Tecnica e lavoro: ritmi dell’automazione e resistenze al cambiamento tecnologico
Con lo sviluppo del “capitalismo delle piattaforme”, gli studi sull’automazione sono tornati con forza nelle scienze sociali. Il ventaglio di posizioni è variegato, pur ricalcando uno schema classico, che va dall’ottimismo (Brynjolfsson e MacAfee, 2014) a forme di rifiuto radicale (Laïnae et Alep, 2020). Rifiutando entrambe le posizioni, autori come Aaron Benanav (2020) o Jason E. Smith (2022) relativizzano l’impatto dell’automazione e delle innovazioni tecnologiche sull’occupazione e sottolineano l’importanza dei processi di deindustrializzazione per via dell’assenza di investimenti produttivi nell’età del neoliberismo. Antonio Casilli (2019) o ancora Roberto Ciccarelli (2018) riportano l’attenzione sul carattere “mitologico” della digitalizzazione, che nasconde il lavoro umano sotto una patina ipertecnologica.
I contributi, che possono essere proposti in italiano, inglese e francese, dovrebbero articolarsi intorno ai seguenti assi tematici:
- Ritmi dell’automazione. L’implementazione delle innovazioni tecniche può assumere ritmi molto variegati, a seconda dei contesti geografici, delle culture del lavoro o delle capacità di investimento dei soggetti che se ne fanno portatori. Esempi interessanti in questa direzione potrebbero essere lo studio della persistenza di determinate configurazioni tecniche a seconda della disponibilità di manodopera; l’analisi delle conseguenze della coesistenza di tecniche produttive diverse; o soprattutto l’indagine di come le varie forme di conflitto – legate o meno alla questione tecnica – rallentino o accelerino l’implementazione delle innovazioni stesse.
- Fallimenti e resistenze all’innovazione tecnica. Quali sono le conseguenze dell’implementazione di tecniche sperimentali per i/le lavoratori/rici che devono utilizzarle? Esistono forme di conflitto (scioperi, rifiuto di determinati processi produttivi, rallentamenti/sabotaggi della produzione, ecc.) legate a tecniche sperimentali o di difficile applicazione pratica? Se sì, con quali risultati? Chi sono gli/le attori/rici di queste tensioni e, in particolare, come vengono coinvolti i quadri intermedi nell’implementazione di queste innovazioni tecniche?
- Misurazione e redistribuzione dei vantaggi tecnologici. Come vengono misurati gli aumenti di produttività legati a un’innovazione tecnica da coloro che possono ambire alla loro redistribuzione? In che modo i/le lavoratori/rici misurano e percepiscono l’intensificazione del lavoro? Quali conflitti originano da queste misurazioni, come si caratterizzano e come vengono risolti?
- Qualifiche, formazione, competenze. Se è scontato dire che ogni innovazione tecnica porti con sé processi di dequalificazione, sarebbe un errore trascurare il fatto che essa fa emergere anche nuove forme di know-how che sono talvolta estremamente valorizzanti e valorizzate dai/dalle lavoratori/rici stessi/e, sia come elemento di distinzione fra generazioni, sia come evoluzione in positivo della natura o del valore simbolico associato a una determinata mansione. Quali conflitti si producono attorno a queste trasformazioni del lavoro?
Questo numero di «Zapruder», inoltre, vuole inoltre lasciare un posto importante al settore agricolo che, pur avendo subito una modernizzazione tecnica accelerata, è per molti versi marginale negli studi su tali questioni. Allo stesso modo, una particolare attenzione sarà dedicata a contributi che articolano cambiamento tecnico e lavoro riproduttivo.
(Immagine di copertina: Incisione anonima (Inghilterra, 1812 ca; da: P. Verley e N. Sougy (2008). La première industrialisation (1750-1880), in «La Documentation photographique», n. 8061 (gen-feb), Parigi : Secrétariat général du gouvernement)
Una «rivista di storia della conflittualità sociale»
«Zapruder» è frutto di un percorso assembleare che ha coinvolto centinaia di giovani storiche e storici che hanno deciso di mettersi in movimento aprendosi al confronto con altre discipline.
«Zapruder» e il progetto Storie in Movimento vorrebbero essere ambiti di confronto e approfondimento culturali dai quali riflettere attorno a storie e storiografie altre. Vorremmo dare spazio a quanti/e non si riconoscono nelle tendenze oggi prevalenti nel panorama storiografico: quella ideologica, funzionale a un uso mediatico e politico-istituzionale, e quella – speculare in ogni senso e altrettanto carica di valenze ideologiche – tendente alla loro deideologizzazione. Riteniamo fondamentale l’esplorazione di nuove pratiche di ricerca e di comunicazione che contrastino il carattere individualistico e solitario della ricerca, la finalizzazione degli studi al “mercato accademico” e la perdita di dignità della disciplina e di chi è costretto/a a operarvi in queste condizioni.
I temi d’indagine, gli ambiti di ricerca e gli approcci metodologici che vorremmo perseguire sono molteplici. Accanto all’attenzione verso le classi sociali, la “stagione dei movimenti”, i conflitti generazionali, le avanguardie culturali e le subculture, vorremmo analizzare – anche in relazione al loro uso pubblico o alle politiche della memoria messe in atto nei loro confronti – altri soggetti e fenomeni conflittuali: il movimento femminista; le dicotomie fascismo/antifascismo e razzismo/antirazzismo; ma anche, per fare qualche esempio, i movimenti ereticali e – più in generale – eterodossi; i populismi, gli spontaneismi, le dissidenze e i movimenti dei ceti medi; le cosiddette devianze e marginalità sociali, nonché le “istituzioni totali” a queste connesse. Benché non neutrali, desidereremmo analizzare gli ambiti menzionati con metodo scientifico. Crediamo sia importante riconoscere come patrimonio da mettere a frutto – anche criticamente se sarà il caso – filoni di pensiero e di riflessione che hanno contribuito grandemente a rinnovare negli ultimi decenni il fare storia: primo fra tutti la storia di genere, ma anche, per esempio, la storia sociale, la storia orale, la pratica della con-ricerca.
Oggi la storia è alacremente messa al lavoro da un esercito di giornalisti-storici o storici-giornalisti che, accanto all’inossidabile mito delle “magnifiche sorti” del capitalismo, propagandano l’immagine di un occidente campione di civiltà, libertà, democrazia e benessere (inteso come abbondanza di merci). Di contro, si ripropone l’immagine dell’altro come arretrato, dissoluto, sanguinario; un “nemico esterno”. L’obiettivo di questa propaganda giornalistico-storiografica (di guerra) è palese: presentare la cultura occidentale vittima e ostaggio di tali “nemici”, coltivare nella pubblica opinione la rabbia e l’orgoglio per giustificare interventi civilizzatori. Ma anche quello di presentare le forme di dissenso che si sono opposte o si oppongono a tali logiche come potenziale “nemico interno”.
In questo caso, analizzare il passato alla luce del presente significa allora tornare ad affrontare, da differenti angolature, temi quali la “presenza” coloniale europea in Africa (parlando, ad esempio, di eventi rimossi collettivamente come il massacro di Debrà Libanòs e confutare il mito – duro a morire – degli “italiani brava gente”), l’imperialismo e le guerre contro i popoli del Sud del mondo, i colpi di stato e le dittature filo occidentali in America latina, le rivolte anticolonialiste e antimperialiste, i movimenti di liberazione nazionale, ma anche la storia delle migrazioni e dei migranti, gli internazionalismi (da quello cattolico a quello comunista) e i nazionalismi (da quello palestinese a quello sionista).
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