Talco contaminato da amianto ritirato dal mercato, ma solo da quello americano…
Perché un prodotto sospettato di essere dannoso per la salute, ritirato dal mercato americano, dovrebbe continuare a essere venduto in altri paesi? È la domanda centrale che diverse organizzazioni italiane e francesi attive sul fronte della difesa della salute hanno posto nelle scorse settimane, attraverso degli appelli, ai rispettivi ministri della sanità, in relazione alla problematica del talco contaminato da amianto. Una problematica nota da decenni e tornata prepotentemente di attualità alcune settimane fa.
Il 19 maggio scorso la Johnson & Johnson (J&J), la più grande multinazionale farmaceutica e di prodotti per la cura personale al mondo, ha infatti annunciato il ritiro dal mercato americano e canadese del suo prodotto più conosciuto: il Baby Powder, “il talco morbido e delicato per il tuo bambino”, recita la pubblicità. E lo stesso hanno fatto e stanno facendo aziende concorrenti. Questo dopo il crollo delle vendite seguito alle numerosissime azioni legali contro la J&J intentate negli Stati Uniti da donne colpite da un cancro alle ovaie o da un mesotelioma (la tipica neoplasia da amianto) che avevano utilizzato per la propria igiene intima questo talco.
In contrasto con una serie di
fatti accertati e di condanne giudiziarie, la multinazionale continua a
sostenere che non vi è mai stato amianto nel suo talco ed ha annunciato
che la vendita del prodotto proseguirà in tutti gli altri paesi. Di qui
la preoccupazione e le iniziative dell’Associazione francese delle
vittime dell’amianto Andeva (che si è già rivolta con due scritti al
ministro della sanità Olivier Véran) e in Italia delle organizzazioni
omologhe Aiea ed Afeva e da Medicina Democratica (Md), che hanno
presentato una serie di rivendicazioni al ministro Roberto Speranza. A
partire da quella per un inasprimento dei controlli dei prodotti
importati. Una richiesta che gruppi di consumatori, ricercatori,
associazioni di difesa della salute e vittime dell’amianto stanno
formulando in tanti altri paesi al mondo.
Il talco è un
minerale che si estrae in miniera e che nei giacimenti coesiste con
altri minerali, tra i quali vi possono essere anche rocce di serpentino
amiantifere. Questa compresenza è nota da molto tempo, come dimostrano
dei rapporti interni alla J&J risalenti già agli anni Settanta. Ma
nonostante questo, la produzione e la commercializzazione sono
proseguite. Ed il rischio perdura. Ancora recentemente delle analisi
svolte negli Stati Uniti dalla Fda (Food and drug administration,
l’autorità di controllo americana sui prodotti alimentari e sui
medicamenti) hanno rilevato dell’amianto crisotilo nel talco J&J
Baby prodotto in Cina. È dunque «necessario che tutti i paesi si
adeguino e che sia messa in atto un’azione immediata di prevenzione e
controllo nei confronti di un prodotto commerciale ritirato dal mercato
nordamericano ma ancora in vendita in Europa, Asia, Australia e Africa
mentre esistono sostituti naturali sicuri basati per esempio sull’amido
di mais», scrivono le associazioni italiane di difesa delle vittime
dell’amianto.
Due gravi carenze
A livello
europeo sono due le gravi carenze che si riscontrano. Da un lato non ci
sono mappature complete della composizione dei depositi di talco, né
informazioni sulla presenza di amianto in ogni sito minerario, né
indicazioni sui prodotti in commercio che permettano di risalire
all’origine del prodotto. Dall’altro le tecniche di analisi standard
sono obsolete: per individuare fibre di amianto servirebbe la
microscopia elettronica a trasmissione, invece la Farmacopea Europea
raccomanda ancora metodi meno sensibili che non la consentono. Di qui le
richieste agli Stati di «aggiornamenti sulla situazione di tracciamento
e controllo di tutti i prodotti cosmetici e industriali contenenti
talco», scrivono Aiea, Afeva e Medicina Democratica, manifestando
preoccupazione per le minacce alla salute pubblica derivanti dalla
possibile presenza di amianto.
Ma quale è la situazione
reale? «Quelli che sanno veramente come stanno le cose sono i
produttori, che dovrebbero diventare più responsabili e trasparenti»,
spiega ad area Enzo Ferrara, esponente di Medicina
Democratica e dell’Associazione italiana esposti amianto nonché chimico e
ricercatore nel campo della scienza dei materiali e della metrologia,
che da alcuni mesi si sta occupando in maniera specifica della
problematica dell’amianto nel talco. Una problematica entrata
nell’agenda della rete internazionale dei militanti anti-amianto grazie a
Barry Castleman, consulente scientifico indipendente
americano e uno dei maggiori esperti al mondo di amianto, che era tra
l’altro stato sentito come perito al primo grande processo Eternit di
Torino. Grazie a lui, che ha informato sull’evolversi delle cause
giudiziarie in America, «abbiamo iniziato ad occuparcene anche in
Italia», spiega Ferrara. E da quando Johnson&Johnson ha annunciato
il blocco della produzione «è diventato un dovere morale cercare di
capire e informare su cosa stia accadendo. Perché il principio del
doppio standard non è applicabile. Se un prodotto è pericoloso in un
luogo lo deve essere ovunque».
Professor Ferrara, come si sta svolgendo il suo lavoro di ricerca?
Come
in altre vicende di questo tipo, è come aprire un libro con pagine
mancanti, strappate, cancellate, incomplete o scritte in una lingua
incomprensibile. Per poterlo leggere serve dunque un’operazione di
pulizia accurata. Ma è quasi la regola quando si entra in questioni così
delicate che toccano la salute della popolazione intera e nel contempo
grandi interessi industriali. Ma non voglio fare il processo a nessuno
perché non ho quasi nessuna certezza. Il mio compito è quello di
raccogliere informazioni e dare notizie.
Cosa
sappiamo delle miniere da cui viene estratto il talco? Quali sono i
principali paesi estrattori? E quanto è elevato il rischio di
contaminazione con fibre di amianto?
Come per quasi tutte
le forme minerarie, in realtà non sono localizzate solo in alcune zone
del mondo. Il talco è un prodotto abbondantissimo ottenuto dai silicati,
una delle rocce più diffuse che una volta frantumata e ridotta a
polvere ha un’alta capacità di assorbire umidità. Il problema è che
l’estrazione avviene laddove è più conveniente: dove i costi sono
inferiori e dove ci sono meno controlli in materia di tutela
dell’ambiente e della popolazione. Ciò significa che su queste miniere
sappiamo molto poco. Se sono localizzate in paesi occidentali, dove vi
sono forme minime di controllo, di verifica e di attenzione, è più
facile ottenere informazioni sul prodotto, ma questa ormai è un’ipotesi
sempre più remota. Perché non c’è confronto con i vantaggi economici che
si hanno estraendo in Vietnam o in Cina. Così gli unici a sapere come
stanno veramente le cose sono i produttori, che però possono dirlo o non
dirlo. Se si potesse fare una tracciabilità di questi prodotti, si
potrebbero individuare delle zone libere da amianto ed avere un minimo
di garanzie di non contaminazione del talco. Però devo essere molto
sincero: nemmeno questo ci darebbe l’assoluta certezza. Se c’è un campo
nel quale è estremamente complesso definire degli standard è proprio
quello della geologia. Sin dai tempi di Darwin, sappiamo che la terra è
in continuo movimento, in continua trasformazione: noi non possiamo
avere certezze assolute sulla composizione chimica di cave con milioni
di metri cubi di materiale. Praticamente ci possono essere fibre di
amianto in quasi tutti i prodotti mineralogici, anche in quantità
elevate.
E questo lo si può verificare?
Oggi
esistono metodi di misura per verificarne la presenza anche in grandi
quantitativi di talco. Sta naturalmente a chi fa le regole, a chi
produce e a chi giudica stabilire se e quale limite c’è. Dal mio punto
di vista e di quello di Medicina Democratica a cui faccio riferimento,
non esiste un limite di concentrazione accettabile per le sostanze
cancerogene. Il cosiddetto Mac (maximum allowable concentration –
concentrazione massima consentita, ndr) per noi è pari a zero. Come
speranza, come utopia, puntiamo a questo. Perché in assenza di una
necessità assoluta, non c’è nessun bisogno di rischiare la salute anche
soltanto di una persona su un milione.
Nelle
lettere inviate ai ministri della sanità di Francia e Italia si punta il
dito contro i metodi d’individuazione delle fibre di amianto nel talco
raccomandati dalla Farmacopea Europea, ritenuti “obsoleti”. Ci spiega il
problema?
Questo è uno dei punti più oscuri del “libro” di
cui dicevo prima. Un problema che disturba particolarmente, perché
sarebbe facilmente risolvibile. È da tempo che si conoscono metodi
analitici fino a 100 volte più sensibili: sin dagli anni Ottanta si sa
che la microscopia elettronica a trasmissione (o a scansione) è in grado
di rilevare fibre di amianto anche in quantità estremamente basse.
Stupisce dunque che la Farmacopea invece indichi come metodologia di
riferimento la diffrazione di raggi x o la spettroscopia infrarossa, che
hanno una sensibilità estremamente più bassa. Questo è un punto che va
approfondito. L’analisi di un prodotto comporta certamente problemi di
costi e di tempo, ma questo non può essere una giustificazione per
accettare dei metodi che non funzionano. Così facendo ci si comporta
come l’ubriaco che di notte cerca le chiavi sotto il lampione di casa,
perché nonostante le abbia perse più in là, lui guarda solo dove c’è la
luce. Non ha senso fare la cosa sbagliata perché facendo la cosa giusta
si spenderebbero più soldi. Questo è molto grave e io mi sono sentito di
scrivere alla Farmacopea, da cui ho perlomeno ricevuto più di una
risposta e sono stato invitato a scrivere un contributo per verificare
la possibilità di aggiornare le direttive.
La presenza di amianto nel talco è dunque una certezza?
È
un dato consolidato. Non ci sono dubbi sul fatto che il ritrovamento di
amianto nel talco dipende dalla metodologia di analisi utilizzata. In
Italia alcuni colleghi dell’Istituto superiore di sanità già nel 1984
fecero un lavoro molto dettagliato sul tema. Un’analisi di prodotti
cosmetici contenenti talco in commercio, condotta con la microscopia
elettronica, aveva rilevato presenza di amianto in 6 campioni su 14. E
risultati analoghi sono stati ribaditi da uno studio francese del 2012.
Ci
sono poi purtroppo anche prove: lettere e documenti della J&J degli
anni Settanta in cui in modo indiretto si suggeriva ai ricercatori di
attribuire il fatto che avessero trovato amianto a contaminazioni o
altri tipi di errori durante le loro analisi. Questo è estremamente
grave ed è uno dei cardini della vicenda giudiziaria che si sta giocando
negli Stati Uniti.
Il problema del talco
contaminato con amianto si intreccia con il dibattito scientifico sulla
pericolosità del talco in sé usato a livello genitale. Si ha
l’impressione che i risultati degli studi su questo, che sembrano
escludere un legame con il tumore alle ovaie, vengano utilizzati per
negare il problema dell’amianto. In una pubblicazione dell’Associazione
italiana per la ricerca sul cancro si afferma per esempio che la
contaminazione da amianto è «un problema non più presente al giorno
d’oggi». Come se lo spiega? E come mai l’Agenzia per la ricerca sul
cancro dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) classifica come
“forse cancerogeno” anche l’uso del talco non contenente asbesto?
Secondo
l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Airc) di Lione, una
grande organizzazione con una bellissima storia e che fa un lavoro
scientificamente e moralmente ineccepibile, le sostanze non cancerogene
sono pochissime, così come quelle assolutamente cancerogene (l’amianto è
una di queste). La maggior parte delle sostanze ricadono nelle
categorie intermedie dei “possibili” e dei “probabili” cancerogeni. Una
classificazione che tiene conto del fatto che il concetto di rischio non
è specificamente legato ad una sostanza o ad un agente nocivo tal
quale, ma deve tener conto anche del tempo di esposizione. Se l’Airc,
applicando il principio di precauzione, ha stabilito che persino le onde
elettromagnetiche ad alta frequenza siano dei potenziali cancerogeni
sta proprio nel fatto che ci sono miliardi di persone esposte
quotidianamente. Il che, in assenza di prove di non nocività, è molto
ragionevole per un organismo di vigilanza.
Siccome in alcune forme
tumorali dell’apparato genitale femminile in passato nei tessuti
prelevati sono state trovate tracce di talco, è sorto il dubbio che esso
potesse essere un agente cancerogeno. L’Airc, vedendo una correlazione e
non potendo escludere nulla, lo definisce come “possibile carcinogeno”.
Questo è il modo di pensare e di agire, applicando il principio di
precauzione, dell’Airc, che mette insieme enormi quantità di dati
sperimentali e meta-analisi tutte pubblicate senza conflitti d’interesse
e soggette a revisione scientifica. A differenza di quanto fanno altre
agenzie, che includono anche informazioni prodotte dalle case fornitrici
o commissionate e terze persone che possono avere conflitti
d’interesse.
Gli Stati sembrano prestare scarsa attenzione alla problematica. Questo perché quello del talco è un business troppo grande?
Bisogna
sempre tenere conto che da un lato c’è un interesse industriale ed
economico estremamente importante attorno al business del talco: non
conosco le cifre esatte ma si può ritenere che se si spende X per
produrlo e 3 o 10 X per confezionarlo, vendendolo si guadagna almeno 100
X. Per una multinazionale è una gallina dalle uova d’oro. A questo si
associa una quantità di denaro enorme (milioni al giorno) e una catena
internazionale capace di smuovere in tempi rapidissimi legali e
lobbisti, con un potere enorme. Dall’altra parte vi sono le vittime e le
potenziali vittime: persone invece con pochissime risorse, anche sul
piano dell’accesso alla giustizia. Questo squilibrio di interessi
permette il mantenimento di situazioni che non dovrebbero essere.
Sta
a noi cercare di aumentare la forza contrattuale di chi sta dalla parte
debole. Il fatto di informare i consumatori è già molto e qualcosa di
cui le multinazionali devono tenere conto. Non è un caso che da tempo i
produttori di cosmetici stiano cercando alternative al talco (che
esistono). A fronte del rischio di rovinare la propria immagine,
un’azienda logicamente si tutela. A noi tocca sollecitare.
Cosa si sente di consigliare al consumatore? Di non usare il talco?
(sorride)
A una domanda di questo genere mi ero persino preparato a rispondere,
un po’ vigliaccamente, “non è compito mio”. Che è anche la realtà. Da
quando conosco questa storia io mi premuro comunque di informare le
persone. Poi ciascuno fa le sue valutazioni.
IN SVIZZERA
«Tutto nella norma», assicura Berna
Il tema dell’amianto nel talco della Johnson & Johnson (J&J) «sembra non avere alcuna rilevanza in Svizzera». Così afferma, da noi contattato, il competente Ufficio federale della sicurezza alimentare (Ufsa), precisando che secondo le prescrizioni in vigore «per i prodotti cosmetici dovrebbe essere utilizzato talco libero da amianto».
Ma a quali controlli sottostanno i talchi in commercio in Svizzera? La risposta la si trova nella Legge federale sulle derrate alimentari e i prodotti d’uso, il cui scopo è quello di garantire la salute delle consumatrici e dei consumatori. Spiega l’Ufficio federale: «Chiunque fabbrica, importa o immette sul mercato derrate alimentari od oggetti d’uso (cosmetici compresi) è tenuto al controllo autonomo. È dunque nella sua responsabilità assicurare che i cosmetici da lui messi in commercio rispettino i requisiti di legge in tutte le sue parti e le sue componenti». La vigilanza spetta agli organi cantonali di esecuzione, che «regolarmente eseguono controlli a campione sui prodotti presenti sul mercato».
Alla luce di quanto esposto nell’articolo principale in merito all’inadeguatezza della metodologia di analisi indicata dalla Farmacopea Europea, sarebbe per noi stato interessante sapere quale viene utilizzata in Svizzera per ricercare eventuali fibre di amianto nel talco in commercio: la microscopia elettronica ovvero la tecnica più avanzata disponibile? Oppure la microscopia ottica o altri mezzi meno performanti? Ma su questo punto specifico non è stato possibile ottenere alcuna risposta.
L’Ufsa tuttavia rassicura sul talco della J&J in vendita in Svizzera: «Nel 2018 i competenti organi cantonali di esecuzione hanno verificato il tipo di controllo autonomo svolto dall’azienda su questo prodotto, sia per quanto riguarda i metodi utilizzati sia i risultati». Risultati che «hanno dimostrato che l’azienda ha svolto il controllo autonomo nel migliore dei modi e che i prodotti che vengono attualmente immessi nel mercato elvetico rispettano le norme giuridiche in vigore per i prodotti cosmetici», conclude l’Ufsa.
Claudio Carrer
PubblicatoVenerdì 26 Giugno 2020 |
Edizione cartaceaAnno XXIII – N°11- 26 giugno 2020 |
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