Teoria della classe oscena
Ogni anno negli Stati uniti vengono prodotti centinaia di reality show, i cui format è difficile che brillino per originalità. Per motivi imperscrutabili, alcuni precipitano fatalmente nel dimenticatoio altri ottengono un successo strepitoso. Con i suoi oltre 14 anni di vita e quasi 5 milioni di spettatori, Keeping Up with the Kardashians è indubbiamente un esempio di programma che «ce l’ha fatta». Le Kardashian, divenute icone pop come poche, hanno capitalizzato il successo ottenuto in business diversi che spaziano dalla moda al make–up, ambiti nei quali hanno praticamente ridefinito i canoni estetici.
Metà agiografia e metà reality show, Keeping Up with the Kardashians segue dal 2007 a oggi le vicende personali della famiglia Kardashian–Jenner. Premetto, per chi fosse riuscito a tenersene ignaro, uno specchietto della famiglia per come era composta all’epoca delle prime stagioni della serie.
La famiglia Kardashian è composta da una madre, Kris, vedova del controverso avvocato Robert Kardashian (quello che difese O. J. Simpson, per capirci) e risposata con Caitlyn Jenner, ex atleta olimpionica; i quattro figli di primo letto di Kris (in ordine di nascita, Kourtney, Kim, Khloèe Rob) e le due nate dal matrimonio tra Kris e Caitlyn, Kyliee Kendall Jenner.
Fin dal titolo (in italiano, Al passo con i Kardashian), ci viene ingiunto di assumere la corretta postura dello «stare al passo», del tenerci aggiornati sulle vicende dei Kardashian – un po’ come ci si interessa ai gossip sulla famiglia reale inglese. Nell’assenza di un corrispettivo statunitense, le Kardashian (come vedremo sono le figure femminili a essere davvero centrali nella famiglia), da brave imprenditrici attente alle esigenze del mercato, si sono costruite un trono legittimato dal successo che la stessa posizione «regale» accresce, secondo il meccanismo circolare del famous for being famous.
La famiglia Kardashian rappresenta con precisione da script cinematografico la quintessenza della razionalità neoliberale, a partire dalla stessa idea di proporre la propria vita come merce di intrattenimento. Vediamo qui all’opera uno dei principali diktat del self-management: quello dell’autenticità, per cui le Kardashian, più che lavorare, sono il proprio lavoro (la cui natura è infatti del tutto indeterminata: che mestiere fanno, le Kardashian?). In questa compenetrazione tra vita personale e vita lavorativa, quest’ultima si configura come momento privilegiato di realizzazione della prima, secondo quanto celebrato dalla concezione post-fordista del lavoro: non importa se lavori da McDonald’s o sei influencer di successo, devi «mettere te stesso» in tutto ciò che fai – un po’ come nei piatti di Masterchef.
Al cuore stesso del concept del programma è la totale introiezione della teoria del capitale umano, che ci chiede di mettere a frutto le nostre skills (in particolare quelle soft) in un progetto di auto- imprenditorialità, secondo il motto «diventa imprenditore di te stesso». Soprattutto, infatti, le Kardashian hanno avuto successo perché ci hanno creduto davvero. Hanno creduto in loro stesse e nel loro progetto, vincendo e imponendosi come self-made women. O quasi.
Album di famiglia
All’inizio della nostra storia, nei primi anni duemila, la famiglia assurge alla visibilità della cronaca per l’ambigua decisione dell’avvocato Robert Kardashian (l’ex marito di Kris) di difendere l’amico O. J. Simpson, accusato dell’omicidio di sua moglie. Queste briciole di notorietà scandalosa sono meticolosamente raccolte e custodite dalla moglie Kris, in attesa dell’occasione perfetta per farle fruttare. E l’occasione arriva.
Il 2007 è l’annus mirabilis in cui vede la luce quella prodigiosa creatura che è Keeping Up with the Kardashians, la più riuscita di Kris, che sancirà l’ingresso a tutti gli effetti della sua famiglia nello star system. Ma il parto non è dei più immediati, Keeping fatica un po’ a uscire: perché, in fin dei conti, dovrebbero destare interesse le vicende di una famiglia che non è ancora riuscita a trarsi fuori
dalla melma affollata dei socialites per brillare, finalmente, di luce propria? Quello che manca ancora è una spintarella, un’aggiunta piccantina che renda il piatto Kardashian più appetibile. Miracolosamente, la spintarella arriva: l’uscita (teoricamente non autorizzata) del sex-tape che vede protagonisti una ventiduenne Kim Kardashian e il suo fidanzato di allora, il cantante Ray J.
Kris, in quanto momager (cioè madre e manager delle sue figlie), non si fa sfuggire l’occasione e non si imbarazza ad ammettere che è proprio Kim la preferita tra le figlie perché, tramite la commissione del 10% sui suoi lavori, le fa fare più soldi.
Il format del programma è semplice: uno dei protagonisti si trova di fronte a un problema che deve risolvere e vi riesce soltanto quando accetta l’aiuto degli altri familiari. Nel corso della puntata non mancano mai di imparare qualcosa, che sia una lezione morale (di solito riguardo l’importanza degli affetti familiari) o la capacità di spingersi oltre nella corsa all’oggettivazione di sé in cui consistono le loro carriere. Il tutto, ça va sans dire, nello sfoggio di un lusso pacchiano, presentato come giustificato dai solidi valori morali di cui la famiglia è portatrice.
Esemplare per quanto riguarda questo meccanismo è la puntata in cui Kim si trova davanti alla difficile decisione di posare nuda per Playboy e, dopo le prime reticenze («in the end, I’m sticking to, you know, what I believe in and not showing too much») – vinte dalle pressioni della madre – capisce non solo di esserne capace, ma che si tratta di un’esperienza divertente per la quale è grata («posing for Playboy was a huge challenge for me, but in the end I’m so extremely happy that I did it»).
«Qu’ils mangent de la brioche»
Almeno una puntata a stagione è incentrata sulla «scoperta» del mondo al di fuori dalle mura dorate della gated community di Calabasas dove si trova la villa Kardashian. Centrale in queste puntate è il concetto di «give back to the community», un’idea di beneficenza che somiglia alla grazia concessa dai regnanti Ancien Règime per il modo in cui cade arbitrariamente su qualche individuo, a dimostrare la casuale affezione del re per i suoi sudditi (senza sconti, comunque, sulla corvèe dovuta).
Prendiamo come esempio una puntata intitolata The Have and Have Nots. Le piccole sorelle Jenner rubano la carta di credito al papà per fare shopping; Caitlyn le scopre e, pur non potendo seriamente rimproverarle per il fatto in sé, decide che è arrivato il momento di dar loro una lezione su quanto siano «fortunate» (blessed). «These girls have to understand the value of money, about hard work», dichiara risoluta Caitlyn. Quello del «duro lavoro» tramite cui i Kardashian si sarebbero guadagnati il loro stile di vita è un topic ricorrente dello show: le figlie di Caitlyn devono ormai rendersi conto che ciò che hanno non è scontato. Caitlyn stessa comprese questa verità quando, viaggiando nell’Unione Sovietica per le Olimpiadi, vide «such misery, such devastation of lives, of nobody happy», come ricorda (con tanto di sottofondo musicale toccante) prima di annunciare la decisione di portare le ragazze a visitare un rifugio per senzatetto. Kim ricorda di quando anche suo padre, Robert, le portò a Skid Row, un quartiere di Los Angeles famoso per avere una delle maggiori popolazioni stabili di senzatetto negli Stati Uniti. Ripensandoci, la definisce un’esperienza «eye-opening» (illuminante), perché le ha fatto capire davvero il valore di ciò che ha.
Questa è la povertà per i Kardashian: un contraltare ai loro «blessings», funzionale nella narrazione dello show a far risaltare la loro ricchezza ma al tempo stesso la loro capacità empatica nei confronti dei «meno fortunati». È difficile sostenere la visione di tanta ridondanza ideologica: lo si riesce a fare solo spinti da una masochistica volontà di vedere fino a che punto è capace di spingersi la logica capitalista della messa a valore di qualsiasi cosa, perfino della povertà. Con il giusto set di luci, il conflitto sociale scompare dallo spettro del reale per poi riemergere, glamourizzato, sullo schermo, addomesticato tramite un’empatia posticcia ed esibito a beneficio delle telecamere.
Umiliati e invenduti
Il mondo postfordista si divide in due categorie: i comprati (quelli che «ce la fanno», che, grazie al giusto mindset e a una vision vincente, riescono a piazzarsi su un mercato sempre più competitivo) e i miserabili invenduti. È difficile, al giorno d’oggi, dare un senso alla propria esistenza se si rimane invenduti a lungo: si rischia di perdere quella preziosa autostima che sola garantisce una speranza di salvezza nella competizione generalizzata per venire comprati. Questi meccanismi si riflettono anche sulle dinamiche di genere, se, come fa notare Elisa Cuter nel suo recente Ripartire dal desiderio, «la società dello spettacolo, del narcisismo generalizzato del self–management instilla nei maschi il dubbio che il potere della propria immagine, appannaggio prima esclusivamente femminile, sia molto più utile, e cioè più importante a livello contrattuale, di quello economico e sociale che hanno sempre detenuto».
Come in un mondo in miniatura, anche nella nostra serie si può notare come i maschi Kardashian restino – in confronto alle protagoniste, la cui immagine patinata appare su ogni copertina possibile – tristemente invenduti sullo scaffale. Da lì, guardano di sbieco mogli e sorelle brillare realizzate nei carrelli dei clienti, borbottando ogni tanto: «Un tempo non era così».
Lo spettro pauroso della perdita della stima di sé si insinua strisciante nella personalità dei maschi della famiglia e, come un morbo inesorabile, li tira giù uno a uno. A niente valgono i tentativi disperati di tornare in forma di Rob: non c’è orizzonte che possa competere con quello – di cui i Kardashian, paradossalmente, sono i primi promotori – per cui la cosa più desiderabile e l’unica forma di realizzazione possibile è l’essere acquistati.
Una festa (solo) per gli occhi
Lasciando per il momento la famiglia Kardashian alle sue sorti più o meno tristi, il nodo che resta da sciogliere per la comprensione del fenomeno Keeping Up è quello costituito dal suo pubblico. Quale attrattiva può esercitare l’esibizione di vite totalmente surreali – e piuttosto desolatamente vuote – su persone «normali»?
Per comprenderlo, dobbiamo fare un passo indietro e considerare l’evoluzione nel carattere dei voti che il capitalismo rinnova ogni giorno ai suoi – volenti o nolenti – fedeli. Se un tempo, infatti, il capitale si prendeva il disturbo di promettere a tutti di godere della sua espansione – fosse anche nella forma fantasmatica di goccioline trasudanti dai piani superiori – oggi è simile a un vecchio che, persi i freni inibitori, non nasconde più l’impudicizia. Non si perita neppure più di fare false promesse. Tutto ciò che offre alle sue vittime in cambio del loro sacrificio è lo spettacolo osceno di chi sta al vertice.
Questo meccanismo, evidente in prodotti come Keeping Up with the Kardashians, ricorda da vicino la logica del «consumo vistoso» descritta da Thorstein Veblen nella Teoria della classe agiata. Veblen accosta la festa da ballo borghese e il potlatch, il rituale kwakiutl descritto da Franz Boas che implica uno spreco vistoso di beni – tramite una vera e propria distruzione «inutile» o l’offerta di banchetti sfarzosi – al fine di dimostrare il poco valore attribuito alla proprietà e, quindi, la superiorità del proprio potere rispetto a quello dell’avversario, costretto, se vuole riscattare il proprio nome, a eguagliare le gesta del rivale. Allo stesso modo, secondo Veblen, nel dispositivo sociale delle feste da ballo «il competitore con cui chi offre il trattenimento desidera istituire un confronto, con questo sistema lo si fa servire da strumento per il fine. Egli consuma per conto del suo ospite e intanto è testimone del consumo di quella sovrabbondanza di beni che l’ospite non potrebbe consumare da solo».
Sebbene sia assente la dimensione del consumo vero e proprio, sostituito dalla visione passiva di una «festa» che ormai non ha neanche più bisogno di partecipanti, lo scopo ricercato è del tutto analogo: coinvolgere lo spettatore come testimone (quasi martire) dell’agiatezza rappresentata, in modo che possa spargere il verbo della gloria e del potere kardashianiani.
Sofia Pagliarulo é studentessa magistrale in antropologia a Bologna, dove si sta laureando con una tesi che analizza il pensiero di Furio Jesi. Questa è la sua prima pubblicazione.
3/4/2021 https://jacobinitalia.it
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