Tempi (e) precari: la giornata tipo di un Aec (Assistente educativo e culturale)
Ore 20.35: parcheggio il motorino, serro il lucchetto alla catena e sono di ritorno a casa. Tiro fuori dal freezer una pietanza a caso e la infilo in forno. Sono troppo stanco anche solo per pensare a cosa cucinare, figuriamoci per dedicarmi alla preparazione del pasto. La giornata è ben lontana dall’essere finita: prima di arrivare al letto e al meritato riposo devo ancora farmi una doccia, riempire e poi svuotare la lavatrice e rispondere ai messaggi di amici, colleghi e fidanzata, le cui notifiche luminose si accumulano da tutto il pomeriggio sul cellulare.
Ore 21:mangio davanti al computer, con una mano che regge la forchetta mentre l’altra si muove sulla tastiera: devo rispondere a una mail della coordinatrice, che insiste per avere la relazione del Glo entro domani, nonostante non sia di mia competenza scriverla e nonostante spettasse anche a lei partecipare – che è ciò che in maniera più diplomatica le scrivo mentre addento la cotoletta.
Sbrigate le incombenze, mentre sono assorto in un mare di pensieri, il getto della doccia sulla testa mi riscuote e mi rendo conto, con un po’ di amaro sollievo, che è finita un’altra giornata. Giornata che è stata uguale a quella di ieri e dell’altro ieri e che, prevedibilmente, sarà identica a quella che verrà. Sveglia di buon mattino, lavoro, rientro a casa per pranzo. Poi il pomeriggio di nuovo lavoro, di nuovo ritorno a casa, cena, faccende, letto. Giornate tutte maledettamente uguali fino al sabato pomeriggio, una scansione quotidiana che si ripete inesorabile.
È il problema della maggior parte dei lavori, in realtà. È il problema del lavoro.
Il mio lavoro è quello dell’Aec o, come ci chiamiamo da qualche anno, Oepa: in breve mi occupo dell’assistenza scolastica per gli studenti con disabilità. Da tempo volevo scrivere un pezzo sulla mancanza di tempo nella mia vita – nelle nostre vite – solo che, appunto per mancanza di tempo, non ero mai riuscito a farlo. Un cane che si morde la coda.
Il tempo dell’Aec è innanzitutto un tempo paradossale, folle, perché scisso su almeno due piani differenti: da una parte infatti è legato al tempo dell’anno scolastico, che dura 9 mesi, dall’altra al tempo della vita, che vige invece ognuno dei 365 giorni dell’anno, 12 mesi su 12. Per questo motivo, data la misera retribuzione a cottimo prevista nei soli mesi scolastici, e assunto che affitto, bollette, spese alimentari, cure mediche ecc. non si pagano secondo i ritmi della scuola, il risultato è una vita decisamente problematica e precaria.
Per rispondere con relativa serenità almeno ai propri bisogni fondamentali, con una paga media di circa 7 euro l’ora, un Aec deve lavorare più o meno 40 ore settimanali.
Queste non sono però le classiche 40 ore da ufficio, regolari e continue, ma sono frammentate lungo l’arco della giornata e della settimana, cosicché il tempo che rimane risulta sempre ridotto e compresso tra due turni lavorativi. Questi spazi di tempo a disposizione sono da destinare ai pasti, alla spesa e alle faccende domestiche. Immaginare di avere del tempo per riposarsi, o addirittura per svagarsi, incontrare una persona o coltivare una passione per l’Aec può diventare simile a un’utopia.
(foto di congerdesign da Pixabay)
Le ore di lavoro settimanali sono infatti spesso distribuite su più servizi, per ovviare almeno in parte al problema dei mancati guadagni estivi, poiché il contratto in ambito scolastico è un part-time ciclico verticale, per il quale l’Aec percepisce lo stipendio solo 8/9 mesi all’anno. Trovare entrate parallele sarebbe fattibile, se non fosse per la difficoltà di incastrare gli orari di un secondo lavoro con turni a scuola che variano in ogni giornata e spesso si dislocano nel mezzo della stessa: agli Aec infatti sono richiesti di frequente i turni pomeridiani, perché «il pomeriggio il bambino è stanco e si agita; quindi il sostegno lo mettiamo la mattina, tu invece servi il pomeriggio così lo tieni buono che sennò la maestra di matematica non riesce a fare lezione», come si sentono puntualmente dire all’inizio di ogni anno scolastico.
È un discorso abominevole ma è così che in effetti veniamo considerati, noi e i ragazzi con cui lavoriamo.
È per gestire questi incastri che in genere si finisce a lavorare in altri servizi (come il Saish, il Sismif o simili) della stessa o di altre cooperative, più facilmente compatibili con quelli scolastici, o al massimo a fare lavoretti di tipo affine in privato, come assistenza di base, baby sitting o ripetizioni scolastiche.
Il tempo settimanale di un Aec prevede quindi 38-40 ore di lavoro di cura, a contatto diretto con l’utenza: un carico di lavoro psicologicamente e umanamente non sostenibile, soprattutto sul medio e lungo termine. Ritmi simili rendono il burn out non un’eccezione patologica ma la condizione “normale” del nostro lavoro: siamo operatori della salute mentale senza il diritto a una salute mentale.
Ma c’è un altro tassello. Le ore di lavoro diretto con gli utenti non sono le uniche che effettivamente ci impegnano: come extra ci viene richiesto infatti di partecipare ai Gruppi di lavoro operativo (Glo), alle supervisioni, a riunioni di plesso e di servizio, a vari corsi di formazione, oltre che ovviamente di sottoporci alle analisi e alle visite mediche.
Tutte queste attività occupano tempo e prevedono una retribuzione, che però non sempre viene corrisposta.
Alle ore extra si sommano poi tutte quelle non riconosciute, in cui l’Aec si trova comunque impegnato da questioni lavorative: dagli spostamenti, anche molto lunghi, per andare e tornare dai luoghi di lavoro, alla consegna mensile dei fogli firma in cooperativa, dalla preparazione dell’intervento in classe alla produzione di report e documentazione varia.
La pandemia ha infine aggiunto, a tutto questo, la necessità di ritirare periodicamente i dispositivi di protezione individuale in sede (sufficienti per un mese, quando si è fortunati) e, almeno nel Lazio, di sottoporsi a tampone quindicinale, obbligo che rientrerebbe nella sorveglianza sanitaria e andrebbe quindi retribuito, ma è invece fatto svolgere fuori dall’orario di lavoro e senza riconoscerne il compenso.
Così anche quelle che nascono come misure di tutela del lavoratore rischiano di trasformarsi in altrettanti attacchi alla sostenibilità dei suoi tempi di vita, perché organizzate in maniera scorretta dai datori di lavoro. La giornata dell’Aec assomiglia insomma a una partita a Tetris.
Sì, l’ho sentita la voce: «Invece di lamentarti, perché semplicemente non cambi mestiere?».
Facile, no? No, non è facile: per accedere a lavori più “comodi” e remunerativi, servono studio e formazione, ovvero disponibilità di tempo e di denaro – tutto ciò che manca a un Aec e in generale a un precario. Chi non viene da famiglia benestante, i lavori ben pagati smette di sognarli appena dopo l’adolescenza.
Cambiare mestiere è poi solo una scappatoia individuale: ci sarà sempre qualcuno che dovrà portare avanti questo lavoro di cura al posto mio, e verrà ugualmente sfruttato.
Inoltre credo che il mio sia un bel lavoro, che regala esperienze importanti e che non ho per ora intenzione di mollare. Non è quello che faccio che non mi piace, ma le condizioni in cui sono costretto a farlo: non sarò quindi io quindi a cambiare mestiere, sarà il lavoro a cambiare.
(foto di StockSnap da Pixabay)
Il furto di tempo, i ritmi stressanti e i carichi di lavoro insopportabili non sono una peculiarità della condizione dell’Aec, ma caratterizzano buona parte dei lavori oggi accessibili per chi non dispone di quantità di denaro tali da permettergli l’accesso ai percorsi professionali più garantiti ed elitari. Se esiste una via d’uscita da tutto questo, la strada per raggiungerla richiede di riconoscersi e conoscersi tra simili e sfruttati, di unirsi in una lotta per costruire un’esistenza e una società diverse e più sostenibili.
Occorre saper immaginare un presente e un futuro diversi, serve il coraggio di desiderare e ricercare, respirare e cospirare, iniziare un viaggio insieme.
In questo viaggio la lotta rappresenta il segnavia, lo scrigno del tempo rubato la meta e il tesoro da trovare.
Ore 2.00: spengo il computer, punto la sveglia alle 6.30 e vado finalmente a dormire. Stasera, per scrivere questo articolo, ho fatto decisamente più tardi di quanto potrei permettermi. Ma era necessario.
Giovanni Manno
24/4/2021 https://www.dinamopress.it
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