutela sanitaria dei non autosufficientiper le cure di lunga durata, così come già sancita dalla Costituzione dalla legge fondamentale del Servizio sanitario (833 del 1978) anche a fronte delle proposte disomogenee ed emarginanti del «Patto per un nuovo welfare», i cui rappresentanti si siedono alternativamente al tavolo degli estensori delle norme (come il gruppo di lavoro presso il ministero delle Politiche sociali sulla legge 33) e dei rappresentanti della «società civile», che ovviamente appoggiano quella norma discriminante.
Irricevibile il loro Manifesto del 14 dicembre sulle prestazioni domiciliari di lunga durata per i malati e persone con disabilità non autosufficienti, relegata alla semplice badantato, con eventuale aiuto assistenziale vincolato al reddito o ad un fondo a risorse limitate. E anche sulle strutture residenziali, i rappresentanti del Patto non sostengono la necessità della qualificazione sanitaria delle Residenze sanitarie assistenziali (Rsa), sempre più luogo di ricovero di malati con elevatissimi bisogni clinici, ma scarsi standard di qualificazione degli operatori e presenza clinica.
Per informazioni: i rappresentanti del Cdsa sono disponibili per interviste e ulteriori approfondimenti. Andrea Ciattaglia 345.6749838 o scrivere a info@fondazionepromozionesociale.it
Fanno parte del CDSA, Coordinamento nazionale per il diritto alla sanità per le persone anziane malate e non autosufficienti:
ADINA Associazione per la Difesa dei Diritti delle Persone
Non Autosufficienti OdV – Firenze
Di.A.N.A. Associazione Diritti Non Autosufficienti Onlus – Verona
UMANA Unione per la difesa dei diritti dei malati
anziani non autosufficienti – Perugia
ASSOCIAZIONE VITA INDIPENDENTE Bassa Val Di Cecina APS – Livorno
DIxDI Comitato Diritti per la Disabilità – Massa Carrara
LIBRO VERDE Comitato Regionale Familiari e Operatori – Modena
COMUNITÀ “PROGETTO SUD” – Lamezia Terme (Cz)
CUB SANITÀ NAZIONALE Operatori Socio Sanitari
delle RSA/RSD – Milano e Firenze
FONDAZIONE PROMOZIONE SOCIALE Onlus/Ets – Torino
GAD Gruppo Accoglienza Disabili – Cinisello Balsamo (Mi)
FOCUS DEMENZA DIRITTI DIGNITÀ Gruppo FB – Bologna
MEDICINA DEMOCRATICA ETS – Milano/Roma
CGIL (Opposizione): il sindacato è un’altra cosa – Milano
RSA UNITE – Comitato del Trentino –Trento
USB Unione Sindacale di Base (Operatori dei CRA) – Parma
https://www.blog-lavoroesalute.org/wp-content/uploads/2023/12/OIP-6.jpg180248franco.cilentifranco.cilenti2023-12-24 10:50:032023-12-24 10:50:25Comunicato stampa di CDSA per la difesa del diritto alla salute dei malati non autosufficienti
Come ogni anno, il mese di dicembre è un momento per fare dei bilanci. A cominciare da quello statale, anche perché è in discussione l’approvazione della manovra finanziaria per l’anno successivo. Una misura sempre oggetto di scontri e polemiche tra maggioranza e opposizione. Quanto spendere? E soprattutto: su cosa spendere e quali misure invece tagliare?
Nell’ultimo periodo, tra i temi più controversi c’è stato quello della spesa per la sanità pubblica. Dopo la pandemia che ha costretto i governi a stanziamenti (ma anche a sprechi incommensurabili: si pensi ai milioni di dosi di vaccino non utilizzate), si è tornato a parlare di fondi disponibili e di mancanza di personale. Eppure, la spesa sanitaria degli ultimi anni è aumentata considerevolmente: è passata dai 114 miliardi del 2018 ai 122 miliardi nel 2020. Poi, nel 2021, è aumentata ancora fino a quasi 128 (127.348). Finito il periodo della pandemia la spesa, stranamente, non è diminuita: nel 2022 è stata 131.710 e le stime per il 2023 e per il 2024 si aggirano intorno ali 130 miliardi di euro e 129 miliardi rispettivamente.
A fronte di somme così elevate, però, si registra una enorme carenza di personale qualificato. Sia medico che paramedico. Già nel 2020, la Corte dei Conti aveva certificato che nel nostro Paese mancano circa 65.000 infermieri. “Il nuovo livello del fabbisogno sanitario nazionale, che rappresenta il finanziamento complessivo della sanità pubblica e di quella accreditata in Italia – si legge nel rapporto della CdC -, è stato da ultimo fissato dalla legge di Bilancio 2022 (L. n. 234/2021) in 124.061 milioni di euro per il 2022, 126.061 milioni per il 2023 e 128.061 milioni per l’anno 2024”. L’aumento sarebbe dovuto “proprio ai costi del personale e alla definitiva cessazione dei costi legati alla struttura commissariale per l’emergenza”. “Il Governo ha aumentato la dotazione di due miliardi di euro per cercare di dare risposte al mondo della sanità ed è stato detto che era insufficiente rispetto ai parametri – ha dichiarato la premier Meloni -. Ma bisogna fare attenzione perché i parametri degli anni precedenti erano di una realtà estremamente emergenziale. Non so quanto si possa ritenere che quello fatto durante il Covid sia il parametro anche per il futuro”.
A mancare non è solo il personale paramedico, ma soprattutto i medici. E soprattutto i medici di base. Dai dati rilevati pare che, nonostante il calo della popolazione, non si sia tenuto conto del naturale ricambio generazionale. In altre parole, molte volte i medici di base che vanno in pensione non verrebbero sostituiti da nuovi medici. Già oggi, sono circa due milioni i cittadini italiani che non hanno più un medico di famiglia. E per il futurole previsioni sono tutt’altro che rosee: si stima che entro un paio d’anni potrebbero essere addirittura cinque milioni gli italiani senza medico di base. A confermare queste stime, uno studio della Fondazione Gimbe, secondo il quale, nel 2025, ci saranno 3.452 medici di base in meno rispetto al 2021. Ancora peggiori le stime della Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e odontoiatri: a breve, potrebbero mancare oltre 10mila medici di base. Critica la situazione in alcune città. A Roma mancano quasi 800 medici. E nel resto del Lazio mancano 350 medici di base.
Diverse le ragioni di questo fenomeno. Stipendi poco attraenti rispetto a un carico di lavoro sempre maggiore (aumentato considerevolmente durante la pandemia ma mai tornato alla “normalità”). Il numero massimo di assistiti di un medico di famiglia “massimalista” è di 1.500 pazienti. Ma, secondo Agenas, presto potrebbe aumentare fino a 1.800. Secondo i dati, già oggi quasi un medico di famiglia su due (il 42%) ha più di 1.500 assistiti. Il 36,7% ne segue tra mille e 1.500. Questo significa una mole di lavoro enorme. A questo si aggiunge che la popolazione italiana sta invecchiando: questo significherebbe un carico di lavoro maggiore per i medici di base. Il tutto con un trattamento poco attrattivo: dodici mensilità e tante difficoltà per gestire studi e personale.
A questo si aggiunge un altro problema: il “numero chiuso” adottato da molte Facoltà di Medicina. Da anni è oggetto di polemiche non solo per essere troppo severo e selettivo, ma in alcuni casi anche per critiche sulla legittimità. Da qualche anno si parla di sopprimerlo. Ma finora non è stato fatto nulla.
Anche i pediatri stanno diminuendo: da 7.408 sono scesi a 7.022 (386 in meno). Un problema evidenziato anche nel Rapporto civico sulla Salute 2023 di Cittadinanzattiva. E la situazione potrebbe peggiorare ancora a breve: la maggior parte dei medici in servizio, infatti, ha oltre 25 anni di anzianità di servizio.
A tutto questo si aggiunge anche un altro fenomeno: molti medici e paramedici preferiscono andare a lavorare all’estero. Magari nei Paesi arabi dove gli stipendi sono molto elevati. Nell’ultimo periodo, almeno 150 infermieri e oltre 300 medici (tra generici e specialisti) avrebbero iniziato a programmare il proprio trasferimento verso Paesi del Golfo. Qui il fabbisogno di “cura” è crescente e le figure professionali preparate sono ben pagate. Alcune stime prevedono che in Arabia Saudita (vista la crescita esponenziale della popolazione e l’aumento dell’età media), entro il 2030, serviranno 44.000 medici e 88.000 infermieri. Non è un caso se in Arabia Saudita circa il 10% del PIL è destinato alla Sanità.
Al contrario in Europa, la percentuale media è di circa l’8,0% del PIL nel 2020. I Paesi dove questo rapporto è più alto sono Repubblica Ceca, Austria e Francia. Nel 2020, Repubblica Ceca e Austria (entrambe 9,2%) e Francia (9,0%) hanno registrato i rapporti più elevati tra la spesa pubblica dedicata alla salute e il PIL tra gli Stati membri dell’UE. L’Italia è sotto la media europea.
In Italia, come emerge dal Documento Programmatico di Bilancio (Draft Budgetary Plan) presentato dal Consiglio dei Ministri e inviato a Bruxelles, per gli anni 2024 e 2025, nonostante l’incremento del finanziamento del fabbisogno sanitario (di 3 miliardi per l’anno 2024, di 4 miliardi per l’anno 2025 e di 4,2 miliardi per il 2026), la spesa sanitaria non riguarderà più del 6,4% del PIL. “Per quanto concerne il pubblico impiego – si legge nel documento -, vengono stanziate le risorse per i rinnovi contrattuali del personale delle amministrazioni statali, con particolare attenzione ai lavoratori del settore sanitario, per i quali è inoltre previsto un incremento della tariffa oraria potenziata per il triennio 2024-2026”.
Resta da vedere se questo basterà a fermare la fuga di “camici bianchi” verso altri paesi. E soprattutto a garantire che tutti i cittadini italiani possano avere un medico che si prenda cura della propria salute.
https://www.blog-lavoroesalute.org/wp-content/uploads/2023/12/immagine-136.png506900franco.cilentifranco.cilenti2023-12-24 10:25:402023-12-24 10:29:14Numeri che parlano chiaro: la crescente fuga di “camici bianchi” causerà una riduzione dei medici di base
L’impianto della Legge di Bilancio 2024è ormai definitivo, dopo la votazione degli emendamenti in Commissione di Bilancio del Senato e l’approvazione del Senato stesso. I prossimi passi, puramente formali, prevedono il trasferimento del provvedimento blindato alla Camera, dove sarà approvato con voto di fiducia entro il 30 dicembre. La seconda manovra finanziaria del Governo Meloni rappresenta uno snodo fondamentale, poiché è il primo documento di politica economica interamente ascrivibile alla nuova maggioranza. I punti principali possono essere facilmente sintetizzati.
Austerità. Il Governo Meloni – in perfetta continuità con i Governi precedenti – si appresta a varare una manovra fiscale sotto il segno dell’austerità, ossia fatta di tagli alla spesa pubblica e maggiori tasse, perché opera nel solco della compatibilità con l’Unione europea e riserverà le poche risorse concesse dalla rigidità dei vincoli di bilancio a padroni e padroncini che rappresentano il blocco sociale di riferimento di qualsiasi governo di centro-destra. Questa politica economica del governo era già stata messa nero su bianco nella NADEF, ancor prima del rientro del PSC (ormai alle porte): il Governo ha già fatto i compiti a casa, ricevendo persino i complimenti della Commissione per l’intensità dell’aggiustamento di bilancio prospettato per il 2023 e per il triennio successivo. Inoltre, è notizia di queste ore che l’accordo raggiunto sul Patto di Stabilità e Crescita va al di là delle peggiori previsioni: l’Italia fa finta di avere ottenuto un successo con i piani di rientro spalmati su 7 anni per i paesi impegnati con le famigerate “riforme”, ma in realtà i meccanismi di controllo saranno molto più stringenti ed efficaci rispetto alle regole attuali, costringendo i paesi come l’Italia a ridurre il rapporto debito/PIL al ritmo dell’1% l’anno. Ma soprattutto, il disavanzo “consentito” ogni anno sarà dell’1,5% (oggi può arrivare al 3%); vuol dire, in pratica che l’Italia dovrà registrare avanzi primari ad un ritmo ancora più elevato di quanto già fatto registrare negli ultimi 15 anni (con conseguente rallentamento dell’economia).
Pensioni.Per il 2024 l’austerità pensionistica, già suggellata nel 2023, sarà pienamente confermata ed anzi verrà rafforzata.
Si conferma anche per il prossimo anno, con qualche lieve rimodulazione al rialzo o al ribasso a seconda delle fasce di reddito, il taglio draconiano, già stabilito per il 2023, della percentuale di indicizzazione per le pensioni superiori a quattro volte il minimo INPS. In concreto significa che, per le pensioni uguali a superiori a circa 2100 euro lordi al mese (circa 1600 euro netti), non viene riconosciuta una piena indicizzazione alla dinamica dei prezzi, ma percentuali decrescenti al crescere della pensione fino ad un minimo al di sotto del 30% dell’inflazione per le pensioni più alte. Non è difficile capire come si tratti di una misura fortemente punitiva, priva di alcuna giustificazione se non la volontà di far cassa sulla pelle dei pensionati in nome dell’austerità di bilancio e che sortisce effetti distributivi dirompenti in tempi di alta inflazione.
La condizione legata all’accesso anticipato alla pensione tramite quota 103 peggiora drasticamente. Rispetto al 2023, infatti, per chi va in pensione con quota 103 (62 anni + 41 di contributi) vi sarà: a) un ricalcolo della parte di pensione ancora legata al calcolo retributivo, che avverrà ovviamente con il sistema contributivo e porterà a decurtazioni significative; b) la pensione non potrà comunque eccedere la cifra di 2272 euro lordi (prima era 2800), ovvero circa 1700 euro netti; c) dilatazione del tempo delle finestre di accesso (con ulteriore rimando di alcuni mesi dell’effettiva ricezione della prima pensione); Vengono inaspriti i requisiti di accesso a opzione donna (da 60 a 61 anni), già fortemente ristretti per il 2023 e limitati ad una platea rigidamente selezionata; sono resi più severi anche i requisiti anagrafici per l’APE sociale; è anticipato di due anni l’adeguamento dei requisiti per la pensione anticipata (dal 31-12 2026 al 31-12 2024).
C’è un altro inasprimento drastico, questa volta dei requisiti per l’accesso alla cosiddetta pensione anticipata solo contributiva (64 anni di età + 20 di contributi), riservata cioè ai lavoratori “contributivi puri”, ovvero coloro che andranno in pensione soltanto con il sistema contributivo perché hanno iniziato a versare contributi dopo il 1996 (una platea per ora ristretta, ma che crescerà nel tempo). Il requisito per accedere alla pensione anticipata solo contributiva è che l’assegno pensionistico sia almeno tre volte il minimo INPS (prima era 2,8 volte), penalizzando così i pensionati più poveri che non possono godere di questo diritto; inoltre, l’assegno non potrà eccedere le cinque volte il minimo INPS (2840 euro lordi al mese), fino al raggiungimento dei 67 anni di età. Viene agganciato inoltre all’evoluzione della speranza di vita non solo il requisito anagrafico, ma anche quello contributivo (cosa non prevista dalla legge Fornero).
In conclusione, l’impianto complessivo dell’attuale sistema pensionistico italiano, così come plasmato prima dal governo Draghi e poi dal governo Meloni in due anni di legislatura risulta per gran parte degli aspetti peggiorativo rispetto alla situazione prevista dalla Legge Fornero.
Sanità. Abbiamo già spiegato come l’austerità abbia devastato la sanità pubblica. La nuova manovra aumenta il Fabbisogno Sanitario Nazionale (FSN) di 3 miliardi per il 2024, 4 miliardi per il 2025 e 4,2 miliardi per il 2026, salendo rispettivamente a 134 miliardi (2024), 135,3 miliardi (2025) e 135,5 miliardi (2026). Per il 2024, 2,4 miliardi (80%) sono destinati ai rinnovi contrattuali del personale dipendente e convenzionato, lasciando pochissime risorse per le altre priorità. Non è previsto un piano straordinario di nuove assunzioni (mancano 30 mila medici e 250 mila infermieri), indispensabile per rilanciare la sanità pubblica, che dopo il Covid presenta criticità drammatiche. Questi numeri si traducono in una riduzione del finanziamento pubblico in termini reali: dal 2025 gli aumenti nominali non coprono nemmeno gli aumenti legati all’inflazione, traducendosi in meno macchinari, meno farmaci, peggioramento del servizio. Sono confermate anche le stime della NADEF 2023 sulla spesa sanitaria per il triennio 2024-2026, con riduzione del rapporto spesa sanitaria/PIL, che precipita nel 2026 al 6,1% (molto al di sotto della media europea, in Germania e Francia siamo al 10%).
Reddito di Cittadinanza. Il Governo cancella il sostegno a 900mila famiglia, come segnala anche (addirittura) Bankitalia. Il taglio del reddito colpisce in particolare le fasce più deboli della popolazione, cioè le stesse maggiormente colpite dall’inflazione (che ammonta a un enorme 18% cumulato negli ultimi 3 anni) che pesa di più sui più poveri, per i quali è maggiore la quota di spesa destinata a (energetici ed alimentari, cioè i beni con la crescita dei prezzi maggiore). Approfondimenti qui.
Fisco. La mancetta del taglio al cuneo fiscale è confermata per il 2024 per i redditi fino a 35mila euro: sappiamo che queste risorse finiscono direttamente nei profitti delle imprese nel medio periodo, persino a detta di economisti liberisti come Boeri e Perotti (approfondimenti qui e qui). Verranno ridotte, in futuro, le aliquote IRPEF da 4 a 3 (una riduzione delle aliquote significa sempre minore progressività, e quindi un regalo ai più ricchi). Aumentano i trattamenti di favore per i redditi non da lavoro (es. estensione del regime della cedolare secca, regimi forfettari, etc.). Cade nel ridicolo, inoltre, l’imposta sugli extraprofitti per le banche (invece dell’imposta possono accantonare i soldi fra le loro riserve) e imprese energetiche.
Autonomia differenziata. Le diseguaglianze aumenteranno anche su base territoriale, con il progetto dell’autonomia differenziata (la “secessione dei ricchi”), come il Governo promette di fare già da gennaio. Le Regioni più ricche punteranno a trattenere una quota maggiore del proprio “residuo fiscale” (cioè, la differenza fra le imposte riferibili alle attività economiche svolte sul proprio territorio e la spesa pubblica relativa agli stessi territori). In questo modo si indebolisce la funzione redistributiva che è proprio alla base di un sistema fiscale, e si dirà definitivamente addio all’idea che qualsiasi cittadino italiano ha diritto (almeno per le prestazioni essenziali) alla stessa quantità e qualità di prestazioni a prescindere da dove è nato o vive.
Rinnovo dei contratti pubblici. I contratti del pubblico impiego sono scaduti il 31 dicembre 2021, e dunque le retribuzioni dei lavoratori sono ancora quelle fissate a suo tempo, a fronte comunque di una inflazione a due cifre che ha ridotto pesantemente il già magro potere di acquisto dei lavoratori pubblici. La Legge di Bilancio destina 3 miliardi per il 2024 e 5 per il 2025. Queste risorse sono del tutto insufficienti per garantire un adeguato rinnovo contrattuale. A fronte di un’inflazione che sfiora il 18% nel triennio, servirebbero non meno di 31 miliardi di euro, mentre le risorse sin qui stanziate sono una piccola goccia nell’oceano.Sempre più vincitori di concorso dovranno rinunciare al posto, a causa dei costi insostenibili nelle grandi città (con conseguente malfunzionamento dei servizi pubblici), e il Ministro Zangrillo in tutta risposta se ne esce con la retorica del “posto figo” (mentre Salvini precetta in continuazione).
Politiche industriali: non c’è praticamente nulla. L’articolo 52 rafforza l’accesso al credito per l’export delle imprese, l’articolo 53 definisce i limiti del credito di imposta per le imprese che vogliono investire nella nuova ZES unica del Mezzogiorno. L’articolo 55 finanzia i Contratti di Sviluppo per 190 mln di euro nel 2024 e 210 per il 2025. Infine, l’articolo 56 estende e modifica le garanzie SACE per gli investimenti produttivi e infrastrutturali a parziale fallimento di mercato. In materia di energia si registra solamente lo stanziamento di 400mln di euro per il bonus sociale elettrico per il primo trimestre del 2024, mentre si dice addio al Servizio di maggior tutela. In materia di politica industriale ed energia il numero contenuto di provvedimenti si spiega parzialmente col recente varo di tre decreti specifici in questi ambiti, che costituisce una pessima prassi legislativa che finisce col frammentare eccessivamente gli interventi creando un quadro estremamente complesso e di difficile interpretazione. E a proposito di politica industriale, due parole sull’ILVA. Su un impianto di interesse strategico per il paese, un Governo autodefinito sovranista è appeso ai capricci di una multinazionale indiana con sede in Lussemburgo, ed è impegnato a trovare una soluzione utile solo a coprire con soldi pubblici i debiti accumulati in questi anni da un privato che macina utili sulla salute dei cittadini e lasciando in cassa integrazione circa la metà dei lavoratori. Il risultato? Alla fine, non sarà tutelato né il diritto alla salute, né un obiettivo di politica industriale, né obiettivi sociali di occupazione nel Mezzogiorno. Il tutto, peraltro, con un enorme esborso di soldi pubblici
Revisione del PNRR. È un punto legato indirettamente alla legge di bilancio, la. Tale revisione è infatti parte integrante della manovra economica del governo, e sposta circa 20 miliardi di euro di risorse destinandole prevalentemente alle imprese (12 miliardi di soliti incentivi automatici, regali ai profitti, 5 miliardi alle imprese del settore energetico per il REPowerEU), lasciando le briciole alle misure sociali (750 milioni per la Missione Salute del PNRR).
Le uniche misure della manovra sono un mero rifinanziamento di interventi già in corso, tutti interventi che non servono a ribaltare il paradigma degli scorsi decenni. Il governo dimostra ancora una volta di essere forte con i deboli e debole coi forti, implementando alacremente l’agenda di austerità dei governi precedenti, con l’aggravante di un ulteriore salto di qualità nel favorire gli interessi dei ceti più abbienti e nella riduzione dell’intervento pubblico e delle risorse destinate a scuola, sanità e sostegno ai redditi più bassi.
https://www.blog-lavoroesalute.org/wp-content/uploads/2023/12/immagine-135.png543993franco.cilentifranco.cilenti2023-12-24 10:22:322023-12-24 10:22:35Il pacco del Governo Meloni
In Italia circa sei milioni di persone vivono in condizione di povertà assoluta e la situazione peggiorerà a causa delle scelte del governo. Serve invertire la rotta attraverso la partecipazione pubblica: solo così sconfiggeremo le disparità sociali e metteremo al sicuro la Costituzione
“Vincere la povertà non è un atto di carità, è un atto di giustizia. Come la schiavitù e l’apartheid, la povertà non è naturale. La povertà è causata dall’essere umano, e può essere superata e sradicata grazie all’impegno di tutti. A volte una generazione ha l’opportunità di dimostrare tutta la sua grandezza. Voi potreste essere quella grande generazione”. Queste furono le parole pronunciate da Nelson Mandela nel 2005 a Trafalgar Square, a Londra. Oggi, a pochi giorni dalla chiusura del 2023, non sembra questa la direzione scelta dall’Italia come dimostrano il continuo peggioramento delle condizioni materiali ed esistenziali, l’aumento delle disuguaglianze e dell’esclusione sociale. Soprattutto, se consideriamo l’incapacità del governo di dare risposte concrete a milioni di persone impoverite, precarie ed escluse.
Esclusi dalla società
Secondo l’Istat sono poco più di 2,18 milioni le famiglie che vivono in condizione di povertà assoluta, oltre 5,6 milioni di persone. Per Eurostat l’Italia è l’unico fra i grandi paesi europei in cui la quota di famiglie che non riescono ad arrivare alla fine del mese è sopra il 63 per cento (la media In Europa è pari al 45,5 per cento) mentre secondo l’associazione Svimez, Campania (2a), Calabria (4a) e Sicilia 5a) figurano tra le prime cinque regioni in Europa con la quota più alta di persone a rischio povertà ed esclusione sociale.
Il Censis definisce la società italiana come “affetta da sonnambulismo, precipitata in un sonno profondo dell’analisi razionale, che servirebbe per affrontare dinamiche strutturali dagli esiti funesti, inabissata in una ipertrofia emotiva in cui le argomentazioni ragionevoli possono essere capovolte da continue scosse emozionali”. In questo contesto, prosegue l’istituto di ricerca, “trovano terreno fertile paure amplificate, fughe millenaristiche, spasmi apocalittici, l’improbabile e il verosimile”. Scenari ipotetici che paralizzano, escludendo la mobilitazione necessaria per la ricerca di soluzioni efficaci: un “dissenso senza conflitto, che genera l’inerzia del sonnambulismo dinanzi alla complessità delle sfide che la società contemporanea deve affrontare”.
Cittadini e politica sempre più lontani
Il peggioramento delle condizioni materiali ed esistenziali non ha prodotto la spinta necessaria a unire chi oggi subisce gli effetti di una crisi multidimensionale, strutturale e sistemica. Anzi, ha generato uno scollamento sempre più ampio tra la politica istituzionale e il paese reale, restituendo l’idea condivisa da milioni di persone secondo cui la politica non è più lo strumento attraverso il quale cambiare la propria condizione.
Il peggioramento delle condizioni materiali ed esistenziali ha generato uno scollamento sempre più ampio tra la politica istituzionale e il paese reale
Nei prossimi mesi la situazione peggiorerà ulteriormente a causa delle scelte compiute dal governo guidato da Giorgia Meloni, di cui oggi non vediamo ancora gli effetti: lo stop all’erogazione del Reddito di cittadinanza per 250mila famiglie, la cancellazione del Bonus affitti e l’azzeramento del Fondo morosità incolpevole, misure che fornivano un aiuto fondamentale a 600mila persone. Per non parlare dei tagli ai trasferimenti ai Comuni, alla sanità e alle politiche sociali contenuti nella Legge di bilancio e il ritorno alle politiche di austerità con il Patto di stabilità. A tal proposito, è utile ricordare che l’Europa ha sospeso il Patto di stabilità nel 2020, a seguito alla fase più acuta della pandemia da covid, ammettendo di fatto l’incompatibilità dell’austerità con i diritti e la democrazia.
Gli effetti di queste politiche catastrofiche – alla base della crisi economica e sociale in Europa e accettate negli ultimi 15 anni in maniera bipartisan dai governi Italiani – sono sotto gli occhi di tutti. Nonostante questo, la politica sceglie di andare contro le evidenze, garantendo gli interessi dei più ricchi attraverso politiche di austerità, pareggio di bilancio, fiscalità regressiva e tagli a sociale, sanità, cultura, ricerca e istruzione.
Democrazia a rischio
I governi europei hanno posizioni diverse sul ritorno al Patto di stabilità e si dividono in termini strategici su come affrontare le tre grandi questioni del nostro tempo: guerre, collasso climatico e aumento costante delle povertà e dell’esclusione sociale. Questioni intrecciate e collegate dalle necessità del paradigma tecnocratico, come direbbe Papa Francesco. A rischio, dunque, c’è la tenuta democratica dell’Europa e il suo progetto politico. Il “modello sociale europeo” di Altiero Spinelli, con al centro i diritti sociali e la pace, è un sogno ormai lontano.
Ma, soprattutto, non sembrano esservi in Europa attori politici che abbiano la forza di riscrivere attraverso la partecipazione popolare un progetto che risponda ai nostri bisogni, preservando l’idea di una società giusta, libera e in pace. In assenza di risposte politiche adeguate a mobilitare un’azione rigeneratrice, stiamo assistendo alla costruzione di un’Europa sempre più armata, diseguale, priva di identità e incapace di una visione d’insieme. Nessun green new deal all’orizzonte, nessun piano Marshall attraverso i fondi del Next generation Eu per rispondere alla necessità di lavoro, servizi, salute, casa, istruzione e accoglienza.
Non sembrano esservi in Europa attori politici che abbiano la forza di riscrivere attraverso la partecipazione popolare un progetto che risponda ai nostri bisogni, preservando l’idea di una società giusta, libera e in pace
Quale futuro abbiamo allora davanti? Se non invertiamo la rotta, in Italia come in Europa, continueranno a crescere disuguaglianze, ingiustizie sociali e ambientali, mentre diminuirà la partecipazione dei cittadini. Non saranno le scorciatoie a salvarci, né il realismo cinico che contraddistingue il senso comune della fase politica attuale.
Per non rimanere schiacciati dal senso di frustrazione di un immutabile stato di crisi permanente, dobbiamo ripartire dalle nostre relazioni inseparabili con la vita, attingendo alla nostra creatività, muovendoci perennemente nella costruzione del Noi, generando passione attraverso riconoscimento, cooperazione e solidarietà, dando luce a ogni innovazione sociale che sia il frutto di un’azione collettiva. Significa essere disposti non solo ad accettare la diversità e la pluralità delle forme di lotta, ma saperle utilizzare come opportunità uniche per articolare processi di liberazione creativa dal basso, costruendo piattaforme intersezionali, con leadership plurali, inclusive, che uniscano concretezza e visione su come affrontare il presente e costruire il futuro.
Le sette proposte della Rete dei numeri pari
È quello che, con tutti i suoi limiti e con la consapevolezza di essere una parzialità, cerca di fare nel suo piccolo la Rete dei numeri pari, organizzando e mettendo insieme attività di mutualismo solidale, momenti di formazione e autoformazione, mobilitazioni per la difesa dei diritti sociali, costruendo allo stesso tempo obiettivi condivisi attraverso un’agenda sociale elaborata dal basso, con sette proposte che mettono insieme più di 700 realtà sociali. Proposte che rimettono al centro dell’agire politico la vita e i suoi bisogni: reddito minimo garantito, diritto all’abitare e servizi sociali di qualità; salario minimo legale e lavoro giusto e dignitoso; diritto all’accoglienza; lotta alle mafie; no all’autonomia differenziata; utilizzo del Pnrr per equità sociale e riconversione ecologica delle attività produttive; applicazione del metodo della co-programmazione e co-progettazione per rafforzare partecipazione e inclusione. È questo il programma politico in grado di mobilitare la partecipazione necessaria per sconfiggere le disuguaglianze, salvaguardando la democrazia e la pace.
Nei prossimi mesi, insieme a chi ha promosso La via maestra – Insieme per la Costituzione, di cui siamo parte, continueremo a mettere in campo azioni, assemblee, iniziative e proposte, partendo dalla priorità della lotta contro il progetto eversivo di autonomia differenziata e premierato. Se passasse, come più volte abbiamo denunciato in questi anni, metterebbe fine all’unità della nostra Repubblica, trasformandola in 20 piccoli staterelli; istituzionalizzerebbe le povertà, realizzando un regionalismo asimmetrico e non solidale; rafforzerebbe enormemente le mafie. Sarebbe la fine della Repubblica e del progetto politico contenuto nella nostra Costituzione, e per questo dobbiamo impedirlo.
https://www.blog-lavoroesalute.org/wp-content/uploads/2023/12/immagine-134.png8011200franco.cilentifranco.cilenti2023-12-24 10:19:022023-12-24 10:19:04Partecipazione, antidoto per le disuguaglianze
come Osservatorio abbiamo lanciato questa petizione per chiedere le dimissioni da Med-Or (fondazione culturale di Leonardo, massima produttrice italiana di armi) dei rettori/rettrici delle università pubbliche italiane presenti nel comitato scientifico. Crediamo che le università pubbliche e i loro rappresentanti istituzionali, non debbano aver alcun legame con l’industria e la ricerca militare.
In allegato trovate il testo della petizione con le/i prime/i firmatarie/i,
Negli ultimi anni assistiamo a un processo di trasformazione della scuola e delle università italiane che, in nome di presunte esigenze economiche, gestionali, “pedagogiche”, strategiche, rovescia il dettato costituzionale che le vorrebbe luogo di trasmissione di cultura e fucina delle idee. Tra i molti aspetti regressivi, ci pare particolarmente preoccupante, soprattutto nello scenario attuale di guerra, l’insinuarsi sempre più invadente all’interno delle istituzioni formative di una “cultura securitaria” e “della difesa”, con l’intento di renderle funzionali alle esigenze dell’industria bellica e alla diffusione dei “valori” delle forze armate. Nelle scuole pubbliche, dall’infanzia alle superiori, la presenza delle forze militari è ormai quotidiana e l’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università sta registrando centinaia di segnalazioni da ogni parte del Paese. Ma anche a livello universitario la collaborazione tra Università e industrie belliche è in costante implementazione, soprattutto per quanto riguarda i progetti di ricerca e il loro finanziamento. Come nelle scuole, dove le testimonianze militari vengono sempre accompagnate da una facciata buonista, anche nelle Università e negli Enti di Ricerca si cerca di mascherare la principale finalità di ciò che ruota intorno all’industria bellica: la produzione di strumenti di morte. Molto significativa è la nascita nella primavera del 2021 della Fondazione Med-Or del gruppo Leonardo S.p.A. (ex Finmeccanica, azienda italiana attiva nei settori della difesa, dell’aerospazio e della sicurezza e che esporta armi in tutto il mondo) “per promuovere attività culturali, di ricerca e formazione scientifica, al fine di rafforzare i legami, gli scambi e i rapporti internazionali tra l’Italia e i Paesi dell’area del Mediterraneo allargato fino al Sahel, Corno d’Africa e Mar Rosso (Med) e del Medio ed Estremo Oriente (Or)”. Dietro a questo disegno strategico si celano percorsi di “ricerca condivisa e continuativa” o una idea della “formazione continua” che stridono con i risicati fondi destinati ai percorsi di partecipazione, innovazione e formazione all’interno degli Atenei. La Fondazione Med-Or individua come proprio obiettivo centrale “essere funzione propositiva nello sviluppo di programmi strutturali nei settori dell’Aerospazio, della Difesa e della Sicurezza con l’obiettivo di sviluppare e consolidare le competenze e le capacità delle Aree geo-politiche di interesse di Leonardo s.p.a”.
La Fondazione Med-Or di Leonardo è un esempio di come si dispiega l’intervento del complesso militare industriale nella compagine sociale e culturale, una delle tante forme che assume la cosiddetta “cultura della difesa”: programmi culturali e di formazione nei settori della safety e della security, dell’aerospazio e della difesa; partenariati con le istituzioni accademiche e di ricerca nazionali e internazionali; iniziative di incontro e collaborazione tra università e centri di ricerca; borse di studio indirizzate a ricercatori di paesi in via di sviluppo mirate a costruire una classe dirigente asservita agli “interessi nazionali italiani e dell’Unione Europea” in una sorta di neocolonialismo formativo. Nel concreto i suoi progetti sono di vario tipo, e mescolano abilmente interessi materiali e geopolitici con gli intenti benefici. Da una parte armi, dall’altra iniziative culturali. Del comitato scientifico della Fondazione Med-Or fanno parte docenti universitari/ie e tredici Rettori/Rettrici di altrettante università statali italiane: ● Università degli Studi di Bari Aldo Moro ● Politecnico di Bari ● Università degli Studi di Trento ● Università degli Studi di Roma Tre ● Università degli Studi Ca’ Foscari di Venezia ● Università degli Studi di Salerno ● Università degli Studi di Napoli Federico II ● Università degli Studi di Perugia ● Università degli Studi di Firenze ● Università degli Studi di Roma La Sapienza ● Politecnico di Milano ● Università degli Studi di Napoli L’Orientale ● Università degli Studi della Tuscia La presenza all’interno della Fondazione Med-Or di Rettori/Rettrici delle Università è incompatibile con il loro ruolo istituzionale di rappresentanti dei nostri Atenei: le Università devono promuovere la cultura della pace e i valori della Costituzione repubblicana, devono essere rivolte alla formazione della consapevolezza critica e
pluralista della cittadinanza e per fare ciò devono essere libere dalle ingerenze di un’industria di morte come quella bellica, ancorché agita attraverso finanziamenti alla cultura, alla formazione e alla ricerca, di cui inevitabilmente condizionano l’indipendenza. Il Rettore o la Rettrice di un’Università, in particolar modo se pubblica, rappresenta formalmente non solo il proprio Ateneo, ma l’istituzione culturale per eccellenza di una città, patrimonio perciò dei cittadini e delle cittadine tutti/e. Dunque come cittadini e cittadine, studenti e studentesse, ricercatori e ricercatrici, docenti della scuola e dell’Università italiane chiediamo che i Rettori e le Rettrici delle Università coinvolte si dimettano immediatamente e pubblicamente dalla Fondazione Med-Or. Parimenti rivolgiamo il presente appello a tutti i Rettori e le Rettrici degli Atenei italiani aderenti alla C.R.U.I., evidenziando che in applicazione dell’art.11 della Costituzione italiana (L’Italia ripudia la guerra) e dei codici etici, bagaglio culturale e educativo degli Atenei, tutti i Rettori e le Rettrici si impegnino a non aprire collaborazioni con fabbriche di armi o con Enti che forniscano strumenti militari anche informatici. Prime/i firmatarie/i Vittorio Agnoletto – Prof. a contratto Università di Milano. Alessandra Algostino – Prof.ssa Ordinaria di diritto costituzionale Università di Torino Massimiliano Andretta – Prof. Associato di Scienza politica, Università di Pisa Stefania Arcara – Prof.ssa Associata, Letteratura inglese e Studi di genere – Università di Catania Cesare Bermani – storico Davide Borrelli – Prof. Ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi Università Suor Orsola Benincasa – Napoli Cristina Cassina – Prof.ssa di Storia del Pensiero Politico, Università di Pisa Marco Celentano – Prof. Associato di Filosofia morale Università di Cassino e del Lazio Meridionale Salvatore Cingari – Dipartimento di Scienze umane e sociali internazionali, Università per Stranieri di Perugia
Andrea Cozzo – Prof. Ordinario di Lingua e letteratura greca, Università di Palermo Fabio de Nardis – Prof. Ordinario di Sociologia politica, Università di Foggia Salvatore Distefano – già docente di Filosofia e Storia e Presidente della Associazione Etnea Studi Storico Filosofici di Catania. Angelo d’Orsi – Storico e giornalista, già Prof. Ordinario Università di Torino Gabriella Falcicchio – Attivista del Movimento Nonviolento , Dip. Scienze della Formazione, Psicologia, Comunicazione Università di Bari Federica Fratini – Ricercatrice presso l’Istituto Superiore di Sanità Nella Ginatempo – Sociologa, pacifista Eric Gobetti – Storico freelance Norberto Julini – Coordinatore nazionale di Pax Christi Italia Michele Lancione – Prof. Ordinario di Geografia Politico-Economica, Politecnico di Torino Francesco Lo Cascio – Portavoce della “Consulta per la pace, la nonviolenza, i diritti umani e il disarmo” del comune di Palermo Laura Marchetti – Docente di Didattica generale all’Università Mediterranea di Reggio Calabria e docente di Didattica delle culture all’Università degli Studi di Foggia Rita Martufi – Ricercatrice Socio Economica e Direttrice Responsabile CESTES Antonio Mazzeo – Docente, peace researcher Luca Mercalli – Presidente Società Meteorologica Italiana Guido Montanari – già Ricercatore del Politecnico di Torino Tomaso Montanari – Prof. Ordinario di Storia dell’arte e Rettore dell’Università per Stranieri di Siena Alfonso Navarra – Coordinatore dei Disarmisti esigenti, membri ICAN e WRI Federico Oliveri – Ricercatore aggregato Centro Interdisciplinare Scienze per la Pace, Università di Pisa Francesco Pallante – Prof. Ordinario di Diritto costituzionale, Università di Torino Vittorio Pallotti – Presidente onorario del Centro di Documentazione del Manifesto Pacifista Internazionale – CDMPI Valentina Paze’ – Prof.ssa Associata in filosofia politica Università di Torino
Livio Pepino – Presidente associazione “Volere la luna” Torino Gianni Piazza – Prof. Associato di Sociologia dei fenomeni politici Università di Catania Antonio Pioletti – Professore Emerito, Università di Catania Giuseppe Restifo – Storico, ricercatore indipendente Angelica Romano – Co-Presidente “Un Ponte Per” Carlo Rovelli – Fisico e saggista Lucio Russo – Matematico, già Prof. Ordinario, Università Tor Vergata Citto Sajia – Critico cinematografico, già docente Università di Messina Attilio Scuderi – Prof. Ordinario di Letterature Comparate, Università di Catania Rosa Siciliano – Direttrice editoriale di “Mosaico di pace” Alessandro Somma – Prof. Ordinario di Diritto Comparato, Università La Sapienza, Roma Patrizia Sterpetti – Responsabile sezione italiana di WILPF/Italia (Women’s International League for Peace and Freedom) Luciano Vasapollo – Prof. di Politica Economica, Università La Sapienza, Roma Alex Zanotelli – Missionario comboniano
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https://www.blog-lavoroesalute.org/wp-content/uploads/2023/12/Osservatorio-no-militarizzazione-scuola.jpg12321469franco.cilentifranco.cilenti2023-12-24 09:51:042023-12-24 09:51:30Contro la militarizzazione delle scuole
Come giornalista palestinese e attivista per i diritti umani nella Striscia di Gaza che racconta l’impatto della guerra israeliana che dura ormai da due mesi e mezzo, sto diventando sempre più consapevole che potrei essere il prossimo obiettivo di un attacco aereo israeliano.
Da quando Israele ha iniziato a bombardare e assediare Gaza il 7 ottobre – lanciando un’invasione di terra dell’enclave tre settimane dopo – almeno 97 giornalisti sono stati uccisi, secondo l’ufficio stampa del governo di Gaza. Committee to Protect Journalists, una ONG internazionale, stima a 61 il numero dei morti a Gaza durante la guerra.
Molti di questi giornalisti e operatori dei media sono stati uccisi mentre lavoravano, ma altri sono stati uccisi insieme ai membri delle loro famiglie mentre erano a casa o nelle case in cui si erano rifugiati dopo essere stati sfollati con la forza. I giornalisti uccisi sono un piccolo sottoinsieme delle 20.000 persone – di cui circa il 70% donne e bambini – che sono state uccise dalla campagna militare di Israele a Gaza dal 7 ottobre.
Non dovrei essere obbligata a ricordarlo, ma i giornalisti sono civili e i civili non dovrebbero essere presi di mira nelle operazioni militari: si tratta di una violazione del diritto internazionale umanitario.
A causa della difficoltà di raccogliere prove, in molti casi è difficile dimostrare in modo definitivo che Israele stia deliberatamente prendendo di mira i giornalisti. Tuttavia, l’elevato numero di operatori dei media uccisi a Gaza sembra essere intenzionale o dimostrare che l’esercito israeliano sta operando con un totale disprezzo per la vita dei civili – o entrambe le cose.
Ci sono comunque prove che le forze israeliane abbiano intenzionalmente preso di mira i giornalisti; sia durante le attuali ostilità – come nel caso dell’attacco del 13 ottobre che ha ucciso il giornalista libanese Issam Abdullah – sia recentemente, con l’uccisione della giornalista palestinese Shireen Abu Akleh in Cisgiordania nel 2022.
Come giornalisti che lavorano durante i combattimenti, indossiamo giubbotti antiproiettile ed elmetti per identificarci chiaramente come membri della stampa. Questa dovrebbe essere una forma di protezione, che segnala ai combattenti di non prenderci di mira. A Gaza, le giacche e gli elmetti dei giornalisti sono sempre più spesso considerati un problema. I miei colleghi giornalisti a volte preferiscono toglierseli quando fanno reportage in luoghi pubblici affollati, temendo che la loro presenza visibile nell’area possa provocare un attacco da parte di Israele.
Anche i residenti di Gaza hanno sempre più paura di trovarsi nello stesso posto dei giornalisti. Uno di recente mi ha detto: “Ovunque si trovi un giornalista può essere preso di mira”.
Il nostro dovere è fare luce
Ho vissuto tutta la vita sotto l’occupazione israeliana e so che in passato i giornalisti palestinesi sono stati presi di mira e uccisi a Gaza e in Cisgiordania. Ma in qualche modo credevo ancora che essere un giornalista mi garantisse una sorta di sicurezza durante gli attacchi militari. Volevo credere che quando i giornalisti venivano uccisi negli attacchi aerei o dai proiettili dei cecchini, non fossero il bersaglio designato, che la loro morte fosse un incidente.
Dopo gli ultimi due mesi e mezzo, non ci credo più.
Durante la seconda settimana dell’invasione israeliana, stavo facendo un servizio in diretta per un canale televisivo dalla casa in cui mi sono rifugiata dopo essere stato costretta a lasciare la mia abitazione. Descrivevo la situazione a Gaza e riferivo degli attacchi di Israele.
Pochi minuti dopo aver terminato l’intervista, ho ricevuto una telefonata da un parente all’estero che l’aveva vista per caso. “Sai che puoi essere presa di mira nella casa dove stai, e che tutti quelli che sono con te possono essere uccisi a causa del tuo lavoro?”, mi ha chiesto. Un altro collega straniero mi ha poi domandato: “Come ti senti a lavorare in una professione in cui un collega giornalista viene ucciso ogni giorno?”.
Nonostante il pericolo e la sensazione di essere un bersaglio, i giornalisti a Gaza hanno continuato a coprire gli eventi sul campo. È nostro dovere raccontare ciò che sta accadendo, soprattutto perché Israele e l’Egitto non permettono ai giornalisti internazionali di entrare a Gaza se non per missioni controllate dall’esercito israeliano. Senza di noi, la morte, la distruzione e la sofferenza causate dalla campagna militare e dall’assedio di Israele si svolgerebbero all’oscuro di tutto.
Anche noi viviamo la catastrofe
Mentre continuiamo a fare il nostro lavoro – anche se sentiamo sempre più spesso che le nostre vite sono minacciate a causa della nostra professione – viviamo la catastrofe a Gaza come chiunque altro.
Sentiamo che potremmo essere uccisi da un momento all’altro, o che le nostre famiglie o i nostri vicini potrebbero essere uccisi. Ogni giorno, ogni momento, mi confronto con l’idea che potrei essere uccisa. Nella mia testa, convivo con questo pensiero, implorando di avere un giorno in più per scrivere un’altra storia o intervistare un’altra vittima di questa guerra. Sento l’immensa responsabilità di rimanere in vita il più a lungo possibile, non solo per la mia sicurezza, ma anche per continuare a dare voce a tutte le persone senza voce che incontro ogni giorno.
Se dovessi essere uccisa, so che ci sono decine di giornalisti che continueranno il lavoro. Ma sento anche di dover lottare per poter continuare a lavorare, per andare avanti, a qualunque costo.
Essere un giornalista a Gaza significa essere sia la persona che racconta un attacco sia la vittima che ne è testimone. Sei il giornalista che scrive delle centinaia di migliaia di sfollati forzati, e sei uno degli sfollati costretto a fuggire perché il tuo quartiere è stato bombardato a tappeto e la tua casa è stata distrutta. Sei quello che scrive delle interruzioni di corrente a Gaza usando carta e penna, fotografando la tua storia scritta a mano per inviarla via WhatsApp e risparmiare la batteria del tuo cellulare.
Quando citi le fonti a sostegno dei tuoi articoli, sei uno del 56% dei residenti che soffrono di gravi livelli di fame e uno.a dei 350.000 sfollati – su 1,9 milioni in totale – che patiscono malattie e diarrea a causa dell’acqua contaminata e della mancanza di forniture igieniche. E sei uno dei 2,3 milioni di residenti di questa enclave che vorrebbero essere tutto tranne che esseri umani che vivono a Gaza in queste condizioni disumane.
*Giornalista pluripremiata e attivista per i diritti umani basata a Gaza
https://www.blog-lavoroesalute.org/wp-content/uploads/2023/12/immagine-125.png5651182franco.cilentifranco.cilenti2023-12-24 08:44:452023-12-24 08:44:47Sono una giornalista a Gaza: “Ogni giorno, ogni momento, mi confronto con l’idea che potrei essere uccisa”
Il divieto di pubblicare che secreta le ordinanze di custodia cautelare e i contenuti fino alla fine dell’udienza preliminare rappresenta un provvedimento autoritario gravissimo, che non solo colpisce e limita il lavoro dei giornalisti, ma soprattutto il diritto dei cittadini di essere informati e rende più indifese le stesse persone private della libertà.
Si tratta dell’ennesimo bavaglio messo alla stampa che non sorprende. E’ la conferma dell’attacco all’informazione portato avanti negli ultimi anni dai poteri forti e dalla politica più brutta. Nel nostro Paese, infatti, esiste un partito del bavaglio trasversale ai vari schieramenti parlamentari che vuole silenziare l’informazione per poter agire in modo indisturbato e senza avere addosso l’occhio mediatico.
E’ successo durante la stagione del governo Berlusconi e ancora nel 2015 quando il governo Renzi voleva impedire la pubblicazione delle intercettazioni: in quell’occasione è nata la Rete NoBavaglio con un appello scritto insieme al giurista Stefano Rodotà poi condiviso da Fnsi, Odg, da decine di associazioni e organizzazioni, personalità della cultura e dello spettacolo e del mondo politico in prima linea nella difesa dei diritti democratici e della libertà di espressione garantita dall’articolo 21 della Costituzione.
Con l’alibi della difesa della privacy, del diritto all’oblio e della presunzione di innocenza del decreto Cartabia ( che affida ai procuratori la responsabilità di decidere se possa essere resa pubblica una inchiesta) si vuole sempre più condizionare l’indipendenza dell’informazione. La stessa riforma del reato di diffamazione, attualmente in discussione in Parlamento, non solo non risolve il problema delle querele-bavaglio, ma toglie ulteriore autonomia ai giornalisti stabilendo multe onerose e l’obbligo di rettifica senza contradditorio. In questo clima di censura di Stato si contestualizza l’emendamento approvato ieri che proibisce la pubblicazione dei contenuti dell’ordinanza di custodia cautelare fino alla fine dell’udienza preliminare.
Di conseguenza dal momento dell’arresto fino al processo, all’opinione pubblica per mesi sarà negato il diritto di essere informata su temi importati come la lotta alla corruzione e la lotta alla mafia. Ma non solo: non sarà possibile conoscere le accuse e le prove contestate alla persona finita in carcere e quindi sapere se si tratta di una reclusione legittima o eccessiva: di conseguenza saranno colpite anche le garanzie a tutela del cittadino indagato o arrestato. Con questo ulteriore atto il “partito trasversale del bavaglio” è riuscito a cancellare il ruolo di garanzia che la libera stampa riveste a tutela di tutti i cittadini, anche di quelli privati della libertà.
Le Rete NoBavaglio, ancora una volta, è al fianco della Federazione della Stampa italiana e dell’Ordine dei Giornalisti e si unisce all’appello rivolto al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, di non firmare questo provvedimento liberticida che farà declassare ulteriormente l’Italia, oggi al 41° posto, appena dietro a Montenegro, Argentina e Macedonia del Nord, nella classifica del World press Freedom di Reporters sans frontières.
La Rete NoBavaglio aderisce a ogni forma di mobilitazione contro questo provvedimento e per garantire il diritto-dovere dei giornalisti di informare e il diritto dei cittadini di essere informati. Come rete di giornalisti e cittadini ci rivolgiamo ai direttori delle testate giornalistiche e a tutti gli operatori dell’informazione chiedendo di dare vita a una campagna contro tutti i bavagli e di unirsi in una battaglia di civiltà e democrazia che deve creare un’alleanza tra mondo dell’informazione e cittadinanza attiva.
Uno Stato davvero democratico dovrebbe favorire la verifica delle informazioni e non ostacolarla. Senza libertà non può esistere un’informazione corretta e di qualità e senza informazione la libertà muore.
https://www.blog-lavoroesalute.org/wp-content/uploads/2023/12/immagine-121.png609820franco.cilentifranco.cilenti2023-12-23 06:56:222023-12-23 06:56:24Appello di Rete NoBavaglio: “Giornalisti e cittadini si uniscano alla mobilitazione contro l’ennesima legge-bavaglio”
Il conflitto in Ucraina, che secondo la narrazione “comune” sarebbe iniziato il 24 febbraio 2022, ma in realtà scoppiato assai prima, sembrerebbe avviarsi al suo epilogo. Utilizziamo il verbo “sembrare” perché l’esperienza insegna come formulare previsioni circa i teatri conflittuali sia sempre un azzardo, ma soprattutto perché ci sono molte altre variabili da considerare. Basterebbe sfogliare il saggio “Scemi di guerra”[1], di Marco Travaglio, uscito a febbraio scorso, per leggervi di innumerevoli previsioni rivelatesi fallaci e/o ispirate alla logica del “wishful thinking”.
Lasciando perdere analisti improvvisati e/o divulgatori vari ed eventuali, prenderemo spunto da un articolo recentemente pubblicato da Seymour Hersh, giornalista investigativo e vincitore del premio Pulitzer[2], intitolato “Da Generale a Generale. In Ucraina i leader militari stanno trattando la possibilità della pace”. Hersh parla di presunti (e segreti) colloqui di pace tra il generale Valery Zaluzhny, comandante delle forze armate di Kiev e Valery Gerasimov, capo di stato maggiore russo: secondo l’autore: “La forza trainante di questi colloqui non è stata Washington o Mosca, Biden o Putin, ma piuttosto i due generali di alto rango che conducono la guerra, Valery Gerasimov e Valery Zaluzhny”.
La bozza d’intesa prevederebbe un via libera di Mosca all’ingresso di Kiev nella Nato, a condizione che l’alleanza non collochi proprie truppe e/o armamenti offensivi in territorio ucraino; la Crimea verrebbe formalmente riconosciuta come parte della Federazione russa – come nei fatti è, dal 2014 – mentre nelle restanti regioni contese, Donbass e Novorossiya (Zaporozhie e Kherson), si svolgerebbe un referendum popolare per ratificarne l’adesione alla Russia.
I contenuti dell’articolo di Hersh non sono condivisi da tutti gli analisti. Asia Times, considerata espressione non ufficiale dell’establishment di Pechino, dubita fortemente dell’attendibilità delle fonti di Hersh, riprendendo una narrazione che, per taluni aspetti, è stata riproposta anche da alcune testate del cosiddetto mainstream. Per i critici, Hersh potrebbe essere stato coinvolto, magari in buona fede (ricordiamo la sua ricostruzione sulla distruzione del North Stream II)[3], in una strategia informativa orchestrata da alcuni ambienti di Washington, i quali, consapevoli dell’esito oramai scontato del conflitto, starebbero così cercando di salvare la faccia, gabellando come una trattativa di pace quella che si rivela ogni giorno di più una clamorosa sconfitta.
Uno degli aspetti meno convincenti della narrazione proposta da Hersh riguarda il ruolo svolto dai protagonisti dei presunti colloqui di pace. Pure ipotizzando che a Kiev si stia facendo strada un cambio della guardia, tanto che si parla di contrasti tra la dirigenza politica e quella militare impersonata proprio da Zaluzhny, senza escludere un siluramento di quest’ultimo[4] e ricordando le voci che lo indicherebbero come uno dei possibili sostituti di Zelensky[5], probabilmente l’aspetto meno convincente riguarda la controparte russa.
In un sistema fortemente verticistico come quello, l’ipotesi che un militare, pure di rango molto elevato, come Gerasimov, possa avviare iniziative di pace senza un preciso mandato del Cremlino ci sembra difficile. D’altra parte, lo stesso Zaluzhny non vorrebbe rischiare l’accusa di tradimento, specie dopo un “incidente” che ha coinvolto il suo braccio destro, maggiore Gennadiy Chastiakov, ucciso con un pacco bomba agli inizi di novembre[6]: forse un sinistro avvertimento e una risposta a una intervista di Zaluzhny, pubblicata da The Economist ai primi di novembre[7], nella quale aveva definito il conflitto in una fase di stallo. L’alto ufficiale, pertanto, non si azzarderebbe in una simile iniziativa, a meno di non aver avuto rassicurazioni di ferro da parte di Washington, con tutte le riserve circa promesse e garanzie di un “alleato”, l’esperienza insegna, specializzato nello scaricare amici o alleati quando cambia il vento[8].
A questo punto aggiungiamo un ulteriore tassello.
Anatol Lieven, giornalista e analista politico britannico, in uno dei suoi ultimi articoli[9] dal titolo “Il ruolo di Biden nella pace in Ucraina adesso è chiaro” riporta una serie di spunti molto interessanti. Lieven schierato dall’inizio del conflitto dalla parte di Kiev, sostenendone senza esitazioni la vittoria contro l’aggressione russa, oggi riconosce apertamente il fallimento della controffensiva e la condizione drammatica dell’Ucraina e delle sue forze, auspicando un rapido cessate il fuoco e l’avvio di negoziati, magari col contributo della Cina, che potrebbero aprire al paese – previa rinuncia agli oblast oramai destinati a entrare nella Federazione russa – le porte dell’Unione Europea. Ulteriori punti fermi per un via libera di Mosca sarebbero la neutralità ucraina – cosa che Putin chiedeva ben prima del febbraio 2022[10] – e la revoca delle sanzioni.
Con gli opportuni distinguo rispetto alla narrazione proposta da Hersh, è significativo che pure questa analisi – fatta da un autore considerato vicino a Kiev – riprenda la soluzione negoziale, preceduta da un cessate il fuoco, che solo pochi mesi fa sarebbe costata a chiunque l’avesse proposta, specie in Italia, l’accusa di filo putinismo[11].
E notizie circa presunti colloqui in corso sono state riprese a fine ottobre anche da The Times[12], nonostante la perdurante vigenza del decreto del presidente ucraino Volodimyr Zelensky, che vietava ogni trattativa con Mosca fin quando Putin fosse rimasto alla guida del Cremlino.
Chiaramente nessuno può avere certezze in merito a questi contatti e/o ai loro contenuti, ma la cosa non dovrebbe stupire più di tanto. Premesso che i colloqui tra le parti belligeranti non sono affatto inconsueti, ricordiamo che già a marzo del 2022 erano state aperte delle trattative di pace, che sarebbero naufragate – come ha riferito l’ex cancelliere tedesco Gerard Schroder[13] – per colpa degli Stati Uniti. Pertanto, escludere in toto l’esistenza di questi canali non sembra plausibile, casomai sarebbe estremamente improbabile che qualcuno agisse di propria iniziativa, senza il placet dei rispettivi “vertici”.
Un’intenzione di porre fine alle ostilità potrebbe essere letta anche nelle parole pronunciate dal segretario di Stato americano, Antony Blinken, il quale paventava il rischio di un coinvolgimento diretto dei militari americani nel conflitto[14]. Chiaramente potrebbe trattarsi semplicemente di una mossa tattica, di incerta efficacia, per ottenere più fondi da un Congresso sempre più esitante (al pari dell’opinione pubblica statunitense) verso il sostegno all’Ucraina, oppure – ipotesi che ci convincerebbe molto di più – una strategia per abituare l’opinione pubblica alla fine della contesa, senza per questo ammettere la sconfitta.
Il problema, però, è un altro. Ammesso e non concesso che ci fosse una volontà di trattare, non si potrebbe non considerare il punto di vista russo. E da quelle parti il grado di fiducia nei confronti del cosiddetto occidente è al minimo storico[15], specie dopo le dichiarazioni di un altro ex capo di governo tedesco, Angela Merkel, che ha rivelato come gli accordi di Minsk, che avrebbero con ogni probabilità evitato il conflitto, furono solo uno stratagemma (fallimentare) per prendere tempo e consentire all’Ucraina di prepararsi militarmente[16].
Se un’intesa fosse trovata, la Russia otterrebbe praticamente tutto quel che chiedeva prima del conflitto – smilitarizzazione Ucraina, tutela delle popolazioni russofone, garanzie di sicurezza – e molto di più (pensiamo ai quattro oblast già di fatto annessi), ma altrettanto forte sarebbe l’interesse americano, specie quello dell’attuale Amministrazione, preoccupata di presentarsi alle urne con una sconfitta politica e militare difficilmente giustificabile. E, forse, aggiungiamo noi, già paga di aver ottenuto una seria frattura tra Europa e Russia.
Nel mentre che si inseguono notizie circa presunte iniziative di pace, a passarsela sempre peggio è l’Ucraina: i parenti delle vittime della guerra chiedono una svolta[17], mentre, come scrive Mirko Mussetti[18] su Limes: “la situazione si fa di mese in mese più delicata per l’Ucraina. Un recente studio pubblicato dal New York Times ha mostrato graficamente l’assenza di mutamenti territoriali nel corso dell’ultimo anno, a fronte di perdite considerevoli da ambo le parti. A Kiev aumenta inoltre la percezione di una imminente e pericolosa penuria di uomini. Grazie alla propria superiorità demografica e industriale, Mosca sembra meglio attrezzata di Kiev a puntellare le carenze lungo la linea di contatto”. Se perfino il segretario Nato Jens Stoltenberg è stato costretto ad ammettere la criticità della situazione e come occorra prepararsi al peggio[19], è evidente che un finale non propriamente gradito alle cancellerie occidentali venga ormai messo in conto.
Una sintesi del conflitto viene offerta dal colonnello Douglas Macgregor, ex ufficiale delle forze armate americane e analista, il quale nel corso di un’intervista concessa a Tucker Carlson[20], parla di 400mila ucraini uccisi in guerra, un decimo dei quali ha perso la vita nella presunta controffensiva, definita fallimentare anche da un altro importante analista americano, Scott Ritter, ex ufficiale dell’intelligence americana e veterano delle forze dei marines, il quale già nel mese di agosto aveva decretato il rovescio di Kiev[21].
In pratica, tutti (o quasi) ammettono che la controffensiva tanto strombazzata si sia rivelata un disastro, con tanto di accuse – rilanciate da Macgregor – a politici e media di aver raccontato solo bugie nell’ultimo anno e mezzo. E se non bastassero i dati sui decessi, occorrerebbe parlare dei mutilati e invalidi permanenti – altre decine di migliaia di persone – e della devastazione economica e sociale di un paese, che ha perso negli ultimi diciotto mesi circa dieci milioni di abitanti e un’intera generazione; Macgregor esclude anche l’ipotesi di un ingresso dell’Ucraina, pure “mutilata”, nella Nato[22].
Significativi anche una serie di cambi di rotta registrati nelle testate statunitensi, col pronto allineamento degli opinionisti nostrani, le quali tentano ora di scaricare una serie di responsabilità sulle spalle dell’alleato ucraino, nel goffo tentativo di mascherare le proprie[23]; in tal senso i 200 milioni stanziati dall’Amministrazione USA per Kiev[24] appaiono bruscolini, i quali oltretutto, ad avviso di Oleksiy Goncharenko, membro del parlamento ucraino, potrebbero essere gli ultimi[25].
Per quanto concerne le ragioni tecniche e strategiche del fallimento della controffensiva[26], secondo alcune delle testate citate questa sarebbe partita troppo in ritardo[27], mentre per Kiev ci sarebbero stati colpevoli ritardi nelle forniture promesse, ammesso e non concesso che poi sarebbero servite veramente a qualcosa [28]; il tutto senza dimenticare i diversi episodi che sollevano più di una riserva sulla corretta gestione delle forniture, pure collegati a fenomeni corruttivi[29].
Fulvio Scaglione, analista anche per Limes, individua due errori grossolani commessi dall’Occidente: la sottovalutazione della potenza russa[30] e il non tener conto della situazione internazionale profondamente diversa da quella disegnata dai media e analisti di una certa scuola di pensiero, inconsapevoli (forse, diciamo noi) del fatto che “i putiniani veri erano quelli che incitavano alla guerra, senza rendersi conto del pasticcio in cui andavamo a infilarci”[31].
Il problema è proprio l’assenza di un’analisi storica. Scott Ritter[32], criticando la tesi secondo la quale il conflitto ucraino si innesterebbe in uno scenario post-guerra fredda, afferma invece che “quasi ogni discussione sulle radici storiche dell’odierno conflitto russo-ucraino inizia con la spartizione della Polonia nel 1939 e la successiva demarcazione avvenuta alla fine della Seconda Guerra Mondiale, consolidata dall’avvento della Guerra Fredda.” Parlando sempre delle origini del conflitto, l’Ambasciatrice Elena Basile[33] ricorda che:” Gli Interventi di Kissinger e Sergio Romano, soprattutto a partire dal 2014, in merito all’inevitabilità di una reazione di Mosca nel caso Kiev aderisse alla NATO sono estremamente chiare. John Mearsheimer, uno dei maggiori analisti statunitensi, professore all’Università di Chicago, ha riconosciuto che l’espansione dell’organizzazione atlantica a Est fino a lasciare la porta aperta a Ucraina e Georgia sarebbe stata percepita (ed è) dalla Russia come una minaccia inaccettabile.”
Di fronte a una simile disfatta – politica, economico-sociale e umanitaria allo stesso tempo [34][35][36] – verrebbe seriamente da chiedersi se tutto questo fosse necessario, specialmente sapendo che il conflitto si sarebbe potuto arrestare molto prima. E non mancano coloro che formularono per tempo avvertimenti e previsioni: un esempio per tutti arriva dal prof. Alessandro Orsini[37], il quale da subito paventò la disfatta di Kiev, secondo uno scenario che viene oggi ripreso da molti di coloro che, a suo tempo, criticarono aspramente le sue tesi[38]. E non è stato il solo: dieci mesi fa Mark Milley, capo di stato maggiore USA, pur ritenendo improbabile che la Russia conseguisse i suoi obiettivi, dichiarò che la guerra doveva chiudersi col negoziato: chissà quante vite si sarebbero potute risparmiare se qualcuno gli avesse dato ascolto[39].
Dedichiamo qualche cenno anche agli aspetti economici. Come dimenticare coloro che pronosticavano il crollo dell’economia russa sotto il peso delle sanzioni occidentali?
Premesso che tali misure non sono state applicate da gran parte del pianeta, The Economist[40] spiega come il Cremlino sia riuscito da un lato a riorganizzare il sistema economico, impiantando un modello parzialmente autarchico e di guerra, e intessendo una rete di importanti relazioni con il cosiddetto sud del mondo. Inoltre, le sanzioni hanno fatto guadagnare al potere politico ampi consensi nella popolazione, vuoi con un’efficace propaganda, che facendo leva su sentimenti diffusi tra i russi e sul tradizionale timore dell’accerchiamento. La diversificazione dei mercati e nuovi acquirenti per le materie prime hanno fatto il resto: si stima che gli extra profitti derivanti dall’export coprirebbero da soli il costo annuale del conflitto, circa 100 miliardi di dollari.
A onor del vero pure all’interno del popolo russo – nonostante la legge repressiva contro la diffusione di false informazioni in materia bellica[41] – cresce un sentimento favorevole alla pace, che però resta ancora minoritario[42]. In definitiva, prendere atto di una serie di elementi, senza per questo escludere gli effetti che le sanzioni stanno producendo sull’economia del paese[43], non significa affatto abbracciare posizioni filorusse, ma semplicemente prendere atto che non sempre le strategie e le scelte politiche del cosiddetto occidente siano in linea con gli effetti annunziati.
Chiudiamo con un dubbio.
Era davvero necessaria la devastazione politica, economica e sociale di una nazione – l’Ucraina – per arrivare al negoziato? A chi ha giovato tutto questo e chi ci ha rimesso?
Le risposte le avremmo, ma crediamo di aver fornito sufficienti elementi affinché chiunque possa giungere da solo alle conclusioni.
“Zelensky vola a Washington per salvare il salvabile – Lorenzo Maria Pacini Stefano Orsi” – Canale YouTube Il vaso di Pandora, link: www.youtube.com/watch?v=uXYd1bk-Yi4
https://www.blog-lavoroesalute.org/wp-content/uploads/2022/07/guerra-in-Ucraina-prezzi.jpg392696franco.cilentifranco.cilenti2023-12-23 06:21:272023-12-23 06:21:29L’Ucraina ha perso la guerra?
Mentre a Gaza la situazione diventa sempre più drammatica e continua a salire il bilancio delle vittime, in Sardegna si moltiplicano gli eventi di sensibilizzazione e informazione sulla questione palestinese. Ieri, a Sassari, l’associazione Sa Domo de Totus, presso il Vecchio Mulino, ha ospitato Maria Elena Delia, storica esponente del movimento internazionale di solidarietà con la Palestina.
Davanti ad una sala strapiena, l’attivista ha ripercorso le tappe salienti della sua esperienza internazionalista che, dal 2008, con la rottura del blocco navale e lo sbarco nel porto di Gaza City, l’ha portata al suo attuale impegno nella fondazione Vittorio Arrigoni, il giornalista pacifista e attivista per i diritti umani ucciso nel 2011, in circostanze mai chiarite, da una presunta cellula salafita.
Dialogando con la militante Frankie, con lo scrittore Filippo Kalomenidis e con l’attrice Roberta Campagna, Maria Elena Delia ha avuto modo di precisare i fondamentali del suo percorso insieme umano e politico, chiarendo anche il titolo dell’iniziativa “Disertare è lottare, un nuovo internazionalismo per la Palestina”: «uso la parola “diserzione” come metafora per una necessaria opera di coerenza nella vita di ciascuno di noi. Io avevo un lavoro assai remunerativo che però mi costringeva ad essere ingranaggio dello sfruttamento. Il privato deve diventare anche politico e questi sono tempi in cui è richiesta coerenza con i propri valori. L’indignazione fine a se stessa lascia il tempo che trova, oggi siamo chiamati a rendere conto di ciò che pensiamo con la pratica, con la costruzione di un’alternativa concreta».
La Palestina che emerge dalla conferenza organizzata da Sa Domo è sicuramente qualcosa di più di un mero problema geopolitico, ma viene presentata come cartina di tornasole di un nuovo impegno etico e politico, come stimolo per una società che va cambiata. Interrogata sulle priorità relativamente alla questione palestinese l’attivista della Fondazione non ha dubbi: «Sono stata tante volte in Palestina e nessuno mi ha mai chiesto soldi o farmaci, anche se ne avevano bisogno. Tutti mi hanno invece sempre chiesto di raccontare la verità, di descrivere realisticamente la loro condizione di oppressione perché sono consapevoli che fuori dai loro confini impera una narrazione distorta».
Delia è di casa in Sardegna e il bel mare c’entra poco: «ho partecipato alle mobilitazioni in Sardegna contro l’invadente presenza di basi militari. Il popolo sardo ha subito e subisce tutt’oggi dei torti che devono essere riscattati – prosegue l’esponente filopalestinese – ma non sempre, anche nel contesto delle mobilitazioni per la pace, si mettono in chiaro le complicità che intercorrono tra sistema militare italiano e apparato bellico israeliano che proprio in Sardegna ha campo libero per addestramenti e ricerche».
Una parte importante della serata è stata dedicata alla stringente attualità e alla gravità della situazione umanitaria Gaza. In particolare, sull’operazione militare condotta da Hamas, sicuramente Delia rappresenta una voce fuori dal coro: «il 7 ottobre ha certamente creato uno spartiacque perché ha portato la questione palestinese al centro del dibattito internazionale. Prima di questo evento, al di fuori di certi ristretti ambienti come, per esempio, quello di Sa Domo, non se ne parlava quasi più. Certo è stato un fatto traumatico e molto di quello che c’è dietro al 7 ottobre ancora non lo sappiamo – continua l’attivista – ma ha costretto il mondo a guardare in faccia la brutalità rappresentata dall’occupazione israeliana e ha gettato le basi per la possibilità di un nuovo internazionalismo che, partendo dall’appoggio alla Palestina, possa approdare ad una generale battaglia per l’autodeterminazione di tutti i popoli costretti entro perimetri sociali, politici, economici e culturali che non hanno deciso».
Sullo sfondo ovviamente l’esperienza della Freedom Flotilla di cui Delia fu rappresentante per l’Italia a livello internazionale e della personalità di Vittorio Arrigoni a cui Delia fu legata anche affettivamente. Dal dialogo ospitato dal Vecchio Mulino emerge la storia di questa esperienza che nacque dal Free Gaza Movement, animato appunto anche da Arrigoni. L’idea «era semplice ma apparentemente folle» – racconta Delia «visto che a Gaza non si può arrivare via terra, proviamo a entrare via mare». Fu così che nel 2008 due barche entrano nel porto di Gaza, forzando il blocco israeliano. In seguito, il progetto divenne più grande, assumendo il nome di Freedom Flotilla e nel 2010 si costituì una vera e propria flotta con una ammiraglia battente bandiera turca.
Ma proprio nel 2010 le forze militari israeliane intercettarono la flotta che aveva dichiarato di portare aiuti umanitari a Gaza: «Israele assaltò la nave ammiraglia MV Mavi Marmara e 10 attivisti furono uccisi dalle IDF – racconta Delia – questo episodio ha perfino scatenato una crisi diplomatica e ha portato alla convocazione di una sessione di emergenza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite».
Se si dovesse sintetizzare la narrazione dei protagonisti dell’evento organizzato da Sa Domo si potrebbe fare così: dalla Palestina al mondo, dal mondo alla Palestina. Traendo le conclusioni della serata Delia ha infatti proposto la prospettiva di un nuovo impegno politico la cui chiave di volta «è il concetto di un nuovo anticolonialismo energetico, territoriale, politico e in generale la consapevolezza che da un’idea si può ricostruire tutto, al di là di ogni retorica, mettendo in campo competenze, organizzazione e disciplina».
https://www.blog-lavoroesalute.org/wp-content/uploads/2023/12/immagine-118.png10661599franco.cilentifranco.cilenti2023-12-23 06:14:272023-12-23 06:14:51«La Palestina ci insegna il valore della libertà»
Pochi anni prima di morire, nel 2015, David Graeber visitò la Cisgiordania. Ebreo, cresciuto a New York in una famiglia “alimentata interamente a propaganda sionista”, l’antropologo anarchico rimase impressionato non solo dalle palesi violazioni dei diritti umani da parte dell’esercito israeliano, ma da come ogni singola azione quotidiana fosse terribilmente difficile per i palestinesi. “Le provocazioni sono quotidiane, brutte e umilianti; ma sono anche pensate per rimanere sotto il livello dell’aggressione flagrante e innegabile – scrive –. Come il bulletto della scuola che continuamente punzecchia, pungola e scalcia la sua vittima sperando di provocare uno scoppio di rabbia inutile, che finisca per potarla davanti al preside”. A Nablus manca l’acqua, si sta sempre in fila, otto ore di macchina per fare venti chilometri, i militari ti agitano i mitra sotto il naso gridando in una lingua che non capisci, si rompe qualcosa e non hai il permesso per ripararlo, o non trovi i pezzi, non si riesce a telefonare, non si può andare in spiaggia, se un ragazzo prova a nuotare in mare rischia che gli sparino, al checkpoint ti trattengono i pomodori che volevi vendere finché marciscono, arrestano tuo figlio, implori le guardie di liberarlo e quelle arrestano anche te per spingerlo a confessare di aver tirato una pietra; finché ti ritrovi in una cella di cemento, senza sigarette e col water intasato. “E ti accorgi che vivrai così per sempre, che non c’è nessun processo di pace, che questo terrore e questa assurdità durerà tutta la tua vita”.
Graeber in Palestina si immedesima nell’“altro lato” al punto da capire perché l’immagine di Israele, per quasi tutto il mondo, si sia trasformata “da un gruppo di idealisti sopravvissuti dall’Olocausto che volevano far fiorire il deserto, in una banda di bigotti rabbiosi che hanno trasformato in scienza le tecniche per brutalizzare dei dodicenni”. Sono molti i fattori che possono portare il figlio di una famiglia sionista a immedesimarsi con gli oppressi da Israele nei territori occupati, in linea con quel filone del pensiero ebraico che ancora si esprime in organizzazioni come Breaking the Silence o Jewish Voices for Peace; sicuramente hanno contribuito le sue frequentazioni politiche anarchiche, ma senza dubbio anche l’antropologia, scienza dell’empatia, della comprensione e della mimesi. Nel 1851 l’antropologo Lewis Henry Morgan, che cercava di fermare la pulizia etnica degli Irochesi da parte dei coloni europei, scrisse: “Non è un piccolo crimine contro l’umanità sequestrare i focolai e le proprietà di un’intera comunità, senza alcun compenso e contro la loro volontà, e trascinarli impoveriti e infuriati in una terra desolata selvaggia e inospitale”. Una terra selvaggia e inospitale come il deserto intorno a Rafah dove centinaia di migliaia di palestinesi sono stati deportati in attesa dell’espulsione da Gaza. Anche gli Irochesi avevano commesso “atrocità” contro gli Huron, e ovviamente contro i coloni bianchi; ma questo non impediva a Morgan di denunciare il “crimine contro l’umanità” della loro pulizia etnica a opera della comunità a cui apparteneva.
Oggi siamo pronti a riconoscere il genocidio dei nativi americani di un secolo fa, ma è così difficile riconoscere quello in corso. I due mesi di massacri a Gaza sono stati segnati da comunicati, raccolte firme, prese di posizione pubbliche in tutto il mondo, soprattutto da parte della comunità accademica e in particolare degli scienziati sociali. Ma davanti hanno trovato un muro: le istituzioni universitarie si sono chiuse a riccio, tradendo sfacciatamente i fondamenti della loro missione intellettuale e delle loro stesse discipline. Appena una settimana dopo l’attacco di Hamas, novecento studiosi di tutto il mondo hanno sottoscritto un testo in cui si allertava del “potenziale genocidio” in corso a Gaza; l’antropologo Didier Fassin pochi giorni dopo ha espresso su Le Monde la sua preoccupazione per i doppi standard delle autorità francesi e per i discorsi disumanizzanti verso i palestinesi, scatenando un “triste dibattito”. L’università di Gent in Belgio ha raccolto oltre duemila firme contro la campagna israeliana a Gaza già dal 10 ottobre, e nei giorni seguenti la Middle East Studies Association del Nordamerica ha pubblicato un comunicato contro l’uccisione di civili e per la libertà di espressione, come anche la American Studies Association e centinaia di altre organizzazioni di studio e di lavoro in tutto il mondo. Tra queste, alcune sono ebraiche, come Jewish Voices for Peace o il Laboratorio ebraico antirazzista in Italia.
A inizio novembre, quasi seicento ricercatori e professori delle università irlandesi hanno scritto una petizione che chiedeva a tutte le università d’Irlanda di “tagliare immediatamente qualunque partnership o affiliazione istituzionale con università israeliane […] finché non terminerà l’occupazione del territorio palestinese, e finché non saranno rispettati i diritti dei palestinesi all’uguaglianza, all’autodeterminazione e al ritorno dei rifugiati”. Poche settimane dopo, più di novecento accademici dell’università di Aalborg e di altre università nordiche hanno sottoscritto una lettera ai propri atenei per il cessate il fuoco e il boicottaggio alle università israeliane. Lo stesso ha fatto il College of Ethnic Studies della San Francisco State University. Nessuna delle università interpellate ha risposto a queste chiamate. A che può servire una petizione di duemila studenti e professori dell’Università di Oxford, o la condanna esplicita di Israele da parte di quaranta filosofi della stessa università, quando Oxford ha ricevuto diciassette milioni di sterline dalle aziende che producono le armi per l’esercito israeliano? Secondo un rapporto recente, la Lockheed Martin e altre aziende di armamenti hanno donato oltre cento milioni alle università del Regno Unito, in gran parte vincolati al segreto corporativo. Eppure non è impossibile ottenere dei risultati: l’Università di Johannesburg già nel 2011 aveva rinunciato alla collaborazione con l’Università Ben Gurion per il suo coinvolgimento nell’occupazione militare israeliana a Gaza, e di recente il Royal Institute of Technology di Melbourne ha dichiarato che avrebbe interrotto la partnership con la Elbit Systems, la principale azienda di produzione di armi di Israele.
L’antropologia è stata la prima disciplina a opporsi alle politiche di apartheid e sterminio del popolo palestinese, molto prima che fosse palese l’obiettivo dello stato di Israele di annettere Gaza ed espellerne milioni di persone. Nata come scienza coloniale da usare per migliorare ed estendere il dominio delle popolazioni conquistate, è stata praticata da sempre anche da persone che denunciavano la complicità dei loro eserciti e delle loro università nella conquista e nella colonizzazione. Negli ultimi decenni hanno iniziato a fare antropologia anche molti ricercatori e ricercatrici native dei popoli colonizzati; oggi molti giovani antropologi la considerano uno strumento importante per comprendere le diseguaglianze che affliggono le loro comunità. La tendenza alla critica sociale, alla presa di parola pubblica e all’impegno politico oggi è la linfa vitale della disciplina, come ha mostrato un seminario del 2008 sulla “engaged anthropology”, o il lavoro, per esempio, della Società italiana di antropologia applicata. È ovvio che la disciplina che ha elaborato l’uso corrente del termine “etnia” debba essere un bastione di pensiero critico contro ogni tentativo di pulizia etnica.
Uno dei referenti per tutta l’antropologia è la American Anthropological Association (AAA), che ha dodicimila membri. L’incontro annuale del 2023 si è svolto a Toronto, a offensiva israeliana già iniziata. Durante tutta la settimana del convegno, un gruppo di antropologi designati dall’AAA ha letto ad alta voce, uno a uno, tutti i nomi delle migliaia di persone uccise a Gaza fino a quel momento, per mostrare il rifiuto dell’intera associazione al massacro in corso. L’AAA è attivamente impegnata contro la militarizzazione della disciplina: nel 2007 espulse gli antropologi che partecipavano all’operazione militare Human Terrain in Afghanistan, offrendo all’esercito degli Stati Uniti la loro conoscenza delle lingue e delle società locali. La collaborazione in ambito militare è incompatibile con l’etica della disciplina, che richiede il massimo rispetto per le comunità con cui si lavora, l’imperativo etico di non danneggiarle, e quindi la distanza più totale verso chi cerca di distruggerle. Secondo lo statuto dell’AAA, il fine dell’antropologia è “la promozione e la protezione del diritto di tutte le persone e dei popoli alla piena realizzazione della loro umanità”. Dopo quasi dieci anni di dibattiti, a luglio del 2023 è stata votata al settantuno per cento una risoluzione per il boicottaggio accademico delle università israeliane.
A differenza dell’espulsione degli antropologi-militari, ma anche del boicottaggio del 1958 contro il Sudafrica, il boicottaggio accademico a Israelenon colpisce né espelle i singoli ricercatori, che possono continuare a partecipare alle attività internazionali. Si boicottano invece i loro atenei, che collaborano attivamente con l’apartheid e con le violazioni del diritto internazionale. Lungi dal porsi come “spazi di dialogo”, infatti, le università israeliane contribuiscono allo sviluppo delle tecnologie militari e delle dottrine che giustificano la colonizzazione della Palestina: di recente, per esempio, l’Università di Tel Aviv ha pubblicato un appello a “unirsi al suo sforzo bellico”. È chiaro che il boicottaggio influisce anche sulla libertà dei singoli accademici, che perderebbero progetti internazionali e si troverebbero isolati; ma questo già accade in misura enormemente maggiore agli accademici palestinesi, la cui libertà di ricerca è resa quasi impossibile dall’occupazione militare israeliana, come ricorda anche l’associazione Jewish Voices for Peace. Il boicottaggio è promosso anche da accademici israeliani contrari all’occupazione, che temono ritorsioni e che sono spesso costretti all’anonimato. Lo storico israeliano Ilan Pappé nel 2008 disse: “Sfruttiamo l’appoggio della società civile per fare di Israele uno stato ‘paria’ fintantoché questa politica persisterà. Solo a queste condizioni, noi che siamo qui, che apparteniamo e desideriamo appartenere a questo paese, potremo portare avanti un dialogo costruttivo e fertile, con l’intenzione di creare una struttura politica che ci assolva dal bisogno di vivere nel conflitto e ci permetta di costruire un futuro migliore”.
A ottobre anche la più grande associazione di antropologia d’Europa, la European Association of Social Anthropology (EASA), con circa milletrecento membri, ha pubblicato una dichiarazione su Gaza, chiedendo l’immediato cessate il fuoco e il rispetto dei trattati internazionali. Sono le stesse richieste già espresse dall’Onu, dall’Oms, dalla Croce Rossa, Amnesty, Oxfam,Human Rights Watch, Medici Senza Frontiere e innumerevoli altre organizzazioni umanitarie; ma gli antropologi e le antropologhe rispondono anche a una lettera dell’università palestinese Birzeit, che chiede agli accademici di tutto il mondo di “ricercare la verità, mantenendo una distanza critica dalla propaganda di stato e richiedendo le responsabilità dei perpetratori del genocidio e dei loro complici”. Il comunicato EASA condanna “l’inquadramento genocida dei palestinesi come colpevoli, come ‘animali umani’ e come meritori di una punizione collettiva”, nonché il supporto dei governi europei a “crimini di guerra contro la legge internazionale” e le misure repressive verso studenti palestinesi o solidali con la Palestina nelle università. “Questa messa a tacere totalitaria del dissenso verso la violenza e la guerra è inaccettabile – continua il comunicato – e in completo disaccordo con l’obiettivo educativo di promuovere il pensiero critico tra gli studenti e nel pubblico”. Il testo si conclude con una chiamata alla comunità accademica perché faccia il suo dovere di “dire la verità al potere”.
Nonostante il comunicato non nomini il boicottaggio, la presidentessa dell’EASA ha ricevuto diverse lettere di protesta: “Non vi è arrivata nessuna informazione sulle atrocità commesse il 7 ottobre in Israele? – scrive il presidente della Israeli Anthropological Association – Queste atrocità sono atti encomiabili? Possono essere descritti come atti di resistenza popolare? Israele ha il diritto di proteggere i suoi cittadini?”. La BaShaar Academic Community for Israeli Society elenca le atrocità di Hamas: “Genitori torturati davanti ai loro figli, bambini torturati e mutilati. Sono stati uccisi, decapitati, bruciati vivi, feti tagliati brutalmente dalle loro madri incinte, donne stuprate e poi uccise, famiglie bruciate e cadaveri mostrati trionfalmente a folle entusiaste”. Alcune di queste accuse sono poi state smentite; ma quello che colpisce è che gli attacchi del 7 ottobre siano considerati “innominabili atti di terrore che sono il male puro”. È il linguaggio del presidente Joe Biden, che parla di azioni “puramente diaboliche”: ma l’antropologia è nata per opporsi alla demonizzazione del nemico, e per affermare l’universalità dell’umano anche per chi è ai margini estremi dei valori dominanti. Anche un antropologo italiano ha pubblicato un lungo video in cui interpreta gli attacchi di Hamas come effetto della crudeltà radicale e dell’odio per la vita che sarebbe intrinseco alla religione musulmana. Questo uso strumentale della religione si chiama essenzialismo culturale ed è sostanzialmente l’opposto dell’antropologia – come il creazionismo per gli astronomi. “La discriminazione, la segregazione e l’emarginazione oggi sono essenzialmente ‘culturali’: dove un tempo si parlava di ‘razze inferiori’, oggi si parla di culture ‘incompatibili con i nostri valori’”, afferma la dichiarazione conclusiva di un congresso di antropologia a Barcellona nel 2002: “I media usano in continuazione l’idea di cultura per banalizzare e semplificare alcuni conflitti sociali, insinuando che le sue cause hanno a che vedere, in modo oscuro, con le adesioni culturali dei loro protagonisti”.
Duecento antropologi di tutta Europa hanno scritto una lettera di sostegno all’EASA, chiedendo di costituire un gruppo di lavoro che vigili sulle “crescenti restrizioni alla libertà accademica” per chi critica le politiche di Israele. Un importante antropologo iraniano, Shahram Khosravi, quando ha pubblicato questa lettera su un social media si è visto censurare il post, poi ripristinato dopo la segnalazione; lo stesso è successo ad altri firmatari del comunicato. Nel frattempo, l’associazione greca di antropologia, quella basca(Ankulegi) e quella catalana (l’Institut Català d’Antropologia) hanno pubblicato comunicati contro il genocidio in Palestina, e il dipartimento di antropologia dell’Università di Barcellona ha chiesto al rettore di interrompere tutte le collaborazioni con le università israeliane – naturalmente, senza successo. In Italia, quattromilacinquecento membri di comunità accademiche e centri di ricerca hanno scritto un appello per il cessate il fuoco e per il rispetto del diritto internazionale in Palestina, inviato al ministro degli esteri, della ricerca, e ai rettori; più di recente alcuni docenti dell’Università di Milano hanno scritto al rettore per chiedere all’università di unirsi alle richieste per un cessate il fuoco, senza successo. Le tre principali associazioni di antropologia italiane – la SIAC, l’ANPIA e il direttivo SIAA – hanno sottoscritto una lettera collettiva, insieme a quaranta antropologi: “Ci sentiamo obbligati – scrivono – a prendere posizione davanti a una crisi emersa e sviluppata in decenni di ingiustizie, occupazioni illegali, gravi discriminazioni, arresti arbitrari e segregazione spaziale. Come antropologi italiani, ci riconosciamo eredi di uno dei padri fondatori della disciplina, Ernesto De Martino, che, seguendo Antonio Gramsci, affermò che gli intellettuali dovevano prendere posizione”.
Oggi il boicottaggio accademico è uno degli strumenti non violenti più praticati, di fronte all’incredibile squilibrio di potere tra il popolo palestinese e l’occupazione israeliana, sorretta da uno degli eserciti più potenti del mondo, ma da una legittimità internazionale in caduta libera. Le strutture accademiche, tuttavia, sembrano assolutamente impermeabili all’urgenza globale di interrompere il genocidio e la pulizia etnica, legate come sono all’industria militare e alle lobby che promuovono la guerra. In un libro sul boicottaggio, il ricercatore australiano Nick Riemer sostiene che, nonostante ci siano state numerose vittorie, “nelle politiche e nella cultura dell’educazione universitaria, quasi tutto tenta di impedire che gli accademici boicottino Israele”, per esempio facendo perdere il lavoro o la cattedra a chi si sostiene i diritti dei palestinesi. Come mostra anche un rapporto dell’Università di Oxford, il governo israeliano è costretto a pubblicare manuali e organizzare laboratori online su come inquadrare il conflitto per guadagnare amici e fiducia verso le proprie politiche, e il ministero degli esteri usa “cyber troops” per influenzare i media, tentando di isolare chi si oppone alle sue campagne militari, chi organizza manifestazioni o eventi per la Palestina, chi promuove petizioni o azioni per fermare il genocidio.
Ma questi gesti straordinari continuano a moltiplicarsi, nonostante il tentativo di farli passare come antisemitismo o “difesa del terrorismo”. È indispensabile che chi lavora nella ricerca e nella produzione della conoscenza continui a farli crescere, perché cedere alla paura e all’isolamento significherebbe rinunciare all’essenza stessa del lavoro intellettuale. Alla fine dell’articolo sul suo viaggio in Cisgiordania, David Graeber riconosce l’importanza dell’ospitalità per i palestinesi, e immagina quanto può essere stato devastante per loro vedere i primi sionisti arrivati in Palestina appropriarsi delle loro terre, distruggere i loro villaggi e massacrare il loro popolo. “In una situazione del genere, cosa si può fare? – scrive –. Smettere di essere generosi? Ma allora si viene assolutamente, esistenzialmente sconfitti. La gente è stata sistematicamente deprivata dei mezzi fisici, economici e politici per essere generosa. Ed essere deprivati dei mezzi per fare quel tipo di gesti straordinari è una specie di morte in vita”. (stefano portelli)
Dopo una settimana di ritardi e trattative per evitare il veto degli USA, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU è riuscito ad approvare una risoluzione che chiede di “incrementare gli aiuti umanitari alla Striscia di Gaza” e misure urgenti “per creare le condizioni per una cessazione sostenibile delle ostilità”. La risoluzione è stata approvata con 13 voti a favore e due astensioni: quelle di Russia e Stati Uniti, seppur per ragioni diametralmente opposte. Gli USA non hanno votato a favore in quanto la risoluzione non condanna Hamas e si sono opposti fermamente, minacciando di esercitare il diritto di veto, alla bozza originaria della risoluzione che chiedeva l’immediato cessate il fuoco. Mentre Mosca ha deciso di astenersi proprio a causa del mancato accordo sull’immediata fine dei bombardamenti israeliani. Alla fine è stata quindi partorita una risoluzione modesta, che di fatto garantisce ad Israele la possibilità di continuare l’offensiva che ad oggi, secondo i dati del ministero della Salute palestinese, ha causato 20.057 vittime di cui oltre settemila bambini.
Il 12 dicembre l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite aveva chiesto a larghissima maggioranza (153 voti a favore su 193) la fine dei bombardamenti. Ma ad avere diritto di imporre risoluzioni vincolanti, secondo la legislazione internazionale, è solo il Consiglio di Sicurezza: organo ristretto dove siedono cinque membri permanenti con diritto di veto (USA, Russia, Cina, Francia e Regno Unito) e dieci membri a rotazione senza diritto di veto (attualmente Albania, Brasile, Gabon, Ghana, Emirati Arabi Uniti, Ecuador, Giappone, Malta, Mozambico e Svizzera). La risoluzione oggetto del voto di oggi, 22 dicembre, era stata proposta dagli Emirati Arabi, con il voto rinviato più volte per trattare (ed ammorbidire) il testo al fine di evitare un nuovo veto da parte degli Stati Uniti: alleati di ferro di Israele che già avevano bloccato una risoluzione che chiedeva la fine del conflitto lo scorso 10 dicembre. A forza di trattative al ribasso la montagna ha partorito il più classico dei topolini, con un testo finale che si limita a chiedere “misure urgenti per consentire immediatamente un accesso umanitario sicuro, senza ostacoli e ampliato e per creare le condizioni per una cessazione sostenibile delle ostilità”, mentre la bozza originaria chiedeva perentoriamente “una cessazione urgente e sostenibile delle ostilità”.
La Russia ha criticato fortemente l’accordo al ribasso. Secondo quanto riportato dall’agenzia Reuters, l’ambasciatore russo all’ONU, Vassily Nebenzia, ha dichiarato prima del voto di astensione: “Con l’approvazione di questo, il Consiglio darebbe essenzialmente alle forze armate israeliane completa libertà di movimento per un’ulteriore sgombero della Striscia di Gaza”. Opposta la reazione americana, con Washington che ha criticato l’assenza di una condanna specifica di Hamas, ma ha comunque deciso di astenersi, pur rinunciando al diritto di bloccare una risoluzione evidentemente ritenuta inoffensiva verso i disegni bellici dell’alleato israeliano
https://www.blog-lavoroesalute.org/wp-content/uploads/2022/04/ONU2.jpg183275franco.cilentifranco.cilenti2023-12-23 06:07:312023-12-23 06:07:33ONU: Consiglio di Sicurezza approva risoluzione per aiuti a Gaza (ma niente tregua)
Per Gaza ‘cessate il fuoco’ sempre lontano, e l’Onu, bloccata dalla minaccia di veto Usa, denuncia che la crisi alimentare sta peggiorando ma non riesce a fermare le armi di Israele e le prepotenze politico diplomatiche di Washington.All’Onu la richiesta dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ONU, di indagare su«possibili crimini di guerra israeliani».
Per Gaza ‘cessate il fuoco’ sempre lontano, e l’Onu, bloccata dalla minaccia di veto Usa, denuncia che la crisi alimentare sta peggiorando ma non riesce a fermare le armi di Israele e le prepotenze politico diplomatiche di Washington.
All’Onu la richiesta dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ONU, di indagare su «possibili crimini di guerra israeliani».
Esistono regole su chi ammazzare in guerra?
Quali sono le regole d’ingaggio dell’esercito israeliano? Domanda fondamentale per capire la deriva di episodi che coinvolgono i civili, in alcune circostanze uccisi a sangue freddo, come documentato da diversi filmati. I casi più noti hanno coinvolto, paradossalmente, gli stessi cittadini israeliani, rimasti vittime del grilletto facile dei soldati di Netanyahu. L’episodio più noto è quello dei tre ostaggi -beffa crudele-, uccisi dopo essere riusciti a sfuggire ai loro carcerieri di Hamas. Colpiti nonostante si muovessero con le mani alzate con una bandiera bianca. Poi l’avvocato Kestelmann, l’eroe solitario che, a Tel Aviv, bloccò da solo alcuni terroristi palestinesi che avevano sparato a dei civili. Il coraggioso israeliano, dopo aver salvato i suoi concittadini, ai soldati che arrivavano gridò ‘sono ebreo’, s’inginocchiò e buttò lontano la sua pistola, alzando le mani. Dopo averlo guardato, gli spararono a bruciapelo nello stomaco. Scioccando l’intera nazione.
Crimini di guerra
Esistono casi, a centinaia, da Gaza alla Cisgiordania, in cui l’esercito israeliano non sembra proprio lo specchio ‘difensivo’ di una moderna democrazia occidentale. Per alcuni versi, la sua brutalità, anche se non paragonabile a quella terroristica di Hamas, assume dei connotati intollerabili. Per come si comporta, Israele può definirsi una vera ‘democrazia compiuta’? Altro che dibattere di ‘antisemitismo’, che in questo caso sembra essere solo un ‘falso scopo’, uno schermo. Le domande più importanti le deve fare l’Occidente e le risposte sono obbligate a darle le istituzioni dello Stato ebraico. Che, evidentemente, sul terreno del rispetto dei diritti civili hanno ancora molta strada da fare.
Rapporto con l’informazione
Prendiamo il tribolato rapporto con la stampa. Proprio ieri il britannico Guardian, ha pubblicato un lungo report sui pericoli che corrono i giornalisti nel fare il loro lavoro, nelle aree dove operano le forze armate israeliane. In pratica, rischiano la vita tutti i giorni, perché i soldati di Netanyahu non amano né essere ripresi e manco essere ‘raccontati’. L’articolo parla di «militari israeliani accusati di avere preso di mira i giornalisti e le loro famiglie a Gaza». Nel senso che li hanno bombardati per ucciderli. Parole pesanti, desunte comunque dal rapporto del Comitato internazionale per la Protezione dei Giornalisti (CPJ), un organismo con sede a New York.
Cimitero stampa
Dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, mettendo assieme i dati di Gaza, Cisgiordania e Libano del sud, secondo il CPJ sono morti ben 68 tra cronisti e operatori tv. Questa rabbrividente contabilità e così suddivisa: 61 palestinesi, 3 libanesi e 4 israeliani uccisi da Hamas durante lo ‘Shabbat nero’.
Committee to Protect Journalists
«Il CPJ ha affermato che c’è una serie di giornalisti a Gaza – scrive il Guardian – che riferiscono di avere ricevuto minacce e, successivamente, di avere visto uccidere i loro familiari. Si dice che il padre novantenne del giornalista di Al-Jazeera, Anas al-Sharif, sia stato ammazzato dopo un attacco aereo israeliano sulla sua casa e dopo molteplici minacce rivolte a suo figlio». Al quotidiano britannico il giornalista racconta di «telefonate di minaccia da parte di ufficiali dell’esercito israeliano, che gli dicevano di cessare la copertura degli avvenimenti e di lasciare il nord di Gaza». Secondo al-Sharif, gli aerei di Netanyahu hanno bombardato dopo averlo localizzato grazie ai messaggi WhatsApp che gli erano stati mandati.
‘Omicidi mirati’ decisi da chi?
Ma uno dei punti più oscuri toccati dall’articolo del Guardian riguardante il diretto coinvolgimento del governo, in casi che appaiono come ‘omicidi mirati’. Chi prende la decisione di ‘uccidere chi’? In questo senso, fa riflettere un tweet riproposto dal Ministero degli Esteri di Tel Aviv, secondo il quale «AP, CNN, New York Times e Reuters avevano giornalisti coinvolti con i terroristi di Hamas nel massacro del 7 ottobre». Peggio, un altro tweet, dell’ex ambasciatore alle Nazioni Unite ora in Parlamento, Danny Damon, che ha platealmente chiesto «la loro eliminazione». Jodie Ginsberg, presidente del CPJ, ha invitato Israele a rivedere le sue ‘regole d’ingaggio militari’ sui giornalisti. Anche perché, già nel maggio scorso, CPJ «documentava uno schema di uccisioni di giornalisti da parte di Israele». Ben prima che scoppiasse la guerra di Gaza.
Far West dello spara spara
Adesso, sicuramente, la situazione si sarà aggravata, perché con l’ingresso operativo di 360 mila riservisti, il rispetto delle regole d’ingaggio diventa molto più complicato. E gli Stati Uniti che dicono? Tutto ok.
Il portavoce del Dipartimento di Stato, Matthew Miller, ha dichiarato «di non avere visto alcuna prova, che Israele stia intenzionalmente prendendo di mira i giornalisti». E, probabilmente, non ha nemmeno alcuna prova che, a Gaza, i bambini stanno morendo come le mosche. God bless America.
https://www.blog-lavoroesalute.org/wp-content/uploads/2023/12/funerale-giornalisti-cop.jpg616979franco.cilentifranco.cilenti2023-12-23 06:04:562023-12-23 06:04:57Gaza, licenza di uccidere e chi lo racconta muore
MEMO. Di Ramzy Baroud. Quando le milizie sioniste, utilizzando armi occidentali avanzate, conquistarono la Palestina storica nel 1947-48, espressero la loro vittoria attraverso la deliberata umiliazione dei palestinesi.
Molte di queste umiliazioni riguardarono in particolare le donne, sapendo che il disonore delle donne palestinesi rappresenta, secondo la cultura araba, un senso di vergogna per l’intera comunità.
Questa strategia è in uso ancora oggi.
Quando decine di donne palestinesi sono state liberate in seguito allo scambio di prigionieri tra la Resistenza palestinese e Israele, a partire dal 24 novembre, è risultato molto difficile riuscire a nascondere i fatti.
A differenza della comunità palestinese di 75 anni fa, l’attuale generazione non interiorizza più l’umiliazione intenzionale di Israele nei confronti di donne e uomini, come se fosse un atto di disonore collettivo.
Questo ha permesso a molte donne prigioniere di parlare apertamente appena sono state rilasciate, spesso in diretta TV, riguardo al tipo di umiliazione a cui sono state esposte durante la detenzione militare israeliana.
L’esercito israeliano, tuttavia, continua ad agire con la stessa vecchia mentalità, percependo l’umiliazione dei palestinesi come espressione di dominio, potere e supremazia.
Nel corso degli anni, Israele ha perfezionato la politica dell’umiliazione, un concetto che si basa sul potere psicologico di svergognare intere collettività per enfatizzare la relazione asimmetrica tra due gruppi di persone: in questo caso, l’occupante e l’occupato.
È proprio per questo che, nei primi giorni della guerra israeliana contro Gaza, Israele ha arrestato tutti i lavoratori palestinesi della Striscia che si trovavano ad operare in Israele come manovalanza a basso costo, al momento dell’operazione del 7 ottobre.
La disumanizzazione che hanno subito per mano dei soldati israeliani ha dimostrato una tendenza crescente tra gli israeliani a degradare i palestinesi senza alcuna ragione.
Uno degli episodi peggiori tra quelli documentati è avvenuto il 12 ottobre, quando un gruppo di soldati e coloni israeliani ha aggredito tre attivisti palestinesi in Cisgiordania. I giornali israeliani Haaretz e Times of Israel hanno descritto come i tre siano stati aggrediti, denudati, legati, fotografati e torturati, per essere infine usati come orinatoi dai torturatori occupanti.
Queste immagini erano ancora fresche nella mente dei palestinesi quando sono emerse nuove immagini provenienti dal nord di Gaza.
Foto e video pubblicati dai media israeliani mostravano uomini spogliati fino a restare soltanto con la biancheria intima, disposti in gran numero nelle strade di Gaza, mentre erano circondati da soldati israeliani ben armati e minacciosi.
Gli uomini erano stati ammanettati, legati tra loro, costretti a chinarsi e poi, alla fine, gettati in camion militari per essere portati in una località sconosciuta.
Alcuni di loro sono stati rilasciati per raccontare storie dell’orrore, spesso con epiloghi sanguinosi.
Ma perché Israele si comporta così?
Nel corso della sua storia – nascita violenta ed esistenza altrettanto violenta – Israele ha volutamente umiliato i palestinesi come espressione del suo potere militare sproporzionatamente maggiore su una popolazione disgraziata, imprigionata e per lo più rifugiata.
Questa tattica è stata utilizzata soprattutto in quei periodi storici in cui i palestinesi si sentivano particolarmente forti, come un modo per spezzare il loro spirito collettivo.
La Prima Intifada, dal 1987 al 1993, era pervasa di questo tipo di umiliazioni. Bambini e uomini di età compresa tra i 15 e i 55 anni venivano abitualmente trascinati nei cortili delle scuole, denudati, costretti a inginocchiarsi per ore interminabili, picchiati e insultati dai soldati israeliani con gli altoparlanti.
Gli insulti riguardavano tutto ciò che i palestinesi hanno di più caro: la loro religione, il loro Dio, le loro madri, i loro luoghi sacri e altro ancora.
Poi, i ragazzi e gli uomini erano costretti a compiere determinati atti, ad esempio sputarsi in faccia, gridare alcune bestemmie, schiaffeggiare se stessi o gli altri. Chi si rifiutava veniva immediatamente sopraffatto, picchiato e arrestato.
Questi metodi continuano ad essere applicati tuttora nelle carceri israeliane, soprattutto durante gli scioperi della fame, ma anche durante gli interrogatori. In questi ultimi casi, agli uomini vengono fatte minacce di stuprare le loro mogli o sorelle; le donne vengono minacciate di violenza sessuale.
Questi episodi vengono spesso accolti da parte dei palestinesi come una sfida collettiva, che alimenta direttamente la resistenza popolare palestinese.
L’immagine del combattente palestinese, vestito in tenuta militare, che brandisce un fucile automatico, mentre cammina orgoglioso per le strade di Nablus, Jenin o Gaza, di per sé non ha un vero e proprio scopo militare. È invece una risposta diretta all’impatto psicologico del tipo di umiliazione inflitta alla società palestinese dall’esercito di occupazione israeliano.
Ma qual è la funzione di una parata militare palestinese? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo esaminare le fasi dell’evento.
Quando Israele arresta gli attivisti palestinesi, cerca di creare lo scenario perfetto di una comunità umiliata e sconfitta: il terrore provato dalla popolazione quando iniziano le incursioni notturne, il pestaggio della famiglia del detenuto, le grida di insulti insieme ad altre scene dell’orrore già ben pianificate.
Alcune ore dopo, i giovani palestinesi spuntano lungo le strade dei loro quartieri, sfilando con orgoglio con le loro armi, tra le urla di gioia delle donne e gli sguardi eccitati dei bambini. È proprio questo il modo in cui i palestinesi reagiscono all’umiliazione.
La resistenza armata palestinese si è molto rafforzata negli ultimi anni, e Gaza è attualmente un caso emblematico.
Dato che l’esercito israeliano non riesce a rioccupare Gaza e a sottomettere la sua popolazione, utilizzare la politica dell’umiliazione su larga scala è semplicemente impossibile.
Al contrario, sono gli israeliani a sentirsi umiliati, e non solo per quello che è successo il 7 ottobre, ma per tutto quello che è accaduto da allora in poi.
Non potendo operare liberamente nel cuore di Gaza, a Khan Yunis, a Rafah o in qualsiasi altro centro abitato della Striscia, l’esercito israeliano è costretto a umiliare i palestinesi in ogni piccolo angolo che riesce a controllare, come ad esempio Beit Lahia.
Frustrati dall’incapacità dell’esercito di mantenere le promesse di sottomettere i gazawi, gli israeliani comuni si sono riversati sui social media per deridere i palestinesi a modo loro.
Le donne israeliane, spesso insieme ai loro figli, si sono vestite in modo da trasmettere una rappresentazione razzista delle donne arabe che piangono sui corpi dei loro figli morti.
Questo tipo di derisione sui social media sembra aver fatto leva sull’immaginazione della società israeliana, che insiste sul proprio senso di superiorità anche in un momento in cui sta invece pagando il prezzo della propria violenza e arroganza politica.
Questa volta, però, la politica israeliana dell’umiliazione si sta rivelando inefficace, perché il rapporto tra palestinesi e israeliani sta per essere radicalmente modificato.
Si è umiliati solo se si interiorizza l’umiliazione come un senso di vergogna e di impotenza. Ma i palestinesi, questa volta, non provano questi sentimenti. Al contrario, la loro continua sumud e la loro unità hanno generato un senso di orgoglio collettivo senza precedenti nella storia.
https://www.blog-lavoroesalute.org/wp-content/uploads/2023/12/immagine-117.png480720franco.cilentifranco.cilenti2023-12-23 05:59:122023-12-23 05:59:13Urinare sui prigionieri: perché l’umiliazione è funzionale alla guerra di Israele contro i palestinesi
Mesarvot, una parola ebraica che significa “noi rifiutiamo”, è anche il nome di una rete di attivisti israeliani contro l’occupazione della Palestina. Il loro scopo è quello di sostenere gli obiettori di coscienza, i refusenikim (sing. refusenik), di fronte all’obbligatorietà della leva militare, facendo del rifiuto non una semplice scelta individuale o privata, ma un vero e proprio atto politico per contribuire alla fine dell’occupazione e dell’oppressione del popolo palestinese
Fin dalla sua fondazione, lo Stato d’Israele ha fatto dell’esercito il suo principale strumento di sopravvivenza. Tutti i cittadini e tutte le cittadine hanno l’obbligo di prestare servizio militare. Servire nell’esercito è un passaggio indispensabile nella vita di ogni persona israeliana, ed è anche il percorso necessario per essere considerati meritevoli e conformi sia alla società sia al mondo del lavoro. Inoltre, in Israele quello del soldato è considerato uno status perenne. Oltre alla durata del servizio militare, che varia in funzione dell’età e del sesso, chi ha già adempiuto al proprio compito continua a essere un riservistae, quindi, richiamato a combattere [Questo meccanismo, detto “miluim”, prevede che una persona possa essere richiamata entro una certa età, e che periodicamente, compia delle esercitazioni.]
Dal 1967 milioni di palestinesi vivono sotto l’occupazione militare e molte sono le forme di sofferenza e ingiustizia causate dall’esercito israeliano: dalla crisi umanitaria nella Striscia di Gaza alle numerose restrizioni e confische di terre imposte ai palestinesi in Cisgiordania. L’esercito, in quanto esecutore materiale di queste politiche di occupazione, dipende dalla coscrizione obbligatoria di molte persone chiamate a servire nei suoi ranghi. Di fronte a questa rigida imposizione e alle sue tragiche conseguenze, molti uomini e donne scelgono di rifiutare il servizio militare per non essere complici dell’occupazione e non obbedire a ordini di natura repressiva e aggressiva contro civili: un rifiuto pagato con l’umiliazione e il carcere. Alcuni obiettori fanno riferimento a diversi progetti di sostegno e solidarietà, che negli anni sono stati oggetto di repressione e discriminazioni. Uno di questi gruppi di attiviste e attivisti si è riunito in Mesarvot, un collettivo che ha tra i suoi obiettivi principali quello di opporsi pubblicamente a questo sistema di reclutamento e all’uso criminale dell’apparato militare israeliano in Palestina.
Abbiamo avuto modo di parlare con degli attivisti del collettivo Mesarvot, essi stessi refusenikim, per conoscere meglio il loro progetto, ma soprattutto per comprendere quali siano le conseguenze politiche, economiche e sociali del rifiuto del servizio di leva in Israele. Yeheli, il coordinatore del progetto, ci parla in generale della figura del refusenik e delle attività del loro collettivo.
«I refusenikim esistono da sempre, da quando nel 1948 venne fondato l’esercito regolare dello Stato d’Israele. Questo fenomeno crebbe molto dopo la Nakba e ancora di più durante la guerra in Libano e durante la seconda Intifada. Il progetto Mesarvot, invece, nasce alla fine del 2015 ed è un gruppo molto eterogeneo: non proveniamo tutti dallo stesso background sociale o ideologico e rispondiamo a diversi indirizzi politici. Sicuramente ciò che ci unisce è un’ideale pacifista che si concretizza nella scelta di non prendere parte al processo d’oppressione dei palestinesi. Rivendichiamo il fatto che il nostro rifiuto sia una precisa scelta politica: siamo contro l’occupazione e se c’è qualcuno che sceglie di non servire nell’esercito, noi lo appoggiamo. Non chiamiamo refusenikim solo coloro che finiscono in prigione per aver respinto la chiamata alle armi, ma anche coloro che sono stati dispensati dal servizio dopo essere riusciti a dimostrare una qualche disabilità mentale che gli garantisse un’esenzione ufficiale. Infatti, è possibile essere esentati principalmente per ragioni di salute mentale, anche perché è il modo più facile da parte dell’apparato militare per screditare l’atto del rifiuto, negandone il valore politico. Il nostro compito immediato è quello di sostenere e supportare tutti gli obiettori condannati e imprigionati, dando loro assistenza legale anche in caso di ricorsi. L’obiettivo principale è quello di garantire una costante copertura mediatica sulle discriminazioni e le accuse che si perpetrano nei confronti dei refusenikim, oltre che sugli abusi dell’esercito, organizzando manifestazioni e campagne di solidarietà».
L’attivismo di Mesarvot tocca profondamente i nervi fragili della società, poiché il servizio militare è ancora visto come un aspetto fondante dell’identità israeliana. Di conseguenza, l’obiezione e il rifiuto di servire nell’esercito sono atti disapprovati e criminalizzati. Rifiutare il servizio militare è una scelta che condiziona tutta la vita sociale e lavorativa di una persona.
Tuttavia, se da un lato il rifiuto rappresenta una grande sfida che rischia di essere vissuta in solitaria da queste persone nel momento del processo e della prigionia, dall’altro lato sembra essere uno strumento potente che permette di sollevare a gran voce la resistenza all’occupazione. I tentativi del Governo di disinnescare questo fenomeno d’opposizione sono molteplici e variano a seconda della classe sociale o dell’etnia di appartenenza del refusenikim.
Continua Yeheli: «In generale, le principali conseguenze sono di tipo morale e sociale, che vanno anche a toccare il campo lavorativo. Se sei figlio di un cittadino di “serie B” la tua vita è segnata per sempre dal rifiuto a servire nell’esercito. Per chi proviene dalla classe media, rifiutare il servizio militare equivale a perdere diverse opportunità lavorative o d’istruzione, come borse di studio universitarie. Ad esempio, ci sono molte persone che, dopo aver preso servizio nel reparto di intelligence, riescono poi ad avere molte opportunità lavorative soprattutto nel mondo dell’High Tech. Per quanto riguarda invece le classi più deboli della società israeliana, come etiopi, russi e mizrahim (i discendenti da ebrei del Medio Oriente, del Nord Africa, dell’Asia centrale e di parti del Caucaso) rifiutarsi è molto più rischioso e compromettente. Le persone tra i nostri militanti che hanno la possibilità di rendere pubblica e politica la loro scelta sono quelli che provengono da ambienti finanziariamente più solidi. Quindi essere un refusenik dichiarato è a sua volta un privilegio legato alla classe sociale: esistono molte persone che non possono dire no perché appartengono a gruppi subalterni. Spesso con gli israeliani provenienti da fasce economiche più deboli, che non potrebbero permettersi per questioni economiche di servire nell’esercito, viene usato come strumento persuasivo “il capitale simbolico”, legando, quindi, il servizio militare a una questione d’onore e di difesa della patria».
Questa ricattabilità economica e sociale, stretta a doppio nodo alla dimensione militare dello Stato d’Israele, rimarca anche quel passaggio storico da una società in cui i principi ideologici del sionismo erano il principale propulsore di un’identità culturale, storica e religiosa, a una società ultraliberista, i cui effetti continuano a riflettersi nell’apparato militare. «Il sionismo è stato chiaramente scavalcato dal liberismo e se prima le figure di alto profilo militare provenivano dai kibutzim o i moshavim ed erano hilonim (laici), adesso questi ruoli vengono ricoperti da sionisti religiosi o coloni».
Vi è, inoltre, una differenza di trattamento a seconda dello status accordato al refusenikim: l’obiettore di coscienza e considerato diversamente rispetto a colui che ha ottenuto una esenzione. Mentre chi non viene riconosciuto né in quanto obiettore, né in quanto destinatario di una esenzione (per lo più medica) è il refusenik per antonomasia, “il traditore”, disprezzabile dalla società e condannabile al carcere. Di fatto, il rifiuto di arruolarsi senza l’approvazione dell’esercito è un reato punibile.
«Se si riesce a ottenere un’esenzione medica, che, in mancanza di patologie accertate può essere solo di carattere mentale, spesso grazie all’aiuto di un medico bendisposto a certificare tale disabilità, allora è possibile evitare il servizio militare senza incorrere in gravose conseguenze. Se invece non ci si riesce ci si può dichiarare obiettori di coscienza. A quel punto si verrà giudicati da una commissione esaminatrice del Centro di reclutamento, chiamata a valutare la possibilità di attribuire lo status di obiettore. Il problema è che la scelta della commissione è fortemente arbitraria e discrezionale, poiché non esistono delle linee guida ufficiali per determinare chi possa essere considerato obiettore di coscienza e in base a quale standard. Il risultato è che difficilmente si verrà riconosciuti in quanto obiettori di coscienza. Nel caso in cui non si ottenga questo riconoscimento, si viene convocati nuovamente da una commissione di fronte alla quale si potrà dichiarare ulteriormente il proprio rifiuto di servire l’esercito. Da quel momento cominceranno una serie di periodi di carcerazione: si comincia con un periodo che va dai 10 ai 21 giorni. Trascorso questo primo periodo, si viene convocati un’altra volta al Centro di reclutamento dove, se ci si rifiuta nuovamente di arruolarsi, si viene incarcerati per diversi mesi, finché l’esercito non deciderà di congedarci. Il tempo minimo prima della fine della pena è di 80 giorni.”
Sembrerebbe una strategia efficace, atta a colpire dritta al cuore il sistema di militarizzazione generalizzata e a scalfire e incrinare un meccanismo apparentemente solido che muove gli ingranaggi dell’occupazione armata. Tuttavia, come ribadisce Yeheli, la ribellione dei refusenikim è attaccabile su vari fronti. «È difficile determinare il numero preciso dei refusenikim e restituire quindi la reale portata di questo movimento. Basti pensare che se da un lato vi è una parte di attivisti che proviene da situazioni di minor ricattabilità e si sente libera di rendere pubblica la sua voce, esiste un sommerso di persone che teme di esporsi pubblicamente».
Poi è arrivato il 7 ottobre e tutto si è fermato.
«Ovviamente da quel giorno viviamo nella paura. Il livello di odio e di violenza è salito tantissimo negli ultimi mesi, anche nei nostri confronti. Riceviamo molti attacchi pubblici e minacce. Anche protestare e diventato ancora più difficile e il livello di repressione è sensibilmente salito. L’essere un oppositore o un obiettore è ancor di più uno stigma che attira invettive e scatena aggressioni di varia natura. È molto difficile prendere voce pubblicamente, perché è vero che la maggioranza è contro il Governo perché si ritiene tradita da esso, ma è altrettanto vero che la società israeliana si è spostata ancora più a destra. L’opinione pubblica è contro Netanyahu, ma essere contro il Governo non significa esser contro la guerra. Tante persone che la pensavano come me sono state profondamente spezzate dagli episodi del 7 ottobre e hanno cambiato idea. Il gruppo è diventato più piccolo. Prima del 7 ottobre avevamo condotto una campagna contro l’occupazione dei territori palestinesi, accompagnata da un appello, a cui era seguita l’occupazione di una scuola. Riuscimmo ad ottenere le firme di 280 persone, che per noi è un numero molto alto perché significa mettere il proprio nome e cognome in mano alle Forze di Difesa. Stavamo per far partire altre tre campagne politiche che siamo stati costretti a rimandare. Anche io in questo momento ho difficoltà a trovare una soluzione. So soltanto che la soluzione non è quella militare. Penso che, prima di tutto, dobbiamo costruire una contronarrazione che vada oltre la criminalizzazione e la disumanizzazione reciproca».
Molte di queste campagne politiche portate avanti dagli attivisti e dalle attiviste di Mesarvot vedono la collaborazione di molti palestinesi e di drusi (una delle poche etnie non ebraiche chiamate a servire nell’esercito). «Molti nostri collaboratori drusi sono anche attivisti a titolo personale in Cisgiordania, per esempio a Masafer Yatta, (nel Governatorato di Hebron, è una delle zone più calde in cui hanno luogo violenti attacchi militari contro civili palestinesi). Per esempio, uno degli ultimi episodi verificatosi ad un nostro attivista, un ragazzo di 17 anni, è avvenuto proprio in un villaggio nella Valle del Giordano. Il ragazzo, riconosciuto come uno dei nostri, è stato preso da alcuni coloni, tratto in un luogo isolato e picchiato senza pietà. Pensavo fosse morto e non sapevo cosa avrei detto al padre. Fortunatamente è ancora vivo».
Essere un israeliano di sinistra, un attivista, un refusenik equivale a essere emarginato, schernito, isolato e aggredito.
«Anche se è molto difficile da amare, questa è anche casa mia. Sono nato qui e non saprei dove altro andare. E purtroppo tutte queste contraddizioni le vivo quotidianamente. Sono stato arrestato diverse volte, ho perso molti amici in questa guerra lunghissima, vivo nella costante consapevolezza di essere sotto controllo. Ho perso degli amici anche il 7 ottobre. È come se la realtà stesse collassando in maniera inesorabile: non possiamo manifestare, non possiamo opporci e allo stesso tempo le informazioni più importanti passano attraverso il megafono del Governo. Viene così a mancare una voce che non sia fatta solo di demonizzazione e terrore verso i palestinesi e che non abbia come sola e unica soluzione una guerra all’ultimo sangue. Dobbiamo fare i conti con la realtà: ci sono due popoli e nessuno dei due se ne andrà. Cacciare uno dei due popoli con la forza non è solo immorale ma anche impossibile. La questione è: quanto sangue dovrà ancora esser versato?».
Immagine di copertina di Edo Ramon, Refusing to Occupy, 2016, da Flickr
https://www.blog-lavoroesalute.org/wp-content/uploads/2023/12/immagine-116.png5571114franco.cilentifranco.cilenti2023-12-23 05:56:532023-12-23 05:56:55Mesarvot: noi rifiutiamo! Intervista agli attivisti israeliani contro l’occupazione
Il presepe in una chiesa di Betlemme. Foto tratta daGaza FREEstyle
Lo storico Rashid Khalidi, docente di studi arabi moderni a New York e titolare della cattedra Edward Said alla Columbia University, il 20 dicembre ha discusso a Democracy Now! del più volte rinviato voto del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sulla sospensione dei combattimenti a Gaza e del futuro della Palestina. Secondo quanto riferito, l’amministrazione Biden ha ritardato il voto delle Nazioni Unite e ha spinto altri paesi ad annacquare il linguaggio. L’incessante attacco di Israele a Gaza ha ucciso quasi 20.000 palestinesi e costretto alla fuga oltre il 90% dei 2,3 milioni di persone della Striscia di Gaza. “La situazione a Gaza è indicibile”, dice Khalidi, professore di studi arabi moderni intitolati a Edward Said nella Columbia University. “Stiamo parlando di eventi traumatici che segneranno le generazioni a venire”, ha aggiunto l’autorevole storico statunitense-palestinese che ha poi spiegato come la guerra di Gaza rischi di innescare un conflitto regionale e quanta rabbia stiano suscitando per “intere generazioni” nel mondo arabo e oltre quel mondo il comportamento di Israele e quello del governo degli Stati Uniti. Qui sotto potete vedere il video della trasmissione e leggerne la traduzione di una trascrizione urgente che potrebbe non corrispondere integralmente alla sua forma finale
AMY GOODMAN:Il capo dell’ala politica di Hamas, Ismail Haniyeh, è arrivato al Cairo, in Egitto, per colloqui mentre crescono le speranze che si possa raggiungere un nuovo accordo per un cessate il fuoco e il rilascio di altri ostaggi. Il bombardamento israeliano di Gaza è iniziato 75 giorni fa, il 7 ottobre, poche ore dopo l’attacco di Hamas contro Israele. Le autorità sanitarie di Gaza affermano che finora sono stati uccisi almeno 19.600 palestinesi. Si teme però che altre migliaia di persone siano ancora intrappolate sotto le macerie.
Poco prima di questa trasmissione, Israele ha colpito edifici residenziali nella città meridionale di Rafah, vicino all’ospedale speciale del Kuwait.Un giornalista di Al Jazeera, Hani Mahmoud, era in onda quando è avvenuto l’attacco.
HANI MAHMOUD: Mentre stiamo entrando nel… ooh! Dio mio! L’hai sentito?
DEMOCRACY NOW!: Sì, sì, l’abbiamo sentito!
HANI MAHMOUD: Oh mio Dio! Oh, quello è l’ospedale! Quello è l’ospedale! Quello è l’ospedale! Dio mio! Ragazzi, lo avete sentito?
DEMOCRACY NOW!: Sì, lo sentiamo. Lo stiamo sentendo, Hani. Stai… stai bene?
HANI MAHMOUD: Lo hai sentito? Tutti i detriti.
DEMOCRACY NOW!: Sei… sei in un posto sicuro per continuare a parlare con noi?
HANI MAHMOUD: Perché? Perché? Perché?
AMY GOODMAN : “Perché? Perché?” si chiede Hani Mahmoud, giornalista di Al Jazeera. Al Jazeera riferisce che l’attacco israeliano ha distrutto una grande moschea a Rafah, oltre a due case residenziali. Droni israeliani erano stati visti nel cielo poco prima degli attacchi. In precedenza, un altro attacco israeliano al campo profughi di Jabaliya aveva ucciso almeno 46 palestinesi e ne aveva feriti decine.
Si prevede che oggi il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite voti una nuova risoluzione su Gaza. Martedì il voto è stato rinviato dopo che gli Stati Uniti si sono detti contrari alla bozza della risoluzione. Già l’8 dicembre gli Stati Uniti hanno posto il veto alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che chiedeva il cessate il fuoco.
Tutto ciò avviene mentre la tensione cresce nel Mar Rosso. Il segretario alla Difesa Usa Lloyd Austin ha annunciato che gli Stati Uniti guideranno una nuova task force militare per proteggere le navi nel Mar Rosso a seguito di una serie di attacchi da parte delle forze Houthi dallo Yemen.
Ora si unisce a noi Rashid Khalidi, il professore di studi arabi moderni intitolati a Edward Said alla Columbia University, qui a New York. È autore di numerosi libri, incluso l’ultimo, La guerra dei cent’anni sulla Palestina. Il suo recente articolo d’opinione per il Los Angeles Times è intitolato “Come gli Stati Uniti hanno alimentato la decennale guerra di Israele contro i palestinesi”.
Professor Khalidi, mi chiedevo se potesse iniziare parlando semplicemente della situazione generale a Gaza. La sua famiglia viene dalla Cisgiordania. Anche lei però ha dei familiari a Gaza. E voglio sottolineare che ho particolarmente parlato del nome del giornalista di Al Jazeera, Hani Mahmoud, perché è così orribile nominare i giornalisti solo dopo che sono stati uccisi, e così tanti di loro sono morti. Il coraggio di Hani Mahmoud è sorprendente mentre lo osserviamo attraversare la Striscia di Gaza e oggi nel bel mezzo di questo attacco. Partiamo da lì, professor Khalidi.
RASHID KHALIDI: Beh, è molto fortunato ad essere ancora vivo. Più di 90 giornalisti sono stati uccisi a Gaza: siamo ormai all’undicesima settimana di questa guerra. Sono stati uccisi anche 283 operatori sanitari e 135 lavoratori delle Nazioni Unite. È il numero di vittime più alto che le Nazioni Unite abbiano mai subito in tutta la loro storia. Ma questa è solo la punta dell’iceberg. Prima ha citato circa 20.000 persone uccise. Probabilmente il numero è molto più alto, perché sono tante migliaia quelle sepolte sotto le macerie o disperse. E probabilmente non conosceremo il bilancio finale delle vittime per molti, molti mesi ancora, quando le operazioni per rimuovere le rovine degli edifici che sono stati distrutti saranno completate.
La situazione a Gaza è indicibile. Quello che sentiamo dalla famiglia di mia nipote non posso descriverlo. È incredibile. Le persone sono alla ricerca dei generi di prima necessità e a volte non li trovano: serve legna da ardere per scaldare l’acqua e per cucinare, non c’è acqua sufficiente perché tutti possano bere, per non parlare di lavarsi. Potrei continuare. È indicibile. È intollerabile.
La cosa più tragica è che questa situazione è chiaramente voluta. Né il nostro governo (Usa) né quello israeliano riconoscono il fatto che ciò che sta accadendo lì sta causando l’impoverimento di oltre 2 milioni di persone. Questo potrebbe essere facilmente fermato, e dovrebbe essere fermato. Non riesco a capire come questo paese, gli Stati Uniti, possa permettere che tutto questo continui. L’idea che attaccare Hamas significhi distruggere più della metà delle abitazioni di Gaza, ferire 50.000 persone e ucciderne 20.000. Per me è incomprensibile che il governo Usa possa essere così insensibile e determinato a non prendere le distanze da Israele, per quanto riguarda la natura fondamentale di questa guerra, che è in realtà diretta contro il popolo di Gaza. Oltre 2 milioni di persone sono state costrette a lasciare le proprie case. Questo è il più grande sfollamento nella storia palestinese.L’uccisione di 20.000 persone, di cui quasi la metà erano bambini, non ha precedenti nella storia palestinese. Stiamo quindi parlando di eventi traumatici che segneranno le generazioni a venire, ma questo non sembra essere motivo di preoccupazione per il nostro governo, per non parlare poi del governo di Israele.
JUAN GONZÁLEZ: Professor Khalidi, abbiamo assistito a manifestazioni di massa senza precedenti a sostegno dei palestinesi in tutto il mondo. La maggioranza dei governi dell’Assemblea Generale dell’Onu, la stragrande maggioranza, ha chiesto un cessate il fuoco, ma il Consiglio di Sicurezza continua a rappresentare un ostacolo, soprattutto per il comportamento degli Stati Uniti. Può parlarci di ciò che questo sta facendo alla legittimità delle stesse Nazioni Unite?
RASHID KHALIDI : Beh, penso che stia danneggiando le Nazioni Unite, ma anche la legittimità della posizione degli Stati Uniti. Non è il Consiglio di Sicurezza a bloccare l’azione. È il governo degli Stati Uniti a farlo. L’ultima volta che una risoluzione sul cessate il fuoco è stata presentata al Consiglio di Sicurezza c’è stata un’astensione e 13 voti a favore. E hanno trascorso tre giorni cercando di ottenere una risoluzione che non implicasse un cessate il fuoco, ma una pausa umanitaria. Gli Stati Uniti l’hanno ostacolata per tre giorni. Penso dunque che questo danneggerà non solo le Nazioni Unite, perché sono palesemente impotenti di fronte a questa catastrofe, ma stia danneggiando gli Stati Uniti.
C’è un sostegno enorme in tutto il mondo per porre fine a questa situazione. C’è simpatia in tutto il mondo per i palestinesi. Penso che i sondaggi mostrino un sostegno molto forte anche negli Stati Uniti per porre fine a questa guerra, per lo meno per fermare quello che sta succedendo in modo che gli aiuti umanitari possano arrivare. L’amministrazione Biden è chiaramente impermeabile a tutto questo. E poi penso che i media mainstream, francamente, siano complici. Nessuno sa che quattro grandi sindacati hanno chiesto un cessate il fuoco: la United Auto Workers, gli infermieri, gli elettricisti e i postini. Il New York Times, ad esempio, non si è nemmeno degnato di menzionarlo. Stiamo parlando di una grande rabbia e opposizione alla politica verso l’amministrazione Biden da parte di ampie fasce del popolo statunitense. Loro continuano a lavorare come se tutto ciò non avesse importanza. Trovo molto difficile spiegarlo, francamente.
JUAN GONZÁLEZ: Ci sono stati numerosi resoconti dei media di attacchi contro le truppe statunitensi in Siria e Iraq. Minacciano di espandere il conflitto oltre i soli Territori occupati e Gaza. Ma cosa diavolo stanno ancora facendo le truppe statunitensi in quei due paesi? Il Congresso ha autorizzato la loro presenza lì? I governi di quei Paesi li vogliono davvero lì?
RASHID KHALIDI: Il governo siriano, la dittatura di Bashar al-Assad, certamente non li vuole. Il pretesto per essere in Siria [non udibile] è quello di essere lì contro lo Stato islamico. Non credo, però, che ci sia alcuna autorizzazione per la loro presenza lì. Si suppone che le truppe presenti in Iraq siano impegnate nell’addestramento dell’esercito iracheno, ma in Iraq c’è molta opposizione, anche se il governo iracheno ha accettato la loro presenza lì. C’è molta opposizione nel parlamento iracheno alla presenza delle forze Usa in Iraq.
Credo che quello a cui stiamo assistendo siano attacchi, sia da parte dello Yemen contro il trasporto o il lancio di missili contro Israele, sia quelli contro le truppe Usa in Iraq o in Siria, che sono una risposta a ciò che Israele sta facendo a Gaza. Lo stesso vale, ovviamente, per gli scontri in corso tra Hezbollah e l’esercito israeliano lungo le frontiere settentrionali di Israele. Il timore è che la guerra possa espandersi, che possa diventare una guerra regionale. Siamo nell’undicesima settimana, dal 7 ottobre, e finora, quella paura è stata – o meglio, quella possibilità – è stata contenuta. Ma è sempre lì. Porterebbe, a mio avviso, a conseguenze forse anche più terribili, se la guerra si espandesse oltre Gaza, con un ulteriore aumento dei combattimenti al confine libanese, in Siria, Iraq o fuori dallo Yemen.
AMY GOODMAN : Può parlarci anche di quello che sta succedendo nel Mar Rosso? Ci sono una dozzina di aziende che dicono che non spediranno le loro merci attraverso il Mar Rosso. C’è il segretario alla Difesa americano Lloyd Austin che annuncia una coalizione di 10 nazioni per proteggere gli interessi commerciali, tra cui Bahrein, Canada, Francia, Italia, Regno Unito, Seychelles. Gli Houthi affermano che i loro attacchi con droni e missili continueranno finché Israele bombarderà Gaza.
RASHID KHALIDI : C’è un’enorme rabbia nel mondo arabo per ciò che sta accadendo a Gaza. Gli statunitensi non vedono, o non vedono abbastanza. Le scene di ciò che sta realmente accadendo a Gaza, invece, vengono viste in tutto il mondo arabo e in gran parte del resto del mondo. La rabbia che provano le persone e la loro frustrazione per la riluttanza dei loro governi a fare di più per cercare di fermare tutto questo è palpabile. In Arabia Saudita la gente non può manifestare. In alcuni altri Paesi sì, possono manifestare. Ma se parli con chiunque, in uno qualsiasi di questi paesi, ti dice che l’opinione pubblica è in fermento. Vedono la passività dei governi arabi di fronte a tutto questo, la loro riluttanza ad agire effettivamente, e la mettono in contrasto con Hezbollah, con le milizie in Iraq e Siria e gli Houthi nello Yemen che si impegnano militarmente.
Penso sia davvero giunto il momento che i Paesi che vogliono imporre il cessate il fuoco inizino a unirsi, siano essi arabi, europei o Paesi del Sud del mondo.Dovrebbero unirsi e dire che ci saranno sanzioni X, Y, Z se tutto questo non si ferma. Per lo meno, se non saranno ammessi a Gaza sufficienti aiuti umanitari, ospedali da campo, sufficiente acqua e cibo e così via. Dovrebbero dire a Israele, che ne è responsabile e agire di conseguenza. Penso che ci siano Paesi che potrebbero farlo, compresi i Paesi arabi. La Giordania ha richiamato il suo ambasciatore, ma questo non avrà molta influenza su Israele. Fermare il trasporto di cibo dal Golfo a Israele – a quanto pare gli Emirati stanno spedendo cibo in Israele – avrebbe invece effettivamente un impatto. Fare cose che minacciano le relazioni diplomatiche avrebbe un impatto. Ora, questo di per sé non è sufficiente, penso si debba fare molto di più.
Le Nazioni Unite, come possiamo vedere, sono paralizzate dal veto dell’ONU – dal veto degli Stati Uniti, dovrei dire. L’Assemblea Generale ha fatto quello che poteva, 153 a 10. Non si può avere un voto più sbilanciato di così. Penso che si debba fare di più per far capire ai cittadini di Washington, in particolare, che ciò è inaccettabile e di fatto insostenibile, che la possibilità che tutto ciò sfoci in una conflagrazione regionale, che è sempre lì, è solo una parte del danno che si sta verificando. Intere generazioni vengono allevate arrabbiate contro gli Stati Uniti, infuriate contro Israele, in tutta la regione. E Israele e gli Stati Uniti dovranno affrontare questo problema per decenni a venire. Siamo visti come complici. Questi sono proiettili di artiglieria Usa, bombe Usa, razzi Usa, aerei ed elicotteri Usa. Ventimila persone sono state uccise principalmente con armi degli Usa, ed erano per lo più civili, a Gaza. La gente non lo dimenticherà. Questo non provoca alcun impatto a Washington. Penso davvero che vivano in una sorta di bolla, un vuoto spazio privo di fatti. Cosa stanno pensando e perché lo pensano, in realtà, va oltre la mia comprensione, come ho già detto.
AMY GOODMAN: Il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, è in Egitto per discutere una possibile nuova tregua. Il Wall Street Journal riferisce che Hamas sta anche discutendo con i rivali palestinesi, con Fatah, una possibile tregua e lo scenario per governare successivamente la Cisgiordania e Gaza. Naturalmente Netanyahu è completamente contrario a tutto ciò. Può parlarci anche della discussione sui negoziati per gli ostaggi? Abbiamo visto notizie sul possibile rilascio di Marwan Barghouti, può spiegarcene il significato? E cosa pensa possa avvenire dopo?
RASHID KHALIDI: Beh, è un gran numero di domande. Penso che la prima cosa sia la questione degli ostaggi. È stato un grosso problema, perché quello che Hamas ha chiesto finora è essenzialmente uno scambio tutti per tutti, tutti i prigionieri per tutti gli ostaggi. Alcuni degli ostaggi sono militari, molti altri sono civili. Da quello che possiamo capire dalla stampa, quel che dice Hamas è che se vuoi tutti gli ostaggi, dovrai rilasciare tutti i prigionieri.Credo sia improbabile che questo possa avvenire. Uno dei prigionieri che potrebbe essere rilasciato è proprio Marwan Barghouti, un alto leader di Fatah condannato per molteplici omicidi da un tribunale militare israeliano che lui non ha mai riconosciuto. Marwan Barghouti potrebbe benissimo essere un candidato alla presidenza e potrebbe vincere, avere la maggioranza dei voti palestinesi.
Per l’altra questione: se ci sono altre possibilità per quanto riguarda gli ostaggi, ad esempio il rilascio di tutti quelli civili in cambio di un certo numero di prigionieri, non saprei dire. Alcuni resoconti della stampa israeliana dicono che il governo parla di progressi, quando in realtà essi non ci sono stati. Vogliono diminuire la pressione delle famiglie degli ostaggi, che chiedono il rilascio dei prigionieri palestinesi necessari per riportare a casa i loro cari.
AMY GOODMAN: Soprattutto dopo che Israele ha ucciso per errore tre ostaggi israeliani…
RASHID KHALIDI: Sì, li ha uccisi accidentalmente. Molti altri sarebbero rimasti uccisi nei bombardamenti. E poi ci sono gli ostaggi rilasciati che hanno detto: “Eravamo terrorizzati per le nostre vite a causa dei bombardamenti in corso”. Ho letto sulla stampa israeliana resoconti di ostaggi rilasciati, che hanno parlato del tipo di pericolo in cui si trovavano, non tanto a causa dei loro rapitori quanto per la possibilità che sarebbero stati uccisi dai bombardamenti israeliani.
L’altro aspetto di questa questione è quello politico. Hamas ha una posizione nella politica palestinese che non sarà sradicata, qualunque cosa faccia Israele a Gaza.Se Israele sconfiggesse completamente l’intera rete militare e le infrastrutture di Hamas, se uccidesse ogni singolo combattente, cosa probabilmente irrealistica, Hamas continuerebbe ad esistere come movimento politico. Hamas continua ad avere sostegno tra i palestinesi – non il sostegno della maggioranza, secondo quasi tutti i sondaggi che ho visto, ma un certo sostegno sì. Quando i palestinesi riusciranno a mettere insieme un governo – ammesso che riescano a farlo perché, lo sapete, tutti gli altri cercheranno di farlo per loro, gli Stati Uniti cercheranno di imporre loro le proprie intenzioni. Il governo israeliano cercherà, senza dubbio, di fare lo stesso. E gli europei, nel loro stile coloniale, probabilmente proveranno a fare lo stesso. Diranno ai palestinesi cosa è bene per loro e chi possono avere e chi non possono avere nel loro governo. Ma quando – e se – i palestinesi riusciranno a mettersi d’accordo e a formare, ad esempio, una sorta di OLP riformata , non ci sarà modo di escludere Hamas. L’idea che Hamas, a causa di ciò che ha fatto il 7 ottobre, sia completamente escluso dal governo palestinese è una fantasia, una fantasia israeliana, statunitense, europea.
Non si può negoziare con le persone dopo aver preteso che abbiano già accettato i tuoi termini. Non si sarebbe potuto fare in Irlanda, dove dovevi coinvolgere l’IRA. Non si poteva farlo in Sudafrica senza coinvolgere l’ANC. Non si poteva farlo in Algeria senza coinvolgere l’FLN . Si tratta di gruppi che hanno anche compiuto attacchi orribili, in molti casi contro i civili. Si tratta di gruppi che venivano descritti dalle potenze coloniali come terroristi o banditi, oppure con termini diversi in tempi diversi. Ma, dopo tutto, le uniche persone con cui devi veramente negoziare sono quelle con le armi. E finché questo fatto non passerà attraverso le teste dure della gente a Washington, a Parigi e a Londra, non andremo da nessuna parte. Possono scegliere i collaborazionisti, i tecnocrati. Possono selezionare i palestinesi che sono accettabili per loro, quelli che superano qualsiasi prova, che si inginocchiano e condannano Hamas, o qualunque altra prova decisiva venga loro imposta, ma quelle persone non rappresenteranno nessuno, non avranno credibilità, non avranno legittimità e non si avrà alcun vero controllo sulla situazione.
Devi accettare che alla fine dovrai affrontare i tuoi veri nemici, stai guardando una situazione di occupazione israeliana senza fine della Striscia di Gaza, diretta o indiretta. Una situazione che implica una resistenza senza fine a tale occupazione. Quante persone possono uccidere? Se Israele affermasse che ci sono 25.000 o 30.000 militanti armati in Hamas, quanti di loro potrebbero ucciderne? Dieci, dodici, quindicimila? Alla fine ce ne saranno altri, persone che sono ancora lì. Questo significa che una soluzione imposta, con Israele che continua a operare nella Striscia di Gaza, cosa che ha dichiarato di voler fare, provocherà una resistenza continua. Quindi, nulla sarà risolto.
La ricostruzione e la fine della miseria del popolo di Gaza non potranno avere luogo finché non avranno luogo cambiamenti di questo tipo, dall’occupazione a una sorta di governo palestinese. L’idea che i paesi arabi entrino e facciano il lavoro sporco per Israele e gli Stati Uniti è una fantasia. Gli Emirati, i Sauditi, gli Egiziani e i Giordani non andranno a governare per conto di Israele. Non succederà. Ci deve essere un governo palestinese dei territori palestinesi.
E questo dovrà, in un modo o nell’altro, coinvolgere tutti i gruppi all’interno dello spettro politico palestinese. I palestinesi sono stati divisi da loro stessi, si sa, per ragioni che hanno a che fare con la disfunzione palestinese, ma sono stati divisi anche dalle politiche divide et impera degli Stati Uniti, di Israele e degli europei. Finché questo continuerà, questa piaga purulenta continuerà e ci sarà violenza. E non si tratterà solo di violenza causata dagli uomini duri di Hamas. Sarà la violenza causata dagli orrori inflitti ai palestinesi da 56 anni di occupazione, da 75 anni di colonialismo, e dal fatto che le persone, inevitabilmente, necessariamente, resistono all’occupazione. A Washington e in Israele devono venire a patti, prima o poi, con il fatto che la governance palestinese è una questione che deve essere decisa dai palestinesi. E questo semplicemente non è nella loro mentalità, se si legge ciò che viene da Washington o da Israele o da molti governi europei.
JUAN GONZÁLEZ: Professore, ci restano solo un paio di minuti, ma volevo chiederle – lei ha detto che esiste un indiscutibile legame tra l’ebraismo e il popolo ebraico e la Terra Santa, eppure che Israele – lo Stato israeliano è un progetto coloniale. Di recente nel suo articolo sul LA Times ha definito l’assalto a Gaza “l’ultima guerra coloniale dell’era moderna”. Potrebbe approfondire?
RASHID KHALIDI: Giusto. Sicuro. Questo risale alla natura del sionismo. Il sionismo è un progetto nazionale, che lo distingue da ogni altro progetto di movimento coloniale di coloni. Ma, allo stesso tempo, era un progetto coloniale autoidentificato. L’Agenzia di Colonizzazione Ebraica, l’Agenzia di Colonizzazione Ebraica Palestinese, è il termine che quell’organizzazione, che esisteva fino al 1958, applicava a se stessa. Questo fu accettato dai primi leader sionisti. Sostenevano di avere diritti sulla Terra Santa e che esisteva un legame tra il popolo ebraico e la terra di Israele. Tutto ciò è vero, esistono un tale attaccamento e una tale connessione, ma il sionismo è un progetto coloniale europeo, sostenuto dall’imperialismo, dall’imperialismo britannico, che intendeva sostituire una popolazione indigena con una popolazione ebraica. Come ha detto Ze’ev Jabotinsky: “Vogliamo trasformare la Palestina nella terra di Israele”. E ciò significava una trasformazione demografica, l’espropriazione della popolazione e il furto delle loro terre, come accade in ogni scenario coloniale di insediamento. Quindi, Israele è sia il risultato di un progetto nazionale, il sionismo, sia il risultato di un progetto coloniale di insediamento. Puoi camminare e masticare una gomma allo stesso tempo. In realtà non c’è contraddizione.
Ed è un progetto unico, in quanto non si è trattato semplicemente di un’estensione della popolazione e della sovranità della madrepatria. Il sionismo aveva le sue ambizioni indipendenti: fondare uno stato ebraico, non uno stato britannico – era sotto la protezione della Gran Bretagna, ma aveva scopi propri, scopi separati e indipendenti. Quindi è un fenomeno unico nel mondo moderno, anche se ha imparato tutto dagli inglesi. I primi leader dell’esercito israeliano furono addestrati da specialisti della controinsurrezione coloniale britannica a far saltare le case sopra le teste dei loro residenti, a sparare ai prigionieri e ad attaccare i villaggi di notte. Questa è la controinsurrezione britannica, che fu trasmessa agli israeliani – membri del Palmach e dell’Haganah negli anni ’30 affinché aiutassero gli inglesi a combattere i palestinesi. E questi sono i fondatori dell’esercito israeliano. Moshe Dayan è stato addestrato da specialisti britannici della controinsurrezione. Yigal Allon, Yitzhak Sadeh e molte delle figure di spicco di quello che poi divenne l’esercito israeliano hanno avuto questo addestramento. Israele sta utilizzando le leggi rimaste da allora, i Regolamenti di Difesa (Emergenza) del 1945, in base ai quali le persone vengono messe in detenzione amministrativa, senza alcuna accusa, senza processo, senza condanna, niente. Vengono semplicemente messi in prigione e tenuti lì. È un regolamento d’emergenza britannico del 1945. Questo è un tipico strumento coloniale.
Si tratta quindi di una guerra coloniale, combattuta per mantenere la supremazia di questo gruppo, che ha preso il controllo del paese, a scapito della popolazione indigena palestinese. Il legame del popolo ebraico con la terra d’Israele è, a mio avviso, incontrovertibile. Ma ciò, di per sé, non giustifica i metodi coloniali che sono stati utilizzati per stabilire e mantenere la supremazia di Israele sull’intera Palestina, dal fiume al mare.
https://www.blog-lavoroesalute.org/wp-content/uploads/2023/12/immagine-115.png640512franco.cilentifranco.cilenti2023-12-23 05:53:022023-12-23 05:53:04Israele. Una guerra coloniale
Da quasi un anno Ilaria Salis urla nel silenzio. Rinchiusa nel carcere di massima sicurezza di Budapest. 39 anni, antifascista milanese, di professione maestra alle elementari, denuncia condizioni detentive disumane. Topi e scarafaggi in cella, cibo scarso, meno di 3 metri e mezzo di spazio vitale a disposizione, l’umiliazione di essere trascinata alle udienze «legata e tenuta al guinzaglio da un agente della scorta».
È dallo scorso febbraio che Ilaria Salis si trova in stato di detenzione preventiva in un carcere di Budapest, in condizioni disumane. La diplomazia italiana, chiamata più volte in causa dai famigliari della donna, non si è ancora espressa in tal senso, e non sembra voler spendersi per la militante antifascista che, a inizio anno, è stata accusata di aver aggredito dei neonazisti.
Nei primi giorni di febbraio in Ungheria viene celebrato il cosiddetto “Giorno dell’Onore“, per ricordare i membri delle Croci Frecciate (partito filo-nazista che governò il paese fra il ’44 e il ’45) che combatterono contro l’Armata Rossa nel febbraio del 1945. La celebrazione, divenuta nota a partire da metà degli anni ’90, è in realtà un mero pretesto per i vari neofascisti e neonazisti di tutta Europa per ritrovarsi e manifestare in nome di un presunto passato mitico, fatto in realtà di violenza, razzismo e intolleranza. È questo il contesto in cui Salis è stata accusata dalle autorità ungheresi di aver aggredito dei manifestanti neonazisti; la donna è inoltre accusata di far parte di Hammerbande, gruppo tedesco avente l’obiettivo di attaccare i militanti fascisti o di ideologia nazista. I suoi legali hanno invece smentito. Ilaria Salis «è accusata di aver attentato alla vita delle vittime, nonostante le lesioni riportate siano lievi (una prognosi fra i 5 e gli 8 giorni, ndr) e rischia una pena di 16 anni» ha dichiarato a Radio Città Fujko Emanuela, persona vicina a Ilaria e alla famiglia
Le condizioni di detenzione di Ilaria Salis:semi-isolamento e manette di cuoio
A preoccupare, sono soprattutto le condizioni di Ilaria. Lo scorso ottobre Salis ha detto, tramite i propri avvocati, che da mesi vive una situazione di profondo disagio; la cella nel quale è confinata è sporca, pullulata di insetti e topi che le hanno, fra le altre, provocato una reazione allergica durante il primo periodo di detenzione. «Per mesi non ha potuto parlare con i genitori né potuto ricevere vestiti, dovendo indossare la biancheria intima che aveva al momento dell’arresto, senza assorbenti e dovendo lavarsi in un catino» prosegue Emanuela.
A questo si aggiunge la condizione di semi-isolamento: «Ilaria è tenuta in cella 23 ore su 24, e durante l’ora d’aria i detenuti stanno in un corridoio sottoterra. Di più, l’ora d’aria avviene in contemporanea con le docce, quindi Ilaria deve scegliere fra l’aria e il lavarsi – ha continuato ai microfoniEmanuela – I trasferimenti fuori dal carcere avvengono con manette di cuoio a polsi e caviglie e con anche un guinzaglio di cuoio legato al polso della guardia carceraria. Tuttora non può ricevere lettere che non siano dei genitori o del compagno. È un trattamento disumano, che lede non solo la sua dignità ma anche la sua salute psicofisica; colpevole o innocente si tratta di un essere umano e io penso che nessuna persona debba essere trattata così». ha concluso Emanuela.
L’Ungheria è già stata condannata dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo per gravi violazioni dei diritti dei detenuti, violazioni che Ilaria sta evidentemente subendo.
https://www.blog-lavoroesalute.org/wp-content/uploads/2023/12/ilaria-salis-270x200-1.jpg200270franco.cilentifranco.cilenti2023-12-22 10:57:432023-12-22 10:57:44Ilaria Salis, militante antifascista in carcere in Ungheria da dieci mesi. E l’Italia sta in silenzio
Quella del primo gennaio, l’abbiamo chiamata l’ora X: quella in cui lo stabilimento viene “liberato” dai dipendenti, cessa di essere una realtà industriale, sindacale, una comunità operaia e diventa un puro fabbricato, da svuotare e immettere sul mercato immobiliare. Una potenziale speculazione immobiliare che segue quella finanziaria: un doppio crimine sociale in una zona che è appena stata colpita dall’alluvione, provocata dai cambiamenti climatici e da speculazioni edilizie. Intervista con il collettivo della GKN di Campi Bisenzio
All’apparenza la vicenda della GKN di Campi Bisenzio, in Toscana, è quella di un’ordinaria speculazione finanziaria, con un fondo, Melrose, che si compra la società, la smembra e manda per strada centinaia di operai. GKN è un’azienda che realizza componenti di automotive ed è tutt’altro che in crisi profonda al momento dell’arrivo del fondo. Anche questo è un elemento ricorrente in situazioni analoghe.
Ma quella della GKN di Campi Bisenzio è anche, e soprattutto, una storia di straordinaria resistenza, che per fortuna ha avuto anche una giusta eco sui media italiani. Il giorno del licenziamento, nell’estate del 2021, è infatti cominciata l’occupazione dell’impianto da parte dei lavoratori, riuniti nel Collettivo di fabbrica. Occupazione che va avanti senza interruzione. Per capirne di più delle ragioni e della visione del Collettivo, lo abbiamo incontrato e posto ai suoi esponenti alcune domande. Ne è uscita fuori una lunga intervista, che parla del loro impegno a tutto tondo, toccando temi di fondamentale importanza come la transizione ecologica e il cambio di modello produttivo.
Quali sono gli ultimi aggiornamenti sulla vostra lotta?
Il 18 ottobre si è riaperta la procedura di licenziamento e, ad oggi, sarà definitiva il primo gennaio 2024. L’abbiamo chiamata l’ora x: quella in cui lo stabilimento viene “liberato” dai dipendenti, cessa di essere una realtà industriale, sindacale, una comunità operaia e diventa un puro fabbricato, da svuotare e immettere sul mercato immobiliare. Una potenziale speculazione immobiliare che segue quella finanziaria: un doppio crimine sociale in una zona che è appena stata colpita dall’alluvione, provocata dai cambiamenti climatici e da speculazioni edilizie.
Perché quella della GKN è una lotta sistemica e quanto è replicabile in altri contesti, anche dissimili dalla realtà industriale in cui opera la stessa azienda?
Non so se la lotta GKN è antisistemica. So che il sistema è antilotta GKN. Noi il 9 luglio 2021 eravamo semplicemente alla catena di montaggio a produrre. E da lì ci hanno tolto licenziandoci. Più che disquisire su quanto noi siamo anti-capitalisti, bisognerebbe parlare di quanto il capitalismo è anti-noi.
Esiste un mondo che ha chiuso questo stabilimento: sovrapproduzione, finanziarizzazione dell’economia, disimpegno di Stellantis, mancanza di intervento statale, complicità della politica. Noi non abbiamo fatto altro che resistere. Per resistere un giorno o un mese, devi tenere duro. Per resistere due anni e mezzo devi avere un progetto. Sono le circostanze che ci hanno spinto a elaborare un progetto industriale. E per farlo non potevamo che partire da chi ha difeso la fabbrica: gli operai, il movimento climatico, le reti di solidarietà e convergenza. Dalla difesa nasce il rilancio. Non è una vicenda necessariamente replicabile, ma sicuramente esemplare. Il nostro non è un piano di per sé antisistemico: la singola fabbrica non può sfuggire al mercato. Eppure il nostro esempio dà fastidio a un sistema.
Da quali esempi avete tratto ispirazione per condurre la vostra lotta?
Abbiamo studiato ogni vertenza prima di noi, del recente o remoto passato. Apollon (Roma 1969), Innse, ecc., e alla fine abbiamo tratto indicazioni dal percorso di Rimaflow a Milano. E in generale abbiamo dovuto prendere atto di essere nel mezzo di un caso “argentino”: quando i tempi della resistenza di una singola fabbrica non coincidono con quelli dell’ascesa generale di un movimento di massa, assistiamo al fenomeno dell’autorecupero della fabbrica. E quindi abbiamo dovuto fare mente locale sul caso delle fabbriche recuperate argentine. Con ognuno dei casi citati, ci sono analogie e differenze. Una differenza su tutte: noi non stiamo recuperando la fabbrica con la sua produzione originale. Abbiamo dovuto – e voluto per alcuni aspetti – elaborare un piano di riconversione ecologica.
Quale può essere il contributo della GKN all’accidentato percorso della transizione ambientale, che tanti vorrebbero essere in atto, ma che in realtà, al netto del greenwashing, tarda a partire?
Esistono tecnologie più verdi di altre. Ma non esiste nessuna tecnologia verde implementabile su larga scala senza un piano sociale di cambiamento dell’economia: radicale, urgente. E non esiste piano sociale senza controllo sociale sulla produzione. Quello che abbiamo appreso è che la capacità della classe di resistere nella difesa dei propri diritti sociali a un certo punto produce anche una capacità della classe di conoscere, controllare, indirizzare le scelte su chi, come, che cosa produrre. Nei suoi picchi storici il movimento sindacale produce democrazia radicale, consiliare. La democrazia radicale produce capacità di entrare nel merito dei processi produttivi. Senza tale contributo, la transizione ecologica non si dà, o non è controllabile. Che poi è la stessa cosa.
GKN potrebbe essere anche un primo passo nella giusta direzione del cambio di modello? Quale puo’ essere vostro punto di forza per innestare un circolo virtuoso in proposito?
Ripeto che non siamo un modello. La singola fabbrica non può ergersi a modello. Siamo però un esempio. E questo esempio domani potrebbe esprimersi in comunicati, volantini, studi ma anche con prodotti tangibili. Cargobike prodotte sotto controllo operaio a disposizione di un delivery differente nel tessuto urbano. Pannelli fotovoltaici al servizio di comunità energetiche che “democratizzino” l’energia e la sua distribuzione. Enti locali o istituti pubblici che partecipano alla cooperativa e in cambio ricevono pannelli da usare per creare fondi con cui abbattere le morosità incolpevoli delle comunità circostanti. Gli esempi sono tanti, potenzialmente contagiosi. Ripeto: rifiutiamo ogni tipo di idealizzazione di questo processo. Non stiamo teorizzando nulla di nuovo o l’oasi felice nel mercato. Stiamo dicendo che è una grande occasione per dire: si può, si potrebbe. Persa questa occasione, cosa diremo alla prossima azienda in crisi?
Secondo il vostro collettivo di fabbrica per quale motivo non riuscite ad accedere ai fondi pubblici per le aziende recuperate? Che cosa vi aspettate in futuro in merito?
Gli assunti dell’attuale politica fanno sì che il pubblico non interviene senza privato. Ma solo a servizio del privato e delle sue perdite, spesso. Il privato non interviene con una visione pubblica.
Il prodotto che vogliamo fare non esiste. Per esistere ha bisogno di un investimento. Il privato non investe se il prodotto non esiste. Il prodotto non esiste senza l’investimento sulla linea industriale per avere il prodotto. Il mercato scarica sulle novità verdi tutta la propria inerzia e il proprio conservatorismo. Per questo la transizione produttiva necessita dell’intervento di un soggetto che abbia il bene pubblico tra i propri obiettivi.
Siamo in questo circolo vizioso e ci siamo attrezzati per provare a romperlo, con ogni mezzo a nostra disposizione. Ma anche quando riuscissimo a romperlo completamente, rimane il nodo dello stabilimento. Dal punto di vista finanziario stiamo parlando di bazzecole per i grandi gruppi pubblici e privati. Con una cifra che oscilla tra i 10 e 50 milioni di euro si chiuderebbe la partita e daremmo a questo Paese un polo delle rinnovabili e della mobilità leggera. Il gettito fiscale positivo prodotto sarebbe di gran lunga superiore. L’Italia avrebbe transizione, entrate fiscali e posti di lavoro.
La verità è che qua, oltre a una partita di soldi, si gioca un’altra partita: quella della prerogativa sociale. Una multinazionale deve avere il diritto di chiudere, aprire, smembrare, cementificare, scappare, rivendere, umiliare un territorio. Riaprire GKN, per di più con una reindustrializzazione, è lesa maestà a tale prerogativa.
I Congressi per la salute/Rete nazionale salute e sanità ha definito una piattaforma nazionale per il rilancio del diritto alla salute a partire dalla difesa e dal riconoscimento della preminenza della sanità pubblica.
Il testo è il risultato della discussione svolta alla assemblea nazionale tenuta a Firenze il 17.06.2023 e alle successive riunioni e viene proposto come un “cappello” condiviso per orientare le proposte e le vertenze territoriali.
PIATTAFORMA DEFINITIVA – LA SALUTE NON È UNA MERCE
Riorganizzare il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) laico, umanizzato e interamente a controllo e gestione pubblica, partecipata, democratica e popolare.
Ridefinizione del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) non più basato su principi di aziendalizzazione e privatizzazione ma con la generazione diretta di servizi.
Adeguato incremento del finanziamento del Fondo Sanitario Nazionale con destinazione esclusivamente al Servizio Sanitario Nazionale di diritto pubblico.
Eliminazione del profittevole meccanismo dell’accreditamento e delle convenzioni con i privati, con l’immissione nel ruolo della dipendenza di medici di medicina generale, pediatri di libera scelta e specialisti ambulatoriali convenzionati.
Recupero delle strutture sanitarie chiuse per i tagli lineari, inutilizzate e/o abbandonate su tutto il territorio nazionale.
Rilancio delle politiche di prevenzione, a partire da quella primaria, in tutte le attività, nei territori e nei luoghi di lavoro, partendo da condizioni ambientali ed ecosistemi, reddito, salario, lavoro, abitazione, istruzione e servizi.
Potenziare la rete dei consultori, secondo la L.405/75, che devono essere laici, gratuiti, aperti alle esigenze di salute e benessere delle donne e delle libere soggettività, senza discriminazioni di genere, età, fragilità, etnia, cultura, religione, classe, garantendo l’attuazione del diritto all’aborto, la promozione della contraccezione gratuita e la somministrazione della RU486 per l’IVG. Precludere l’accesso degli obiettori nel SSN pubblico.
Piano straordinario di assunzioni di personale a tempo indeterminato, stabilizzazione dei precari e reinternalizzazioni del personale e delle attività esternalizzate, abolendo il tetto di spesa e con adeguati standard normativi di personale.
Contratto Nazionale Unico per tutti i lavoratori e lavoratrici della sanità pubblica, convenzionata e privata, per superare le differenze giuridiche e contrattuali.
Eliminazione del numero chiuso universitario compresi i corsi di laurea delle professioni sociali e sanitarie e delle specializzazioni, formazione universitaria del medico di medicina generale con adeguamento di strutture, borse di studio e programmi.
Abolizione delle Casse e dei fondi privati di sanità integrativa e di malattia nei Contratti Collettivi di Lavoro Pubblici e Privati e della loro detraibilità fiscale.
Rifiuto di ogni Autonomia Regionale Differenziata
Ripristino dell’imposizione fiscale progressiva ed eliminazione del pareggio di bilancio in Costituzione.
Ridefinizione delle attuali competenze tra Stato, Regioni ed Enti Locali.
Abolizione di tutti i ticket sanitari, della pratica dell’intramoenia e dell’extramoenia, con l’esclusività del rapporto di lavoro, azzeramento delle scandalose liste d’attesa, introduzione nei LEA di tutta l’odontoiatria e delle patologie rare, orfane e invisibili.
Per la democrazia e contro la repressione nel SSN e nella sanità esternalizzata e accreditata, contro la sua gestione verticistica e autoritaria, aggravata dalle grandi dimensioni delle aziende sanitarie.
Congressi per la salute/Rete nazionale salute e sanità
https://www.blog-lavoroesalute.org/wp-content/uploads/2023/10/servizio-sanitario-nazionale-cauduro.webp429796franco.cilentifranco.cilenti2023-12-22 10:44:592023-12-22 10:45:02La piattaforma per la ricostruzione del Servizio Sanitario Nazionale
Il 23 dicembre 1978, quarantacinque anni fa, Tina Anselmi, prima donna italiana al ministero della Sanità, appose la firma alla legge n. 833, istitutiva del tanto atteso Servizio Sanitario Nazionale. Tocca ricordarne i principi, per capire meglio cosa ci stanno togliendo.
Quarantacinque anni fa, il 23 dicembre 1978 Tina Anselmi, prima donna italiana al ministero della Sanità, appose la firma alla legge n. 833, istitutiva del tanto atteso Servizio Sanitario Nazionale. La nascita del SSN segnò per il paese un grande salto di qualità, a partire dal suo obiettivo principale: il passaggio dalla cura della malattia, concepita per lo più come sofferenza individuale, alla tutela e promozione universale della salute, fisica e psichica, individuale e collettiva. Il nuovo servizio fu caratterizzato da un’impostazione integrata dell’intervento sanitario e di quello sociale, dalla priorità dell’attività di prevenzione, da un’organizzazione decentrata e territoriale, da un approccio capace di investire le questioni legate alle condizioni di lavoro, alla tutela dell’ambiente, al benessere umano complessivo.
I principi con cui nasceva erano radicali. Universalità di copertura, non solo ai cittadini italiani ma a tutti, senza alcuna discriminazione, era garantito il diritto alle cure. Equità di accesso e uguaglianza di trattamento; globalità e uniformità territoriale delle prestazioni erogate; impiego coordinato delle moderne tecniche di prevenzione, cura e recupero. E ancora, centralità dell’azione preventiva; decentramento territoriale; unicità di gestione dei servizi da parte delle Unità Sanitarie Locali (Usl), concepite come strumenti di un intervento integrato a tutela della salute che comprendeva molteplici aspetti. Partecipazione e controllabilità democratica; programmazione dell’offerta dei servizi e della spesa; finanziamento tramite la fiscalità progressiva generale. Nella sua architettura, esso capovolgeva il precedente assetto sanitario, spostando potere e risorse dall’inefficiente edificio delle Casse Mutue e degli enti ereditati dal fascismo, a istituzioni più vicine ai cittadini, con un finanziamento che passava dal vecchio meccanismo assicurativo alla fiscalità progressiva. In questo modo il principio di equità veniva realizzato con un finanziamento che era parte dei meccanismi redistributivi e solidaristici del welfare e con un’erogazione di servizi fondati sui bisogni di salute indipendentemente dai contributi versati e dal reddito.
L’istituzione del SSN fu il risultato del fermento sociale, politico e culturale degli anni Sessanta e Settanta, delle mobilitazioni del movimento operaio e di quello femminista, delle pressioni sindacali e dei partiti della sinistra. Sperimentazione di innovativi servizi socio-sanitari, collettivi, decentrati, universali, pubblici, piena consapevolezza dei nessi che legavano la salute ambientale e l’organizzazione capitalistica del lavoro, ripensamento delle finalità e dei dispositivi della scienza, attuazione della Costituzione furono altresì centrali nella costruzione del Servizio sanitario.
Determinante l’impegno per la salute che caratterizzò molte iniziative ed esperienze degli anni Settanta, quale dimensione concreta dell’affermazione dei diritti sociali e di libertà, delle pratiche di partecipazione, dell’elaborazione di nuovi saperi condivisi.
La riforma sanitaria del 1978 va ricordata oggi perché costituì la più importante realizzazione universalista del welfare italiano, segnato ancora da logiche occupazionali, strategie patriarcali, forte frammentazione e approccio categoriale. Furono necessari anni di discussioni, conflitti e sperimentazioni, un’intensa stagione di azione collettiva all’insegna delle istanze di liberà e uguaglianza che in quel decennio trasformarono nel profondo l’assetto del paese.
Ritornare alle origini politiche di questa istituzione “inventata” non è un semplice atto di memoria, bensì una necessità concreta, che nasce dal desiderio e dall’urgenza di riprendere quel percorso, di esserne eredi consapevoli. Siamo di fronte a un lungo, ma sempre più rapido, processo di privatizzazione e dequalificazione della sanità pubblica, a politiche e narrazioni che giorno per giorno puntano a mettere fine a un modello di salute universalistico e democratico, alla forte invadenza di logiche di mercato e profitto, con l’effetto di assistere a un grave aumento delle diseguaglianze sociali e delle disparita territoriali nella salute. Contrastare queste dinamiche può essere uno dei terreni chiave dell’odierno conflitto politico e sociale, per realizzare il diritto di tutte e tutti alla salute e per riaffermare una delle conquiste più importanti del Paese, ottenuta con grandi idee e grandi lotte.
https://www.blog-lavoroesalute.org/wp-content/uploads/2023/11/sanita2.jpg122224franco.cilentifranco.cilenti2023-12-22 10:37:282023-12-22 10:37:30Il Ssn, una conquista che compie 45 anni
Negli ultimi trent’anni il “modello italiano” ha impoverito i lavoratori e arricchito il capitale. Il nostro Paese si ritrova così terra di monopolio estero e di formidabili speculazioni (dalle reti alle infrastrutture). Con eventi paradossali, come la recente indicizzazione delle tariffe telefoniche (e non dei salari). L’analisi di Alessandro Volpi
Dal 1991 a oggi in Italia i salari sono cresciuti soltanto dell’1% mentre nei Paesi Ocse la crescita è stata del 32,3%. Inoltre la quota dei salari sul Pil è passata nello stesso arco di tempo dal 60 al 40% mentre quella dei profitti dal 40 al 60%. Questi dati suggeriscono due considerazioni.
La prima. Il modello economico italiano -se così si può definire- negli ultimi trent’anni ha impoverito i lavoratori e arricchito il capitale. La seconda. I contratti nazionali non sono stati in grado di difendere la tenuta salariale, alla faccia di chi sostiene che siano sufficienti a garantire i redditi dei lavoratori di fronte alla perdita di potere d’acquisto. Una nota, invece, per chi tira sempre in ballo la scarsa produttività del sistema economico italiano: i salari sono cresciuti assai meno anche della produttività, che evidentemente ha giovato solo ai profitti.
In sintesi, a seguito del lungo Dopoguerra del conflitto sociale e politico, siamo approdati nel paradiso dei ricchi che hanno fatto pagare il conto ai lavoratori. Per capire meglio un simile quadro forse dovremmo ripetere all’infinito anche che l’Italia è ormai terra di monopolio estero, e di formidabili speculazioni. I francesi di Iliad propongono alla multinazionale con sede a Londra Vodafone una joint-venture in Italia, dove si spartiscono la rete con Tim, in via di concentrazione proprietaria nelle mani di Kkr, partecipata da Vanguard, con WindTre, di proprietà di CK Hutchison Holdings, partecipata da Vanguard, e con Fastweb, in mani svizzere. In pratica, i milioni di utenti italiani sono gestiti da società estere che hanno tutte sede fiscale fuori dall’Italia e, nella stragrande maggioranza dei casi, in paradisi fiscali.
Le scorribande finanziarie sono all’ordine del giorno: Vivendi, socio forte di Tim, ha avviato una causa contro la cessione a Kkr, ma avendolo fatto senza chiedere la sospensiva, ha subito generato un aumento del valore del titolo di Tim, con grande gioia dei fondi già proprietari della società. Nel frattempo, l’Agcom, l’autorità di regolazione del settore, pur con varie cautele, consente l’indicizzazione delle tariffe telefoniche che quindi possono essere agganciate all’inflazione. Si tratta di una novità assoluta, e certamente assai favorevole per i gestori, che avviene, guarda caso, proprio quando prendono corpo queste grandi manovre. Naturalmente Tim ha già dichiarato che si avvarrà di tale prerogativa, insieme a WindTre.
In Italia non indicizziamo gli stipendi ma le tariffe telefoniche, gestite dai fondi, possono seguire, e dunque alimentare, il corso dell’inflazione. Sembra incredibile ma nulla è ormai incredibile nel nostro Paese. Airbnb ad esempio ha firmato di recente un accordo con l’Agenzia delle entrate per chiudere i rilievi relativi alle indagini fiscali per il periodo 2017-2021, versando 576 milioni di euro. Airbnb, che fattura miliardi in Italia, non ha mai pagato un euro di imposta fino ad oggi perché anche sul periodo 2022-2023 è aperto un contenzioso non ancora saldato. I suoi principali azionisti sono i grandi fondi finanziari: Vanguard, BlackRock, State Street e pochissimi altri detengono quasi il 40% del suo capitale. Sono gli stessi fondi a cui l’Italia ha ceduto o sta cedendo le proprie infrastrutture e i propri servizi. Torniamo al dato iniziale: l’Italia è un Paese per ricchi che, molto spesso, abitano solo l’esclusivo Pianeta della finanza, privo di qualsiasi idea di cittadinanza.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento. “Prezzi alle stelle. Non è inflazione, è speculazione” (Laterza, 2023) è il suo ultimo libro
https://www.blog-lavoroesalute.org/wp-content/uploads/2017/12/ricchi-e-poveri.jpg462770franco.cilentifranco.cilenti2023-12-22 09:53:482023-12-22 09:53:50L’Italia è un Paese per ricchi
Di Ramzy Baroud – 19 dicembre 2023 Quando le milizie sioniste, utilizzando armi occidentali avanzate, conquistarono la Palestina storica nel 1947-1948, espressero la loro vittoria attraverso la deliberata umiliazione dei palestinesi. Sapendo come il disonore delle donne porta, secondo la cultura araba, un senso di disonore per l’intera comunità, gran parte di quell’umiliazione ha colpito in particolare le donne. Questa strategia è rimasta in uso fino ad oggi.
Quando il mese scorso decine di donne palestinesi sono state rilasciate in seguito agli scambi di prigionieri tra la Resistenza Palestinese e Israele, c’era ben poco spazio per nascondere i fatti.
A differenza della comunità palestinese di 75 anni fa, la generazione di oggi non interiorizza più l’umiliazione intenzionale di donne e uomini da parte di Israele come se fosse un atto di disonore collettivo. Ciò ha consentito a molte prigioniere appena rilasciate di parlare apertamente, spesso in diretta televisiva, del tipo di umiliazione a cui sono state esposte durante la detenzione militare israeliana.
L’esercito israeliano, tuttavia, continua ad agire con la stessa vecchia mentalità, percependo l’umiliazione dei palestinesi come espressione di dominio, potere e supremazia.
Nel corso degli anni, Israele ha perfezionato la politica dell’umiliazione, un concetto che si basa sul potere psicologico di umiliare interi collettivi per enfatizzare la relazione asimmetrica tra due gruppi di persone: in questo caso, l’Occupante e l’Occupato.
Questo è esattamente il motivo per cui, nei primi giorni dell’ultima guerra israeliana a Gaza, Israele ha arrestato tutti i lavoratori palestinesi della Striscia che si trovavano a lavorare in Israele come manodopera a basso costo al momento dell’operazione del 7 ottobre. La disumanizzazione sperimentata per mano dei soldati israeliani ha dimostrato una tendenza crescente tra gli israeliani a umiliare i palestinesi senza alcun motivo.
Uno dei peggiori episodi documentati è avvenuto il 12 ottobre, quando un gruppo di soldati e coloni israeliani ha aggredito tre attivisti palestinesi in Cisgiordania. I giornali israeliani Haaretz e Times of Israel hanno descritto come i tre sono stati aggrediti, spogliati, legati, torturati, urinato addosso e fotografati durante le violenze.
Quelle immagini erano ancora fresche nella mente dei palestinesi quando nuove prove arrivarono dal Nord di Gaza. Foto e video pubblicati dai media israeliani hanno mostrato uomini spogliati quasi completamente esibiti in gran numero per le strade di Gaza, mentre erano circondati da soldati israeliani ben equipaggiati e apparentemente minacciosi. Gli uomini sono stati ammanettati, legati insieme, costretti a chinarsi e poi, alla fine, ammucchiati su camion militari per essere portati in una località sconosciuta. Alla fine alcuni degli uomini furono rilasciati ed ebbero modo di raccontare storie da film dell’orrore, che spesso avevano finali sanguinosi.
Ma perché Israele fa questo?
Nel corso della sua storia, dalla nascita violenta all’esistenza altrettanto violenta, Israele ha deliberatamente umiliato i palestinesi come espressione del suo sproporzionato potere militare su una popolazione sfortunata, confinata e per lo più resa profuga.
Questa tattica è stata utilizzata maggiormente in determinati periodi storici, quando i palestinesi si sentivano forti, come un modo per spezzare il loro spirito collettivo. La Prima Intifada, dal 1987 al 1993, fu all’apice di questo tipo di umiliazione. Ragazzi e uomini di età compresa tra i 15 e i 55 anni venivano abitualmente trascinati nei cortili delle scuole, denudati, costretti a inginocchiarsi per ore interminabili, picchiati e insultati attraverso gli altoparlanti dai soldati israeliani. Tali insulti sono diretti a tutto ciò che i palestinesi hanno di più caro: le loro religioni, il loro Dio, le loro madri, i loro luoghi santi e altro ancora.
Quindi, ragazzi e uomini sarebbero stati costretti a compiere atti auto-degradanti, come sputarsi in faccia a vicenda, insultarsi o schiaffeggiarsi a vicenda. Coloro che si fossero rifiutati sarebbero stati immediatamente sopraffatti, picchiati e arrestati.
Questi metodi continuano ad essere applicati nelle carceri israeliane, soprattutto durante gli scioperi della fame, ma anche durante gli interrogatori. In quest’ultimo caso, gli uomini sarebbero minacciati di stupro delle loro mogli o sorelle, mentre le donne sarebbero minacciate di violenza sessuale.
Questi episodi incontrano spesso una sfida collettiva palestinese, che alimenta direttamente la Resistenza Popolare Palestinese.
L’immagine del combattente palestinese, vestito con una divisa militare e brandendo un fucile automatico mentre cammina con orgoglio per le strade di Nablus, Jenin o Gaza, di per sé non ha uno scopo militare. Si tratta, tuttavia, di una risposta diretta all’impatto psicologico del tipo di umiliazione inflitta alla società palestinese dall’Esercito di Occupazione Israeliano.
Ma qual è la funzione di una parata militare palestinese? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo esaminare la sequenza degli eventi. Quando gli israeliani arrestano gli attivisti palestinesi, tentano di creare lo scenario perfetto di una comunità umiliata e sconfitta: il terrore provato dalla gente quando iniziano le incursioni notturne, i pestaggi dei familiari, dei detenuti e le ingiurie, insieme ad altre scene orribili ben coreografate.
Ore dopo, i giovani palestinesi escono per le strade dei loro quartieri, sfilando orgogliosamente con le loro armi, tra le urla delle donne e gli sguardi eccitati dei bambini. Questo è esattamente il modo in cui i palestinesi rispondono all’umiliazione.
La Resistenza armata palestinese è diventata molto più forte negli ultimi anni, e Gaza rappresenta attualmente un esempio calzante. Poiché l’esercito israeliano non riesce a rioccupare Gaza e a sottomettere la sua popolazione, utilizzare la politica dell’umiliazione su vasta scala è semplicemente impossibile. Al contrario, sono gli israeliani a sentirsi umiliati, e non solo per quello che è successo il 7 ottobre, ma anche per tutto quello che è successo da allora.
Incapace di operare liberamente nel cuore di Gaza, Khan Yunis, Rafah o qualsiasi altro grande centro abitato della Striscia, l’esercito israeliano è costretto a umiliare i palestinesi in qualunque contesto possa controllare; Beit Lahia, per esempio.
Frustrati dal fallimento dei loro militari nel mantenere le promesse di sottomettere gli abitanti di Gaza, molti israeliani comuni si sono rivolti ai social media per schernire i palestinesi a modo loro. Le donne israeliane, spesso insieme ai propri figli, si vestivano in modo da trasmettere una rappresentazione razzista delle donne arabe che piangono sui corpi dei loro figli morti. Questo scherno sui social media sembra aver attinto all’immaginazione di alcuni settori della società israeliana, che ancora insistono sul loro senso di superiorità, anche se stanno pagando il prezzo della propria violenza e arroganza politica.
Questa volta, tuttavia, la politica di umiliazione di Israele si sta rivelando inefficace perché il rapporto tra palestinesi e israeliani è sul punto di essere radicalmente cambiato.
Una persona viene umiliata solo se interiorizza quell’umiliazione come un senso di vergogna e impotenza. Ma oggi i palestinesi non provano questo tipo di sentimenti. Al contrario, il loro continuo “Sumud” (Fermezza) e unità hanno generato un senso di orgoglio collettivo senza eguali nella storia.
Ramzy Baroud è un giornalista e redattore di The Palestine Chronicle. È autore di sei libri. Il suo ultimo libro, curato insieme a Ilan Pappé, è “La Nostra Visione per la Liberazione: Leader Palestinesi Coinvolti e Intellettuali Parlano”. Ramzy Baroud è un ricercatore senior non di ruolo presso il Centro per l’Islam e gli Affari Globali (CIGA), dell’Università Zaim di Istanbul (IZU).
https://www.blog-lavoroesalute.org/wp-content/uploads/2023/12/immagine-108.png446670franco.cilentifranco.cilenti2023-12-22 08:46:462023-12-22 08:46:59Come i palestinesi si stanno opponendo alla politica di umiliazione di Israele
Consapevole di correre il rischio di confermare ciò che, a proposito di dubbio e certezza, sembra (1) sostenessero Voltaire (2) e Nietzsche (3), ribadisco il personale convincimento che, nel corso degli ultimi 30/40 anni, nel nostro bistrattato Paese è stata condotta una prolungata, sottile ed efficace opera di maquillage semantico. In estrema sintesi, ritengo si possa sostenere che siano state messe in campo particolari operazioni di stampo comunicativo mimeticamente tese al servizio dell’ideologia neoliberista. Infatti, contrariamente a quanto ancora in tanti – a sinistra – credono di poter vantare, le classi dominanti del Paese sono riuscite ad affermare una vera e propria egemonia culturale coinvolgendo tanta parte di popolazione che avrebbe avuto fondati motivi per collocarsi su tutt’altro fronte. In questo senso, ciò che è accaduto appare inverosimile. Si è consolidata l’idea che la c.d. nuocesse alla società contemporanea, che l’esasperata flessibilità normativa e salariale avrebbe (finalmente) prodotto la piena occupazione e che qualsiasi livello di precarietà lavorativa e massificazione dei profitti avrebbe risposto, prima ancora (e piuttosto) che agli interessi dei datori di lavoro, a quelli dei lavoratori che altrimenti sarebbero stati destinati a patire le pene della disoccupazione. Gli stessi lavoratori ed i poveri dei Paesi occidentali sono stati irretiti e resi vittime ma, contemporaneamente, (inconsapevoli) carnefici nei confronti di enormi masse di disperati del terzo e quarto mondo, pagati con salari da fame e spesso costretti in condizioni di vera e propria schiavitù, per soddisfare la richiesta di prodotti a basso e bassissimo costo.
E’ in questo contesto, quindi, che è stato infranto il vincolo tra il concetto (nel senso del significato) e il termine (la parola) che lo comunica. L’esempio più eclatante e deleterio delle gravissime conseguenze prodotte da questa mistificazione semantica, è rappresentato dai contenuti che una volta, a differenza di quanto avviene oggi, si assegnavano al concetto di . Venivano legittimamente definite riforme quelle ad esempio negli anni ’60 e ’70, all’epoca della tanto vituperata Prima Repubblica – politicamente caratterizzati dall’unica e, direi, autentica esperienza di governo riconducibile alla formula del Centro/Sinistra – che furono in grado di determinare effetti sociali straordinari. Provvedimenti che concorsero al concreto riconoscimento di diritti costituzionali e a determinare uno stato di garanzie e tutele collettive, fino al punto di realizzare condizioni di diffusa vivibilità prima di allora inimmaginabili. I tempi e lo spazio disponibili impediscono di riportare il lungo elenco delle benefiche conseguenze realizzate attraverso il combinato disposto delle leggi di riferimento e mi limiterò, quindi, all’essenziale.
Basti ricordare gli effetti realizzati a partire dal 1962 grazie al processo di dell’energia elettrica (4) quale servizio essenziale per lo sviluppo reale del nostro Paese, capace di spezzare gli interessi consolidati dei tanti monopoli privati esistenti e, contemporaneamente, favorire una gestione più democratica dell’economia nazionale. Non meno dirompente risultò, nello stesso anno, la riforma dell’allora c.d. che, grazie alla legge 1859, del 31 dicembre, affermò un moderno concetto di equità educativa, realizzando quanto previsto dall’art. 34 della Carta costituzionale (5) ed estendendo l’obbligo scolastico fino all’età di 14 anni. Di altrettanto valore sociale e civile furono poi le riforme degli anni successivi.
A cominciare dall’approvazione delle norme sulla tutela e la dignità dei lavoratori, previste dallo , di cui alla legge 300 del 20 maggio 1970. Risale invece al 1978 quella che amo definire realizzate in Italia. Quella legge nr. 833, del 23 dicembre 1978, che consentì all’Italia di inserirsi tra le nazioni più avanzate per il livello di assistenza erogato alla popolazione: la istituzione del Servizio Sanitario Nazionale (SSN).
Un complesso di norme e disposizioni che cambiarono la vita di milioni di persone in precedenza costrette a convivere in un sistema che, in sostanza, prevedeva cittadini di serie A e B; garantiti e paria. Infatti, mentre i primi – appartenenti a una classe di eletti – erano coperti da una assicurativa che garantiva il rimborso delle cure mediche, i secondi pagavano le prestazioni di tasca propria o, se impossibilitati a farvi fronte, restavano affidati alla carità pubblica.
L’effetto della riforma fu travolgente.
L’adozione di un sistema sanitario universalistico produsse, in pochi anni, il drastico contenimento dell’indice di mortalità materna, l’altrettanto notevole riduzione della mortalità infantile – tra le più basse al mondo – e pose il nostro Paese ai vertici delle classifiche degli indicatori sanitari mondiali; con un’aspettativa di vita inferiore solo a quella dei giapponesi.
Quella sanitaria rappresentò, dunque, l’ennesima riforma tesa a garantire il più importante tra i diritti che – insieme a quelli del lavoro, dell’economia, alla sicurezza, all’istruzione e alla casa – si definiscono e tendono a rendere migliori le condizioni di vita dei cittadini. D’altra parte, è importante rilevare che quello alla salute è l’unico diritto definito dal Costituente (8). Contemporaneamente, è anche il caso di evidenziare che il combinato disposto di quanto previsto dall’art. 32 della Costituzione non esclude che le prestazioni sanitarie possano essere gratuite oppure offerte con qualche forma di partecipazione o a totale carico del beneficiario. Ciò comporta l’inevitabile conseguenza di rendere la spesa sanitaria complessiva una variabile dipendente dalle disponibilità previste dal bilancio dello Stato.
Oggi è dunque urgente porsi alcune – ineludibili – domande: il nostro SSN è ancora sostenibile? Potrà continuare ad offrire ai nostri figli e nipoti ciò che ci è stato, almeno fino ad oggi, garantito? Prima ancora, però, di abbozzare qualsiasi tipo di considerazione – rispetto allo stato e al prevedibile futuro della sanità in Italia – reputo opportuno tornare a quella che definivo la operata, nel corso degli anni, rispetto al significato del termine riforma al solo fine (recondito) di alterarne i contenuti.
Al riguardo, ribadisco che è stata svolta una sottile e subdola operazione manipolatoria attraverso la quale le peggiori espressioni della politica – in circolo vizioso con la comunità degli affari – hanno perseguito quella che l’economista francese Thomas Piketty definì “La rivoluzione conservatrice anglosassone degli anni ottanta e novanta” ed il nostro mai sufficientemente compianto Luciano Gallino, con felice ed efficace intuizione, indicò quale: “La lotta di classe contro la lotta di classe”!
Relativamente al significato distorto assegnato alle c. d. operate nel corso degli ultimi anni – da quelle del Mercato del lavoro (9) e della Legislazione(10) del lavoro a quelle previdenziali (11), fino a quelle sulla legge elettorale, sulla giustizia e sull’assetto istituzionale – è opportuno stendere un velo pietoso. Gli effetti e le nefaste conseguenze sono patrimonio collettivo. Nostro particolare interesse è, piuttosto, quello di rilevare le attuali difficoltà di funzionamento e le diseguaglianze sui territori prodotte dalle c.d. cui è stato interessato il SSN a partire dagli anni ’90.
Al riguardo, la prima ed importante testimonianza è costituita dai dati che emergono dal 6° Rapporto della Fondazione Gimbe sul SSN. L’incipit è dirompente perché il Rapporto evidenzia “una frattura strutturale Nord-Sud che sta per essere normativamente legittimata dall’autonomia differenziata”! Nel 2021 delle 14 regioni adempienti, rispetto ai livelli essenziali di assistenza sanitaria, solo 3 sono del Sud: Abruzzo, Puglia e Basilicata. E’ ormai radicata una frattura che, secondo il Rapporto, “è certificata dai dati sulla mobilità sanitaria e dai flussi economici che scorrono prevalentemente nel senso da Nord a Sud del Paese”.
Il settore è sempre più saldamente nelle mani dei privati e sempre più diseguale. Dei tre miliardi destinati al Fondo sanitario dalla recente Legge di Bilancio del governo fascioleghista, ben 600 mln. sono destinati a pagare visite specialistiche ed esami diagnostici presso strutture private convenzionate.
A ciò si aggiunga che anche dall’analisi della Corte dei Conti emerge la conferma che negli ospedali si riscontrano condizioni decisamente differenziate: alta qualità a Trento e in Emilia Romagna, ma massimo livello di uscite in Molise, con i risultati peggiori d’Italia. In Molise, Valle d’Aosta, Abruzzo e Liguria la spesa ospedaliera supera la media nazionale, ma i risultati sono modesti. Trento, Bolzano, Basilicata e Sardegna spendono più di 1.300 euro per medici di famiglia e assistenza territoriale, ma il servizio risulta migliore in Emilia Romagna, Veneto, Toscana e Lombardia con costi pro-capite inferiori. Contemporaneamente, nella stessa Toscana la sanità sta lentamente ma costantemente scivolando nell’inefficienza. Nella stessa Lombardia, che rimane fra le eccellenze sanitarie a livello specialistico, si scoprì nel 2019 che l’eccessiva spinta alla privatizzazione delle strutture e delle eccellenze mediche aveva tanto impoverito il territorio da offrire al Covid il terreno più fertile per propagarsi (12) e fare migliaia di morti.
Oltremodo sconfortante, quindi, rilevare che Meloni, intervenendo a Torino al Festival delle Regioni, nonostante l’ammissione che “siamo una Nazione nella quale i divari tra città e aree interne, tra Nord e Sud, tra costa tirrenica ed adriatica, tra pianura e montagna, sono sempre molto evidenti e, per paradosso, rischiano di aumentare” ha seraficamente dichiarato – senza preoccuparsi della palese contraddizione – che “l‘autonomia differenziata proseguirà senza stop”!
In questo quadro, l’ulteriore aggravante è costituita dal particolare che il diritto alla salute finisce con l’essere negato soprattutto alle cittadine e ai cittadini che si trovano in condizioni di difficoltà economiche. Infatti, come riportato dal 10° Rapporto sulla Povertà Sanitaria di Banco Farmaceutico, la povertà sanitaria ha ormai assunto un carattere “autoctono e quindi endemico”, che più semplicemente significa “tipico ed esclusivo di un determinato territorio”. Tra l’altro, la povertà sanitaria è la più immediata conseguenza della fragilità economica. Una condizione particolarmente odiosa che non dipende, però, solo dalle barriere economiche ma anche, per esempio, dalla geografia (territorio isolato), dalle infrastrutture (mancanza di ospedali), dalla scarsa consapevolezza (conoscenza delle strutture e delle cure disponibili) e dalla qualità dell’offerta sanitaria.
Un dato su tutti conferma una condizione di assoluta e profonda diseguaglianza nel diritto all’accesso sanitario nel nostro Paese: secondo una ricerca del 2021, una persona in condizioni di indigenza economica dispone di un budget per la salute pari a soli 10 euro al mese, mentre una persona sopra la soglia di povertà ha a disposizione ogni mese quasi sette volte tanto, ovvero 66 euro. Per quanto riguarda unicamente le risorse per l’acquisto di farmaci, un individuo fragile può stanziare ogni mese 5,85 euro mentre uno sopra la soglia quattro volte di più: 26 euro.
Lo stesso rapporto illustra situazioni che non esito a definire indegne di un Paese civile.
Si scopre, ad esempio, che negli ultimi 8 anni le famiglie fragili hanno sostenuto con le proprie risorse economiche una spesa sanitaria mensile pro-capite compresa tra 9 e 11 euro, destinando oltre il 60% delle loro risorse per la salute all’acquisto di farmaci. Le famiglie benestanti, invece, spendono in farmaci molto meno, destinando a questo capitolo di spesa solo il 39-44% della spesa generale, lasciando quindi maggior spazio all’acquisto di altri servizi sanitari. In altri termini: chi è in condizione di povertà sanitaria ricorre al farmaco molto di più che ad altri servizi sanitari, come per esempio la prevenzione e le cure specialistiche, in quanto queste ultime sono ancora meno sostenibili.
Aggiungo inoltre che recenti statistiche Istat sulle disuguaglianze che determinano le diverse cause di mortalità tra la popolazione con trenta e più anni di età mostrano anche l’influenza diretta ed indiretta del livello di istruzione. I dati raccolti dall’Istituto nazionale si riferiscono al 2019 e rappresentano un’assoluta novità. Quello che appare drammaticamente vero è che: “il livello di istruzione ha anche influenza sulla salute delle persone perché è uno dei fattori che determinano il livello di reddito”. Ciò rende ancora più plausibile sostenere che i tassi di mortalità per patologie mediche si riducono con la crescita del reddito. Ne consegue che la probabilità di morire di malattia per una persona con bassa scolarità è molto più alta di quella di un laureato.
Tra l’altro, il fenomeno della povertà sanitaria non è un’esclusiva delle famiglie indigenti. Negli ultimi quattro anni infatti la diminuzione della spesa per la prevenzione e, in certi casi, la rinuncia totale a visite mediche e accertamenti periodici di controllo preventivo (dentista, mammografie, pap-test, screening oncologici) ha riguardato una famiglia italiana su sei. Tale situazione produce poi un impatto dalle conseguenze inimmaginabili su quella parte di soggetti ancora più vulnerabili dei nostri connazionali indigenti: quei migranti extracomunitari che, come a tutti ampiamente noto, di norma già fuggono da condizioni di diffusa povertà in Paesi le cui ricchezze sono state preda di lunghe ed esose colonizzazioni europee. Rappresentano dunque un’insopportabile beffa ed un vero e proprio accanimento xenofobo i recenti provvedimenti meloniani tesi a monetizzare tanto la libertà(13) personale dei richiedenti asilo che la salute(14) di tutti coloro che non sono nostri connazionali né appartengono a un Paese dell’Unione europea.
In definitiva, come se tutto ciò non fosse già ampiamente sufficiente a descrivere una situazione a , con qualche luce ma con troppe ed insopportabili ombre, altri foschi presagi incombono sul futuro del SSN. Di conseguenza, allo scopo di ripristinare un Servizio sanitario effettivamente di carattere nazionale ed uniforme, non appaia peregrina l’ipotesi di valutare la possibilità di riportare alcune materie ritenute strategiche per l’unità del Paese – a partire proprio dalla tutela della salute collettiva – sotto la potestà esclusiva dello Stato. A questo scopo esiste già una Proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare, promossa dal “Coordinamento per la Democrazia Costituzionale”, che ha raccolto oltre 100 mila firme.
Si tratta, allora, di approntare un progetto ambizioso. Operare dal per determinare linee di indirizzo che impediscano irragionevoli e, soprattutto, ingiustificate diversificazioni territoriali dei servizi e dei livelli di assistenza. Naturalmente, appare chiaro che sarebbe sciocco pretendere un’assoluta omogenizzazione degli standard operativi in un sistema così complesso e parcellizzato come attualmente radicalizzatosi nel nostro Paese. Eppure, un punto rispetto al quale il Legislatore nazionale non dovrebbe prescindere è che il diritto alla tutela della salute rappresenta un bene comune che oggi resta fin troppo spesso colpevolmente inevaso.
Quando poi alla consapevolezza di livelli di assistenza sanitaria locale particolarmente modesta e/o inadeguata si aggiunge l’ancestrale angoscia di un pur breve soggiorno in una qualsiasi struttura ospedaliera – con i colori tristi dei reparti, la proverbiale irraggiungibilità dei Primari, la sufficienza dei medici dal gergo (volutamente?) incomprensibile, il tipico odore del disinfettante misto al quasi sempre impresentabile cibo e l’anonimo rapporto con il personale infermieristico ed ausiliario – l’acuirsi dello stato di malessere e di ulteriore prostrazione è garantito. Siamo così a un altro rilevante aspetto cui, di norma, si presta ben poca attenzione: l’esigenza di esercitarsi rispetto a un concetto di salute che non si limiti solo a considerare gli aspetti di carattere clinico ma comprenda anche la dimensione umana, affettiva e sociale del paziente di turno.
Ciò premesso e considerato sempre legittimo non smettere mai di denunciare le carenze storiche, la frequente disorganizzazione, il cattivo funzionamento, la scarsità e talvolta l’inadeguatezza di personale, mezzi e strumentazioni tecnico/operative – che concorrono a rendere l’offerta sanitaria presente sul territorio assolutamente insufficiente – considero però doveroso evidenziare che anche laddove meno ce lo si aspetta esistono eccellenze spesso ignorate. Alludo ai colpevoli silenzi dei media che prediligono la notizia dell’errore, delle peggiori forme di mala-sanità e, soprattutto, sbattere il mostro in prima pagina. Non è invece raro scoprire che la tanto bistrattata sanità pubblica talvolta si presenta con il volto di chi opera con spirito di sacrificio, alti livelli di professionalità e tanta umanità da indurci a superare la nostra fragilità e le paure che l’accompagnano.
NOTE
A Voltaire (pseudonimo di Francois-Marie Arout) ad esempio, è sempre stata erroneamente attribuita la famosa frase:“Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu possa dirlo”. “Il dubbio non è piacevole, ma la certezza è ridicola. Solo gli imbecilli sono sicuri di ciò che dicono”. “Non c’è dubbio, è la certezza che rende folli”. Legge 1643 del 6 dicembre 1962. La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. Legge 898 del 1° dicembre 1978. Comunemente si parla di tre generazioni di diritti. Altri diritti, altrettanto importanti, sono definiti soltanto . Moltiplicazione delle Tipologie contrattuali, acasualità dei rapporti di lavoro a termine, ecc. Sostanziale cancellazione del vecchio art. 18 dello Statuto e Job-act. Vedi c.d.“Legge Fornero”. Fonte: “La voce del Serchio”, del 7 agosto 2022. I richiedenti asilo provenienti da Paesi extra Ue dovranno versare una cauzione pari a 4.938 euro per evitare di essere rinchiusi in un CPR in attesa dell’esito della loro domanda. Per i residenti stranieri, cittadini non aderenti all’Ue, si prevede la possibilità di iscriversi al SSN previo contributo di euro 2.000 annui. “La mia disperazione dice: abbandonati allo sconforto, perché il giorno è racchiuso tra due notti. la falsa consolazione urla: spera, perché la notte è racchiusa tra due giorni” (Stig Dagerman, poeta e scrittore svedese). Da Pangloss, personaggio del “Candido” (di Voltaire) secondo il quale tutto volge al meglio, a dispetto dei più atroci impedimenti e crede di vivere nel migliore dei mondi possibili.
Renato Fioretti
Esperto Diritti del Lavoro. Collaboratore redazionale di Lavoro e Salute
https://www.blog-lavoroesalute.org/wp-content/uploads/2023/12/sanita8-ridotto.jpg109223franco.cilentifranco.cilenti2023-12-21 08:05:362023-12-21 10:21:02Il Paese della sanità al macero. Ecco come è stata regalata al privato
Il 31 dicembre scadono i contratti di duemila tra medici infermieri e oss. La Regione latita, i lavoratori rischiano di rimanere senza occupazione e i cittadini senza servizi
Sono duemila operatori e operatrici sanitari, medici infermieri, ostetriche, operatori socio sanitari, amministrativi, sono uomini e donne il cui destino è appeso davvero a un filo, il loro contratto con la sanità pubblica del Lazio scade il prossimo 31 dicembre ma ad oggi la Regione non scioglie la riserva alla loro assunzione in via definitiva. Eppure non solo c’è in ballo il destino di lavoratori e lavoratrici e già questo sarebbe sufficiente. Ma in gioco c’è anche la possibilità dei cittadini e delle cittadine di ottenere i servizi necessari alla loro salute. Ed è bene ricordare che la sanità laziale è assai sotto organico, anche con la presenza di questi duemila operatrici e operatori non riesce a garantire i servizi necessari e dovuti.
Fumata nera
Il 19 dicembre, su richiesta delle organizzazioni sindacali, c’è stato un incontro in Regione, la richiesta delle categorie dei lavoratori pubblici di Cgil Cisl e Uil era netta e semplice: rinnovare per 6 mesi i contratti a tempo determinato per avere il margine di organizzare secondo le necessità delle diverse strutture, l’assunzione definitiva del personale. La Regione ha detto no, sostenendo che una parte del personale, ricordiamo la gran parte dei 2000 è stata assunta durante l’emergenza pandemica, sarebbe in esubero.
Mentono sapendo di mentire
“Ma quale esubero – afferma Giancarlo Cenciarelli segretario generale della Fp Cgil di Roma e Lazio – secondo Agenas la Regione Lazio, nel 2022, è sotto il tetto di spesa per il personale di quasi 400 milioni equivale a circa 7000 unità di personale, se va bene nel 2023 ne sono stati assunti 500 quindi i margini economici per le assunzioni ci sono eccome”. Non solo, il Servizio Sanitario regionale è in carenza storica di personale tanto è vero che la Regione continua a “comprare” posti letto nel privato invece che riaprire reparti negli ospedali pubblici chiusi recentemente.
Privatizzazione della sanità laziale
È questa la preoccupazione del dirigente sindacale, basta un esempio su tutti. Con la scusa dell’incendio all’Ospedale di Tivoli si sono comprati circa 170 posti letto nel privato. Peccato che l’Ospedale di Tivoli ha come bacino di utenza la Valle dell’Aniene lungo la Tiburtina nella zona nord est della capitale e i posti letto privati si siano comprati nella provincia di Latina e dagli Angelucci a Velletri lungo l’Appia. “La scelta di Rocca è chiara, aggiunge il segretario della Fp Cgil, privatizzazione della sanità. A marzo – aggiunge – si sono spesi 24 milioni di euro per 400 posti letto in strutture convenzionate invece che riaprire reparti in ospedali pubblici chiusi magari proprio per mancanza di personale”.
Licenziare o riorganizzare?
Se la “scusa” per non stabilizzare il personale sanitario è che in alcuni ospedali, un certo numero di loro è in esubero, basterebbe – dicono i sindacati – spostarli in altre strutture che, invece, registrano carenze di personale. Anche a questa proposta la Regione ha detto no. “Per noi la priorità è la stabilizzazione del personale, non la collocazione nelle strutture dove oggi operano. Nonostante questo abbiamo dovuto registrare una chiusura totale”, spiega ancora Cenciarelli, che non può che registrare che da un lato si chiudono reparti nel pubblico dall’altro si aggiungono letti nel privato. Non solo, i dati sul numero dei posti letto disponibili nelle strutture pubbliche, a detta dello stesso direttore della Direzione Sanità della Regione, fornito dall’Agenas non corrisponde alla realtà perché in diversi ospedali – a causa di carenze strutturali o di personale – i posti realmente disponibili sono meno.
Un gioco dell’oca
Si continua a tornare alla casella di partenza: non si stabilizza il personale perché nelle strutture dove attualmente sono impiegati alcuni si dice siano di troppo, in altre strutture si chiudono reparti e ambulatori per carenza di personale, la riabilitazione è quasi tutta in capo al privato e la sanità di territorio è quasi inesistente. Mentre le liste di attesa non solo non si riducono, ma si gonfiano e troppo spesso cittadini e cittadine sono costretti a metter mano al portafogli o a non curarsi.
Chi paga il conto
“Innanzitutto – afferma Cenciarelli – i professionisti della sanità. I precari che dal 1 gennaio prossimo rischiano di non aver più lavoro, quelli in servizio su cui si scarica un carico di lavoro quasi insostenibile. E poi i cittadini e le cittadini che non ricevono i servizi di cui avrebbero bisogno. E il governo regionale latita. “Per noi è inaccettabile, non solo perché è nostro compito tutelare lavoratori e lavoratrici, ma anche perché il diritto alla salute deve essere esigibile e l’unico modo per renderlo tale è salvare e potenziare il servizio sanitario pubblico e universale”. Che fare? È semplice, a spiegare è ancora il segretario della Fp: “Ci siamo dati nuovamente appuntamento per il 28 dicembre, il direttore generale dovrebbe portarci i numeri del fabbisogno di personale regionale per procedere ad una riorganizzazione dei servizi. Qualora non avremo le risposte che ci aspettiamo non ci rimarrà altro che passare il capodanno in presidio davanti alla sede della Regione”.
https://www.blog-lavoroesalute.org/wp-content/uploads/2023/12/copia-di-3454562_135842662-ac02f73b-e964-450e-b907-94edba935eb2-jpg.webp360640franco.cilentifranco.cilenti2023-12-21 07:54:422023-12-21 16:04:32Lazio, precari della sanità in bilico
Da dieci anni i Comuni e Consorzi socio-assistenziali del Piemonte non applicano l’Isee (l’Indicatore della situazione economica equivalente, definito per legge secondo criteri che sono Livello essenziale delle prestazioni) per integrare le rette alberghiere di persone con grave disabilità e malati non autosufficienti ricoverati. Ciò determina una condizione di sfavore per gli utenti dei servizi socio-sanitari – Comunità alloggio, Residenze sanitarie assistenziali, altri servizi residenziali a compartecipazione dell’utente – che si vedono addebitata illegittimamente una parte della retta.
Il mastodontico ammontare di questa ingiustizia è quantificata dagli stessi Comuni: persone con disabilità e malate, e le loro famiglie, pagano ogni anno ben 30 milioni di euro in più di quello che la legge nazionale prevede. Il pagamento di tale cifra è di competenza degli enti pubblici, ma com’è che questo macigno di risorse si scarica sulle tasche degli utenti e dei loro cari? Mentre i provvedimenti che definiscono l’Isee (dpcm 159/2013 e legge 89/2016) e numerose sentenze di tribunali ordinari e amministrativi, fino al Consiglio di Stato) vietano di conteggiare l’indennità di accompagnamento Inps e la pensione di invalidità come «reddito disponibile» per pagare la retta dei servizi, i Comuni e i Consorzi piemontesi lo fanno: contano indennità e pensione di invalidità degli utenti come cifre interamente destinate a pagare la retta alberghiera dei servizi.
La combattuta questione della mancata applicazione dell’Isee nazionale per la compartecipazione di anziani malati e disabili gravi alle rette alberghiere dei servizi socio-sanitari residenziali ha compiuto dieci anni nel corso del 2023 e conta in Piemonte ormai dieci deroghe regionali all’applicazione della legge nazionale: un pericoloso e reiterato precedente giuridico a danno dei più deboli. Ad opporsi a questa ingiustizia sono – da sole – le associazioni Utim e Ulces, componenti del Csa (Coordinamento sanità e assistenza), che operano con consulenze sui casi singoli, resistenza rispetto alle richieste di pagamento illegittimo e ricorsi alla magistratura amministrativa sulle delibere che procrastinano la corretta applicazione dell’Isee. Un po’ di chiarezza sui punti fondamentali della questione serve per smontare i falsi argomenti di chi con essi pretende di non applicare una legge.
Primo. L’indennità di accompagnamento Inps (527,18 euro al mese) viene corrisposta non per «pagare rette» o «provvedere alle spese di assistenza», ma «al solo titolo della minorazione», cioè per solo il fatto che il beneficiario ha una certa disabilità che non gli permette di camminare o di svolgere le attività elementari della vita quotidiana. Come avviene con le indennità (non a caso, stesso nome) per gli infortuni sul lavoro, la somma forfettaria riequilibra, nelle intenzioni del legislatore, la condizione di svantaggio della persona con disabilità rispetto agli altri cittadini. Perciò, l’esclusione dell’indennità dalle somme conteggiabili per il pagamento della retta, ha una sua logica, che Comuni e Consorzi non vogliono rispettare perché i dirigenti dei servizi deputati sono in massima parte sostenitori di un pregiudizio negativo nei confronti degli utenti e delle loro famiglie («si arricchiscono con l’indennità e la pensione») e di uno positivo sul ruolo degli assistenti sociali come unici depositari del «bene» degli utenti. Pregiudizio quest’ultimo smentito dal generale e diffusissimo giudizio negativo degli utenti sugli operatori sociali di Comuni e Consorzi socio-assistenziali.
Secondo. Come anticipato in apertura, l’Isee dal 2013 è diventato livello essenziale delle prestazioni, da applicarsi in modo omogeneo sul territorio nazionale. Ecco perché non possono esserci condizioni diverse dettate dai Comuni o dai Consorzi. Per determinare chi paga la retta alberghiera, gli enti locali sono tenuti ad applicare lo strumento Isee da prendere così com’è, senza stravolgimenti. Non è quello che accade, tutt’altro: i regolamenti comunali penalizzano gli utenti, caricando su di loro e sulle loro famiglie cifre ingenti, spesso insostenibili.
Terzo. I soldi per applicare la norma Isee nazionale, non conteggiando indennità e pensione di invalidità per il pagamento della retta, ci sono. Secondo le stime dei Comuni, ci vorrebbero 30 milioni di euro (18 solo per Torino). Poiché si tratta di un livello essenziale delle prestazioni, cioè di una prestazione che l’ente pubblico «deve» erogare, quelle corrispondenti sono le uniche risorse certe che il Governo e la Regione trasferiscono ai Comuni (senza parlare degli oltre 60 milioni del Fondo non autosufficienze). La resistenza degli Enti locali all’applicazione della legge è dovuta al fatto che essi impiegano parti consistenti del budget che viene loro trasferito per svolgere attività discrezionali, non vincolate a obblighi di legge nazionale. Si tratta di iniziative che sottraggono risorse all’applicazione dell’Isee: più che l’evidenza di una impossibilità, il mancato stanziamento dei fondi per le rette alberghiere nei bilanci di Comuni e Consorzi è il segno di una cattiva amministrazione, che contava (e conta ancora) sulla mancata reazione di anziani e disabili in carico ai servizi socio-sanitari all’ingiusto conteggio della retta a loro carico.
La paradossale vicenda dell’Isee in Piemonte, in cui un pezzo dello Stato – i Comuni e in buona parte anche la Regione – violano palesemente una legge statale, dovrebbe essere percepita come di tale gravità da mettere in allarme chiunque sia interessato a difendere le istituzioni nazionali e la tenuta della democrazia stessa. La violazione di tale norma a sfavore di persone con disabilità e anziani malati dà la misura di quanto gli utenti dei servizi socio-sanitari siano i più dimenticati dalla politica e dalle istituzioni. Ve l’immaginate un provvedimento comunale o regionale che, ad esempio, penalizzi le donne vittime di violenza, sospendendo l’applicazione di una norma nazionale più tutelante? O un provvedimento locale che annulli le garanzie di accesso ai diritti fondamentali delle persone riconosciute rifugiati per motivi umanitari? Certa parte politica griderebbe – e giustamente! – allo scandalo e al sovvertimento dei principi democratici, segnalando che un ente locale con un atto amministrativo non può annullare gli effetti di una legge. Ma la stessa parte politica, insieme a tutto l’arco costituzionale, non trova nulla da ridire sulla disapplicazione dell’Isee in Piemonte per disabili e vecchi malati e anzi, conferma – fatto gravissimo! – che la norma nazionale non si applicherà, mentre ne chiede ufficialmente la modifica in senso peggiorativo per gli utenti (si veda la lettera del Coordinamento Enti Gestori alla Regione Piemonte del 7 luglio 2023 e seguenti comunicazioni dell’Anci Piemonte). Tutto bene?
https://www.blog-lavoroesalute.org/wp-content/uploads/2023/12/immagine-106.png215348franco.cilentifranco.cilenti2023-12-21 07:46:542023-12-21 07:46:56Piemonte. La tutela dimezzata di persone con disabilità e anziani malati
A dicembre 2023 il Contatore di Ossigeno ha superato quota settemila giornalisti minacciati, di cui 500 conteggiati nel corso del 2023 (il 24% donne, di cui il 10% bersaglio di minacce di genere).
L’Italia è il paese con più giornalisti minacciati, dicono questi dati raccolti e verificati da Ossigeno per l’Informazione, l’Osservatorio nato per documentare e analizzare il crescendo di intimidazioni e minacce nei confronti dei giornalisti italiani, in particolare contro i cronisti impegnati in prima linea nelle regioni del Mezzogiorno. Dati dicono che in Italia quello delle minacce ai giornalisti è un grande problema irrisolto che meriterebbe molta più attenzione e adeguate soluzioni.
Il Contatore di Ossigeno aumenta di una unità per ogni giornalista minacciato rilevato dall’Osservatorio. È partito da zero nel 2006, l’anno in cui Ossigeno per l’informazione, colmando una lacuna allora avvertita ancor meno di oggi, ha iniziato osservare con continuità il fenomeno delle minacce ai giornalisti, ha cominciato a rilevare, censire, verificare e pubblicare notizie e dati su queste gravi violazioni della libertà di stampa e del diritto di informazione codificato dall’Articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo.
Per vincere l’incredulità generale, in questi anni Ossigeno ha pubblicato uno per uno il nome e la storia di ognuno dei giornalisti colpiti da violazioni che oscurano importanti notizie di interesse pubblico e allo stesso tempo causano gravi difficoltà ai giornalisti e agli altri operatori dei media, scoraggiando la pubblicazione di informazioni scomode per il potere e i potenti.
Il Contatore, che è pubblicato in evidenza sulla homepage del sito dell’Osservatorio è la fonte più completa e attendibile per valutare l’andamento del fenomeno delle minacce ai giornalisti in Italia. È la fonte di riferimento per numerose istituzioni nazionali e internazionali. Da ultimo è stato aggiornato il 18 dicembre 2023 e comprende anche i dati del 2023 rilevati fino a quel giorno.
I DATI DEL 2023
Da gennaio a dicembre di quest’anno sono stati rilevati 186 episodi di intimidazioni e minacce nei confronti di 500 operatori dei media (giornalisti, blogger, video-operatori), di cui il 24% è costituito da donne, colpite per il 10% da minacce di genere.
Rispetto al 2022, Ossigeno ha censito meno minacciati: erano stati 721 l’anno scorso. Non significa che la situazione è migliorata, perché come già rilevato nel rapporto del primo semestre di quest’anno (leggi qui), nel 2023 l’Osservatorio ha operato con meno risorse e quindi mettendo al lavoro meno osservatori. Secondo l’analisi di Ossigeno, nel 2023 il fenomeno delle intimidazioni contro chi divulga notizie di interesse pubblico è rimasto un grande problema irrisolto, con una incidenza non inferiore a quella dell’anno precedente e con lo stesso andamento preoccupante già evidenziato da Ossigeno e confermato dai dati del Ministero dell’Interno: il calo delle denunce da parte dei giornalisti colpiti da minacce e intimidazioni. Anche nel 2023 molti giornalisti hanno taciuto le violenze e gli abusi che hanno subito e hanno rinunciato a denunciarle, per paura di subire ulteriori danni, per timore di essere isolati, per scarsa fiducia nelle istituzioni di fronte al continuo rinvio delle contromisure.
Genere delle vittime
1°genn-18 dic 2023
1°genn-31 dic 2022
uomini
76%
75%
donne
24%
25%
totale
500
721
Nel 2023 Ossigeno, sia pure con risorse più limitate del 2022, ha potuto effettuare 131 verifiche approfondite che hanno permesso di certificare minacce e intimidazioni nei confronti di 186 giornalisti. Le verifiche sono state fatte applicando il Metodo consolidato che fornisce oltre 50 indicatori e implica un complesso lavoro redazionale di fact-checking (leggi qui). Altri 55 casi rilevati dall’Osservatorio sono stati segnalati come probabili intimidazioni, cioè come episodi sui quali l’Osservatorio ha potuto raccogliere dati non sufficienti per dichiarali certificati. (Leggi: Probabili intimidazioni da luglio a dicembre 2023; Probabili intimidazioni da gennaio a giugno 2023).
GENNAIO-DICEMBRE 2023 (dati aggiornati al 18/12/2023)
episodi
Giornalisti minacciati
probabili
55
181
certificati
131
319
tot
186
500
CHI MINACCIA E IN CHE MODO
I dettagli di seguito riportati sono stati ricavati in relazione ai 319 minacciati in 131 episodi di violazione alla libertà di stampa certificati in modo approfondito.
TIPOLOGIA ATTACCHI
Il 36% ha subito forme di avvertimenti, soprattutto insulti, minacce verbali e attacchi sui social; il 34% è stato vittima di abusi di azioni legali, soprattutto querele temerarie; il 13% aggressioni fisiche; l’11% forma di ostacolato accesso all’informazione; infine, il 5% danneggiamenti all’attrezzatura di lavoro.
Gen-Dic 2023 | Tipologia minacce
minacciati
% minacciati
Aggressioni
42
13,17%
avvertimenti
116
36,36%
azioni legali
108
33,86%
danneggiamenti
16
5,02%
ostacolato accesso informazione
37
11,60%
tot
319
100,00%
PROVENIENZA MINACCE
La maggior parte delle minacce è di origine sociale, privati cittadini soprattutto (37%); gli esponenti pubblici sono coloro che nel 29% dei casi rivolge minacce ai cronisti. In particolare, oltre la metà degli episodi di abuso di denunce e azioni legali proviene da amministratori locali o esponenti politici nazionali. La matrice mafiosa o di altri ambienti criminali corrisponde al 13% dei casi. Seguono, parimenti al 7%, la provenienza sconosciuta, come nel caso delle lettere intimidatorie e le minacce dal mondo imprenditoriale. Infine, si attestano al 3% le minacce che derivano dal mondo editoriale e mediatico.
Gen-Dic 2023 – Provenienza attacchi
episodi
%
sociale
49
37,40%
pubblico
38
29,01%
criminale
17
12,98%
sconosciuto
14
10,69%
mediatico
4
3,05%
imprenditoriale
9
6,87%
tot
319
100,00%
DOVE AVVENGONO LE MINACCE
Rispetto alla distribuzione geografica, il Lazio è la regione con il più alto numero di minacciati (31% rispetto al totale), dato che conferma la tendenza degli ultimi anni. Seguono la Sicilia (16%) e la Campania (14%).
https://www.blog-lavoroesalute.org/wp-content/uploads/2023/01/censura.jpg204247franco.cilentifranco.cilenti2023-12-21 07:09:362023-12-21 07:09:38Minacce ai giornalisti, l’Italia il paese che ne soffre di più
Si celebra in questi giorni il 75esimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani ma in Italia le forze di governo propongono un disegno di legge, il cosiddetto “pacchetto sicurezza”, contente norme che si pongono al di fuori dei principi propugnati dalla dichiarazione stessa. Per questo, un vastissimo arcipelago di associazioni e organizzazioni della società civile lancia un appello ai parlamentari affinché il pacchetto sicurezza non venga adottato.
Ancora una volta si risponde a problemi derivanti da esclusione sociale, diritti negati, fragilità con provvedimenti punitivi e di ordine pubblico anziché con adeguati interventi sociali, economici, educativi: “Il testo – è la denuncia – prevede la creazione di nuove fattispecie di reati nonché l’aumento significativo di sanzioni penali e pecuniarie per condotte delittuose già previste dal nostro ordinamento”. Sono presenti nel DDL, inoltre, provvedimenti atti a reprimere legittime manifestazioni di dissenso.
Tra i principi che ispirarono la Dichiarazione del 1948 “ci sono la non-discriminazione e la proporzionalità delle pene – afferma l’appello – buona parte di quanto contenuto nello schema governativo rappresenta, invece, una grave violazione dello spirito della Dichiarazione universale e della lettera dei Patti internazionali sui diritti umani che l’Italia ha ratificato oltre mezzo secolo fa”. Le associazioni, nel rivendicare il loro decennale impegno per la tutela dei diritti umani e della dignità dei più fragili e degli esclusi, chiedono, dunque, alle forze presenti in Parlamento di votare contro “queste norme, inemendabili, contrarie ai diritti umani e ai principi costituzionali; manifestiamo da subito –si legge ancora nel testo– la nostra disponibilità a un confronto prima e durante il dibattito parlamentare”.
La LILA, tra le realtà promotrici del documento, invita tuttə a diffonderlo, ad aderire e a sottoscriverloaccedendo a questo link, dove potrete leggere anche il testo integrale dell’appello.
Le organizzazioni promotrici
L24marzo Onlus, Arci aps, Associazione Antigone, Associazione Comunità il gabbiano odv, Associazione Comunità San Benedetto al Porto, Associazione Luca Coscioni, CGIL, Ci siamo anche noi, Cittadinanzattiva Aps, Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza – CNCA, Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, Dedalus, cooperativa Sociale, Encod Italia, Famiglie in rete, Fondazione Gruppo Abele onlus, Forum Droghe, Forum per il Diritto alla Salute, Itardd aps, L’Isola di arran ODV, la Società della Ragione, LILA – Lega Italiana per la Lotta contro l’AIDS, Loscarcere Odv , Lunaria, Medicina Democratica ETS, Meglio Legale, Rete degli Studenti Medi , Ristretti Orizzonti, Sapereplurale APS Torino, Sbarre di Zucchero , Sbilanciamoci, Società Informazione – Diritti Globali Onlus, Ufficio Garante Comune Livorno, Un Filo Rosso
https://www.blog-lavoroesalute.org/wp-content/uploads/2023/12/decreto-sicurezza_immagine.png30005334franco.cilentifranco.cilenti2023-12-21 07:02:522023-12-21 07:02:54No al pacchetto sicurezza del governo, appello delle associazioni e della società civile ai parlamentari affinché non lo approvino: “Viola la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani”
Gonnella di Antigone. Parla il presidente dell’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale: “Garantirà solo i ricchi che si proteggono dagli altri, si potrà perseguire chi, come i giovani ambientalisti di Ultima generazione, fanno protesta sociale. Palazzo Chigi solletica l’emotività delle persone, ma nei fatti il cittadino comune vittima di un delitto violento sarà meno protetto di chi veste una divisa; il disegno di legge, inoltre, prevede norme simbolo dal brutto sapore etnico razzista. Con Anpi e altre associazioni va praticata un’advocacy politica”
Patrizio Gonnella dal 2005 è presidente di Antigone, l’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale. In questi 18 anni ha visto da parte del sistema politico – anche quando ha governato la sinistra – scarsa attenzione alla realtà carceraria. Qualche go, moltissimi stop verrebbe da dire. Ma ora che la destra si è insediata a palazzo Chigi, Gonnella registra un pericoloso salto all’indietro: pulsioni autoritarie e populismo d’accatto sono la cifra del governo targato Giorgia Meloni. L’idea punitiva e repressiva di cui la destra è portatrice travalica i confini delle carceri, investe con forza la società. Ne sono un esempio macroscopico i diversi pacchetti sicurezza licenziati dall’esecutivo. L’ultimo ddl poche settimane fa: un insieme di norme, strombazzate come risolutive, che da una parte colpiscono i reati minori commessi da immigrati e rom e, dall’altra, hanno l’obiettivo di criminalizzare il conflitto sociale. Non cercate in questo ddl fascistoide che ripiomba il Paese nel codice Rocco, norme che puniscano l’abuso d’ufficio, la corruzione e la concussione, questi sì reati che avvelenano davvero il Paese e lo rendono insicuro. Semplicemente non ci sono. Questo è un disegno di legge contro i poveri cristi.
Gonnella che differenza c’è tra sicurezza e securitario? Il disegno di legge del governo – di cui la presidente del Consiglio si è detta “orgogliosa” – cosa c’entra con la sicurezza? Per la mostruosità giuridica partorita da palazzo Chigi non credi che il termine più esatto sarebbe “pacchetto paura” o “pacchetto razzismo”? Tra “sicurezza” e “securitario” c’è una differenza notevole. Sicurezza è qualcosa che ha a che fare anche con la libertà, nel senso che ciascuno di noi non potrà mai usufruire appieno delle proprie libertà se non facendolo in sicurezza. Quindi una nozione che ha a che fare con le libertà di tutti, con la libertà reciproca. La sicurezza, così come l’abbiamo conosciuta ed è costituzionalmente declinata, non è necessariamente da intendersi come qualcosa che ha a che fare con le misure di polizia ma è sicurezza sociale, è sicurezza profonda, è sicurezza di vita, è sicurezza sul lavoro… Ecco, noi dobbiamo imparare a tornare al passato e a ri-declinare la sicurezza in senso ampio, plurale e democratico.
Il securitarismo invece? È una declinazione molto semplice e molto pericolosa: vuole rassicurare attraverso misure pensate per l’ordine pubblico. Diventa in questo modo solo la sicurezza dei ricchi che si proteggono dagli altri. L’ultimo “pacchetto sicurezza” del governo segue a tante altre misure che hanno a che fare con la questione migranti. Ogni due mesi un provvedimento! Sembra una strategia diretta a capitalizzare il consenso, perché si tratta delle misure che hanno a che fare con l’emotività delle persone e quindi si cerca in questo modo di costruire quella democrazia di tipo consensuale che poco ha a che fare con la storia nobile della nostra democrazia costituzionale. Paura e razzismo, soprattutto, e anche ingiustizia sociale. Perché le misure del disegno di legge che andrà in discussione in Parlamento includono la criminalizzazione dei comportamenti sociali e del dissenso. Si pensi, ma è solo un esempio, ai blocchi stradali e ai ragazzi di “Ultima generazione” che in questo modo vedono completamente trasformata in azione penalmente rilevante quella che è una loro protesta sociale. Per non parlare poi delle misure penali dirette ad aumentare il numero di anni di carcere per chi commette reati contro le forze di polizia. Siamo ai classici due pesi e due misure: il cittadino comune che subisce un delitto violento sarà protetto meno rispetto a chi è invece veste una divisa.
Nel ddl vi sono anche misure tendenti a impedire alle donne rom che aspettano un bambino di poter portare avanti la gravidanza fuori dal carcere, in regime controllato. La norma che prevede che le donne in stato di gravidanza siano non necessariamente fuori quando aspettano un bambino ma che contempla, invece, il loro potenziale ingresso in luoghi carcerari come sono le “custodie attenuate” è un precetto vessatorio pensato per una decina di donne rom. È una norma manifesto, una norma simbolo che ha un brutto sapore di tipo etnico razzista.
L’introduzione del nuovo reato di rivolta carceraria farebbe inorridire Cesare Beccaria, il padre Dei delitti e delle pene, pamphlet che oltre due secoli e mezzo dopo la pubblicazione resta, purtroppo, in Italia di drammatica attualità. Il nuovo reato di rivolta carceraria che punisce fino a 8 anni di carcere non solo chi protesta con violenza ma anche chi pratica la resistenza passiva, e quindi in modo non violento, ci fa piombare nuovamente al carcere dell’obbedienza, dove i detenuti dovevano passeggiare rasente il muro e parlare a voce bassa ed era loro vietato porre domande o fare reclami collettivi. Abbiamo bisogno da questo punto di vista di qualcuno che ricordi al governo che la modernità penitenziaria è altro e non si costruisce certo attraverso un ordine repressivo ma con una vita comunitaria spiegata alle persone. Tutti gli studiosi di pedagogia potrebbero essere buoni testimoni di questo modello.
Il carcere immaginato dalla destra che siede a palazzo Chigi smette di essere il luogo della possibile rieducazione del condannato, diventa un italianissimo arcipelago gulag. Se è tragicamente vero che per anni in carcere non è entrata la Costituzione e l’idea che la pena dovesse essere rieducativa è rimasta spesso lettera morta, con l’introduzione del reato di rivolta carceraria non si farebbe di più e di peggio, tornando alle norme dell’Italia fascista? Sì. Nonostante la nostra Carta costituzionale in modo inequivoco affermi che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso dell’umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato, purtroppo in realtà questo è un po’ un mito che stenta a trovare forma e ultimamente – anche per pressione da parte delle organizzazioni sindacali di polizia, quelle autonome in particolare – stiamo osservando retromarce rispetto a un modello punitivo moderno e al tentativo di innovare il sistema penitenziario e di aprirlo al territorio. C’è un mantra “chiudere, chiudere, chiudere”. È ovviamente un mantra incostituzionale perché la funzione educativa della pena non si persegue tenendo un detenuto 20-22 ore chiuso in celle sovraffollate. Siamo oggi a 60.000 detenuti, circa 10.000 in più rispetto ai posti letto regolamentari e tutto questo è incompatibile con quella nobile funzione di reintegrazione sociale che la pena dovrebbe avere grazie alla intuizione dei nostri costituenti.
Cosa diventeranno le carceri se questo pacchetto dovesse essere approvato così come è stato scritto? E quanto si riempiranno di poveri o di dissenzienti? Le carceri sono già piene di disgraziati. Non sappiamo se si riempiranno anche di dissenzienti. Chi sono i disgraziati? In primo luogo i tossicodipendenti: un quarto dei detenuti oggi è tossicodipendente. Seguono gli immigrati che hanno fallito nel percorso di integrazione per cause non sempre da loro dipendenti. Circa un terzo della popolazione detenuta è migrante. E poi persone con problemi psichiatrici, non necessariamente con malattia ma con disagio psichiatrico. C’è un consumo stratosferico di psicofarmaci all’interno delle carceri italiane, abusi tendenti sostanzialmente a gestire farmacologicamente la fatica di sopportare il carcere sovraffollato. E infine ci sono i poveri: andiamo in un carcere metropolitano, a Roma, Milano, Bari, Bologna e troveremo la marginalità sociale incarcerata. Questo è il fallimento nella nostra società, il fallimento del welfare. E il carcere non può essere l’ultima frontiera del welfare perché non può fare e non riuscirà mai a fare nelle condizioni in cui versa quello che il fuori non è riuscito a fare prima.
Il pacchetto sicurezza affastella insieme i reati più diversi senza nessuna logica apparente. L’unico elemento che tiene assieme il tutto è da una parte il marketing politico su “legge e ordine”, che combacia con la triade “dio, patria e famiglia”, dall’altra la repressione generalizzata, l’idea di affermare de facto uno stato di polizia. Quali sono, a tuo avviso, i punti che presentano il più altro profilo di incostituzionalità? Molti punti presentano profili dubbi di legittimità costituzionale, per esempio, come dicevo, la norma intorno alla rivolta penitenziaria, perché si va a criminalizzare la mera disobbedienza e soprattutto con un trattamento penale indifferenziato nonostante la offensività palesemente differente dei comportamenti del detenuto disobbediente. Un conto è reagire con la violenza, un conto con la resistenza passiva: metterle sullo stesso piano viola sicuramente quei principi di ragionevolezza che la Corte costituzionale ha più volte messo in campo. Ma a violare quei principi di proporzionalità e di ragionevolezza sono anche le norme che introducono illeciti penali e aumenti di pene per i blocchi stradali. Vorrei richiamare l’attenzione su un punto: proteggere fino in fondo la libertà di manifestazione del pensiero, anche nelle forme che a volte sono per noi più fastidiose, più antipatiche, è una grande conquista della democrazia contemporanea che noi dobbiamo assolutamente preservare. Ecco perché in questo momento occorre che vi sia da parte delle forze politiche, di maggioranza e opposizione, consapevolezza che non si può strattonare la legge penale fino al punto da renderla così stridente con quello che è il buon senso costituzionale.
Forse è un paragone azzardato, ma non credi che il Salvini che precetta i lavoratori e attacca frontalmente il diritto di sciopero fa il paio col pugno di ferro contro i blocchi stradali, o l’occupazione delle case? Non è avventato dire che tutte le misure che si stanno prendendo contro coloro che protestano per i loro diritti sono misure che vogliono criminalizzare quella forma di dissenso organizzato che storicamente noi proteggiamo attraverso il diritto di sciopero e il diritto di manifestazione sindacale. Occorre reagire.
Come? Intanto andando a spiegare nelle scuole, nelle università, nei luoghi di lavoro, fra la gente, che noi dobbiamo proteggerle queste nostre libertà, anche quelle che possono un poco dar fastidio agli altri, perché da questo dipende la tenuta democratica del Paese.
L’Anpi ha fatto proprio l’appello dei garanti delle persone private della libertà affinché il Parlamento modifichi strutturalmente il “pacchetto sicurezza”. Mission impossible, visti i rapporti di forza alla Camera e al Senato? Il governo gode di una maggioranza granitica e ha numeri così alti da rendere impossibile uno stravolgimento delle posizioni in campo. Ma il punto critico è anche un altro e riguarda il campo del centrosinistra. Ricordo che i pacchetti sicurezza hanno un’origine antica e non è solo un’origine di destra. È accaduto nel passato e accade ancora. Quando è stato approvato il decreto Caivano che ha fortemente inciso negativamente sulla carcerazione dei minori, aumentando la possibilità che vadano a finire dietro le sbarre – misura antipedagogica e antimoderna che costruirà carriere recidivanti – ci sono stati partiti dell’opposizione che si sono astenuti. Non tutti hanno votato contro: il Pd ha votato contro, Sinistra italiana-Verdi hanno votato contro ma gli altri si sono astenuti. E questo non va bene. Che fare allora? Penso che oggi l’Anpi, Antigone, i garanti, dobbiamo tutti insieme fare un immenso lavoro educativo sulle nuove generazioni, un’advocacy politica insomma, per costruire una politica sociale ed economica nuova che contrasti e sconfigga le incrostazioni autoritarie e liberticide che rischiano di soffocare il Paese.
Ginevra-PIC. Testimonianze scioccanti ricevute dall’Euro-Med Human Rights Monitor hanno rivelato che l’esercito israeliano ha effettuato esecuzioni sul campo di civili durante gli attacchi contro le case palestinesi nelle aree di incursione terrestre della Striscia di Gaza.
L’Euro-Med Monitor ha affermato di aver ottenuto testimonianze scioccanti di forze dell’esercito israeliano che hanno fatto irruzione nella casa della famiglia Anan nel centro della città di Gaza, martedì 19 dicembre. Poi hanno aperto il fuoco contro i giovani all’interno della casa senza alcuna ragione apparente o resistenza e hanno radunato le donne in un’unica stanza prima di lanciare dei missili, ferendone alcune.
Secondo le informazioni preliminari ricevute dall’Euro-Med Monitor, 13 membri della famiglia Anan e i loro suoceri sfollati, le famiglie Al-Ashi e Al-Sharafa, sono stati uccisi dal fuoco israeliano, mentre altri membri della famiglia sono ancora in condizione critica. I soldati hanno portato via anche un uomo anziano, la cui sorte è tuttora sconosciuta.
27 donne e bambini sono intrappolati nella casa, molti dei quali hanno ferite gravi o amputazioni, e hanno lanciato un appello al Comitato internazionale della Croce Rossa affinché coordini la loro evacuazione e salvi le loro vite.
Un parente delle vittime ha detto all’Euro-Med Monitor: “Mia sorella mi ha informato che l’esercito israeliano ha fatto irruzione in casa e ha giustiziato i giovani. Tredici persone sono state uccise a colpi di arma da fuoco e molte altre sono rimaste gravemente ferite. I soldati israeliani hanno poi lanciato proiettili contro le donne, che erano detenute in una delle stanze. Mia madre, mia sorella e la moglie di mio fratello sono rimaste ferite insieme a molte altre persone. Se non vengono salvati subito, potrebbero morire in qualsiasi momento”.
Euro-Med ha confermato di aver ricevuto ripetute testimonianze sulle atrocità commesse dalle forze israeliane nelle aree invase, comprese eliminazioni fisiche ed esecuzioni sul campo di civili senza motivo. Secondo le testimonianze, quando i soldati fanno irruzione in una casa, fanno saltare i cancelli e iniziano a sparare pesantemente, ignorando le richieste di aiuto degli abitanti.
L’Euro-Med Monitor ha documentato molte azioni in cui i soldati hanno deliberatamente sparato e ucciso giovani civili mentre donne e bambini erano sottoposti ad abusi umilianti.
L’’Euro-Med Human Rights Monitor ha invitato il Comitato Internazionale della Croce Rossa ad assumersi le proprie responsabilità e a rispondere agli appelli che riceve per evacuare i feriti e le vittime nelle zone in cui si verificano le incursioni di terra israeliane.
https://www.blog-lavoroesalute.org/wp-content/uploads/2023/12/immagine-103.png375600franco.cilentifranco.cilenti2023-12-21 06:44:362023-12-21 06:44:38Euro-Med: testimonianze scioccanti sulle eliminazioni e sulle esecuzioni sul campo a Gaza
“È necessaria un’indagine imparziale e urgente per fare luce sulla tortura e l’assassinio di civili palestinesi detenuti in diverse zone della Striscia di Gaza da parte dell’esercito israeliano”
Ginevra – “È necessaria un’indagine imparziale e urgente per fare luce sulla tortura e l’assassinio di civili palestinesi detenuti in diverse zone della Striscia di Gaza da parte dell’esercito israeliano”, ha affermato l’Osservatorio Euro-Mediterraneo per i Diritti Umani in una dichiarazione rilasciata lunedì.
Le testimonianze raccolte confermano i rapporti pubblicati dal quotidiano israeliano Haaretz sulle esecuzioni sommarie israeliane di detenuti di Gaza. Altri detenuti sono morti dopo essere stati sottoposti a torture e maltrattamenti estremi nel campo di prigionia dell’esercito israeliano “Sde Teman”, situato tra Beersheba e Gaza.
Il suddetto campo è stato trasformato in una prigione simile a Guantánamo, ha affermato il gruppo per i diritti umani con sede a Ginevra, dove i detenuti sono rinchiusi in condizioni disumane; l’Osservatorio ha citato l’uso da parte dell’esercito israeliano di recinti all’aperto per ospitare i detenuti e il rifiuto di fornire cibo e acqua per lunghi periodi di tempo.
Nel campo di Sde Teman sono detenuti palestinesi di tutte le età, dai bambini agli anziani. All’interno dei complessi recintati, i detenuti vengono bendati e sottoposti a duri interrogatori con le mani legate. Secondo le testimonianze, di notte venivano lasciate accese delle forti luci, con l’intento di sfinirli e torturarli psicologicamente.
Le testimonianze raccolte dall’Osservatorio Euro-Mediterraneo tra i detenuti appena rilasciati del campo di Sde Teman denunciano che lì i detenuti hanno subito varie forme di tortura e maltrattamenti, non gli è stato permesso di usare i telefoni e impedito loro di incontrare gli avvocati e di ricevere visite dal Comitato Internazionale della Croce Rossa.
Le testimonianze affermano inoltre che diversi prigionieri anziani hanno subito violente percosse e trattamenti umilianti, ha affermato l’organizzazione per i diritti umani. I detenuti venivano bendati e legati, con entrambe le mani e i piedi ammanettati, e se cercavano di chiedere qualcosa, subivano abusi e minacce.
Uno dei detenuti rilasciati, che ha richiesto l’anonimato per timore di ritorsioni, ha affermato di aver visto i soldati israeliani sparare direttamente e uccidere cinque detenuti in episodi separati. Da parte sua, Haaretz ha riferito che due detenuti di Gaza sono morti nel campo dell’esercito israeliano. Ma a differenza di casi simili riguardanti la morte di prigionieri nelle carceri israeliane, l’esercito israeliano ha scelto di non dare notizia dei decessi.
Secondo Haaretz, uno dei prigionieri, un palestinese che in passato aveva lavorato in Israele, ha chiesto cure mediche prima di morire, ma l’esercito ha ignorato la sua richiesta e lo ha tenuto in condizioni spaventose, che alla fine hanno causato la sua morte.
Solo 71 dei 500 detenuti arrestati durante le violenze in corso sono stati portati dall’esercito davanti ai tribunali israeliani, ha osservato Haaretz; i restanti detenuti sono stati trasferiti in carceri gestite dal Servizio Carcerario Israeliano o in strutture di detenzione gestite dal servizio di sicurezza Shin Bet.
L’Osservatorio ha riferito della morte del lavoratore palestinese Mansour Nabhan Muhammad Warsh il 3 novembre, solo 24 ore dopo il suo arresto. Il suo corpo era ricoperto di lividi, prova di maltrattamenti che probabilmente hanno contribuito al suo fatale attacco di cuore.
Il lavoratore palestinese Majed Ahmed Zaqul, 32 anni, è stato dichiarato morto il 7 novembre nella prigione israeliana di Ofer dopo essere stato sottoposto a gravi torture. Il destino di centinaia di altri lavoratori della Striscia di Gaza rimane sconosciuto.
Le squadre sul campo dell’Osservatorio Euro-Mediterraneo hanno precedentemente documentato la detenzione di oltre 1.200 civili palestinesi in campagne di arresti israeliani casuali in diverse aree della Striscia di Gaza durante l’attuale Campagna Genocida di Israele. Questi arresti sono avvenuti dopo l’assalto ad abitazioni e scuole che ospitavano migliaia di sfollati.
Dopo il loro rilascio dalla detenzione, l’esercito israeliano ha volutamente lasciato i prigionieri palestinesi bendati, spogliati, e inginocchiati a terra, dopo averli sottoposti ad ogni forma di percosse e maltrattamenti. Inoltre, l’Osservatorio ha dichiarato di non essere stato in grado di accertare l’arresto di un singolo combattente della Resistenza Palestinese al momento di questo rapporto, sia perché le famiglie dei combattenti non sono state disposte a denunciare tali casi, sia perché l’esercito israeliano non ha rivelato l’identità dei detenuti o addirittura potuto confermare la cattura di nessun membro della Resistenza.
Infatti, membri dell’esercito israeliano hanno costretto alcuni detenuti a portare armi, in modo che possano essere filmati per supportare le propaganda israeliana. Gli arrestati sono stati sottoposti a torture, percosse violente e altri abusi, secondo le testimonianze ottenute recentemente da detenuti rilasciati. Allo stesso tempo, l’esercito israeliano ha deliberatamente pubblicato filmati e foto scioccanti che mostrano detenuti palestinesi bendati e seminudi, inginocchiati a terra sorvegliati da soldati israeliani, o trasportati su autobus militari verso destinazioni sconosciute.
Queste campagne di arresto casuali hanno preso di mira medici, infermieri, giornalisti e anziani, tra cui decine di donne, come Hadeel Youssef Issa Al-Dahdouh. In una scena disumana, Al-Dahdouh appare in una foto insieme a un gruppo di uomini nudi in un camion militare israeliano.
L’Osservatorio Euro-Mediterraneo per i Diritti Umani ha esortato il Comitato Internazionale della Croce Rossa e il Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria a fare pressione sulle autorità israeliane affinché rivelino la sorte di tutti i palestinesi fatti prigionieri nella Striscia di Gaza, rilascino ogni civile arrestato e si indaghi sulle orribili violazioni a cui sono sottoposti questi civili detenuti.
«Svegliatevi, una casa al mare non è un sogno!». Quello che sembrerebbe uno scherzo di pessimo gusto è, invece, uno slogan raccapricciante diffuso sui social per promuovere la costruzione di “case al mare” nella Striscia di Gaza, alla fine della guerra. L’annuncio è stato postato con orgoglio su Instagram dall’agenzia immobiliare israeliana Harry Zahav Company, che opera anche in Cisgiordania. A corredo una locandina, che raffigura i disegni dei progetti per le nuove costruzioni sui terreni palestinesi distrutti dai bombardamenti. Il manifesto fa riferimento al “prosieguo dei lavori” sulla terra martoriata dal conflitto, suggerendo che l’agenzia, tramite alcuni dipendenti nell’esercito israeliano, ha già iniziato a “rimuovere le macerie” per far spazio al suo progetto residenziale. Questo atto di cinismo e sfruttamento senza precedenti ha raccolto lo sdegno social di migliaia di utenti, che hanno commentato con disgusto l’annuncio.
Non è la prima volta che la Harry Zahav (letteralmente, “Montagne d’oro”) si occupa di costruzioni di lusso in territori palestinesi. Da quando è iniziata la guerra, alcuni dipendenti dell’azienda si sono persino arruolati per combattere a Gaza. Tra questi anche lo stesso amministratore delegato Shlomo Warmstein. La compagnia ne va fiera, tanto da alternare sui social agli ambiziosi progetti edili, la pubblicità di questo “accorato” coinvolgimento militare.
Tuttavia, la decisione di estendere il suo impero immobiliare alla Striscia di Gaza, devastata dai conflitti armati e dal genocidio in corso, solleva gravi interrogativi etici sul limite che può avere la speculazione edilizia sulla pelle dei palestinesi. Sul profilo social dell’azienda vengono, infatti, postate immagini di ruspe al lavoro e annunciati “Ora prezzi di prevendita!” per i “lotti abitativi” sul territorio palestinese, come se il dolore e la sofferenza della popolazione locale fossero nulla più che un’opportunità commerciale su cui speculare e fare “montagne d’oro”, come evoca proprio il nome della compagnia.
Le immagini pubblicate dalla pagina Instagram dell’agenzia sono incuranti, persino sprezzanti, del terribile bilancio umano e infrastrutturale della guerra a Gaza. Con oltre 18.000 morti dal 7 ottobre e bombardamenti indiscriminati su ospedali, campi profughi e abitazioni, la popolazione locale è stata sottoposta a una violenza inimmaginabile. Dall’altra parte, Israele ha registrato 1.200 morti, sottolineando la sproporzione evidente nelle perdite umane. Il sovraffollamento e la malnutrizione, già diffusi prima del conflitto, sono ora in aumento, causando la diffusione di malattie mortali come dissenteria, influenza e vaiolo, mentre il sistema sanitario è in ginocchio.
In questo contesto, l’azione dell’agenzia immobiliare appare come una mossa insensibile e spregevole che ignora completamente il contesto umanitario critico ma getta un’altra luce sul rapporto – pubblicato pochi giorni fa da uno dei più influenti think tank israeliani, l’Institute for Zionist Strategies (Istituto per le strategie sioniste, IZS) – dal titolo, Un piano per il reinsediamento e la riabilitazione definitiva in Egitto dell’intera popolazione di Gaza. Si tratta, come spiegato da Giorgia Audiello, di un “piano finale” pensato nei minimi particolari per risolvere definitivamente il problema della presenza palestinese a Gaza, attraverso una pulizia etnica che prevede il reinsediamento della popolazione araba in Egitto.
Nella prima riga del rapporto, stilato dall’IZS, si legge che «Attualmente esiste un’opportunità unica e rara per evacuare l’intera Striscia di Gaza in coordinamento con il governo egiziano». Questa “opportunità”, che rientra a pieno titolo nel capitalismo dei disastri, sfrutta l’ennesima tragedia umanitaria sia a livello politico, per portare alla fondazione di uno Stato su base etnica in cui non ci sarà spazio i palestinesi, sia per arricchire le aziende senza scrupoli che vedono nel genocidio in corso una occasione, appunto, per avviare nuovi progetti e, addirittura, costruire case sui territori espropriati illegalmente e con la forza. Edifici costruiti sul sangue, come in un antico sacrificio di costruzione, generatore di vittoria: una ideologia di matrice arcaica, che troviamo attestata nell’antichità e che lo storico delle religioni, Mircea Eliade ha ben descritto Nei Commenti alla leggenda di Mastro Manole.
https://www.blog-lavoroesalute.org/wp-content/uploads/2017/01/muro-israelediritto-di-curarsi.jpg672695franco.cilentifranco.cilenti2023-12-21 06:36:452023-12-21 06:36:47“Acquista la tua villa a Gaza”: i piani di pulizia etnica negli annunci immobiliari israeliani