Torino, la magistratura reprime l’antifascismo. Un appello dal Campus Luigi Einaudi
Altre misure repressive colpiscono la comunità universitaria a seguito dei fatti dello scorso 13 febbraio al Campus Luigi Einaudi di Torino. Quel giorno la polizia è duramente intervenuta contro studenti e ricercatori che stavano manifestando il proprio dissenso. L’occasione è stata un volantinaggio del FUAN, un collettivo studentesco di ispirazione neofascista, volto a contestare il convegno accademico organizzato dall’Anpi dal titolo “Fascismo, colonialismo, foibe”. Le misure adottate nei giorni scorsi si sommano alle 19 precedenti (3 arresti domiciliari, 7 divieti di dimora, 9 obblighi di firma) che hanno raggiunto studenti e studentesse il 23 luglio scorso. Per chi volesse conoscere in dettaglio i fatti si rimanda qui.
Da anni, ormai, studenti, ricercatori e docenti vengono inquisiti e sottoposti a forme di restrizione della libertà personale e limitati nella possibilità di svolgere attività di ricerca, mettendo a rischio l’effettiva garanzia del diritto all’istruzione.
Come membri della comunità accademica, ma soprattutto cittadini preoccupati delle sorti della nostra democrazia ci interroghiamo su questi eventi, e interroghiamo chi legge queste righe.
1) È accettabile che venga meno quel senso critico che dovrebbe almeno portare gli osservatori a interrogarsi sul paradosso per cui studentesse e studenti disarmati avrebbero messo in scacco la polizia, un apparato preparato tecnicamente a reggere pressioni ben più serie? Si tratta evidentemente di un racconto inverosimile che – caso strano – dimentica la ragione del confronto: il Fuan che con la falsificazione storica compie una provocazione nei confronti dell’Anpi, dell’antifascismo, della Città di Torino – quella cui fu assegnata la medaglia d’oro al valore militare per la lotta contro nazisti e fascisti.
2) È accettabile che in un documento ufficiale (come riportato dal Corriere Torino del 7 ottobre 2020) che limita la libertà personale di individui per i quali deve valere una presunzione di innocenza, il magistrato proponga una surreale descrizione classista dell’ambiente universitario, che descrive come «maggiormente attrezzato rispetto alla “strada” nella percezione dei disvalori contrari ai più elementari principi di convivenza […]»?
3) È accettabile che tutto ciò avvenga additando come socialmente pericolosi studenti, ricercatori, colleghi che hanno partecipato a un presidio a tutela della convivenza democratica e della costituzione a volto scoperto e disarmati? E che questo stigma venga diffuso con la complicità di alcune testate giornalistiche, dimentiche dei basilari principi di obiettività, di tutela della dignità personale, di controllo delle fonti che ogni libera stampa democratica dovrebbe difendere e rivendicare?
4) È accettabile che le scelte di natura obiettivamente repressiva compiute dai magistrati torinesi possano essere argomentate con riferimento ad un «allarme sociale» (come riportato ancora dal Corriere Torino del 7 ottobre 2020), che peraltro non è detto che i magistrati siano i più adatti a valutare?
5) È accettabile che l’ex Questore di Torino continui ad alimentare in maniera irresponsabile un clima di contrapposizione verso chiunque eserciti o intenda esercitare il diritto al dissenso sulla base di paure anacronistiche, minacciando che «c’è una polizia giudiziaria che sa cosa fare» (Così in un’intervista al Corriere.it del 2 ottobre 2020). Quali sarebbero i pericoli? Una presunta «deriva anarco-insurrezionalista» o, ancora, «colpi di coda di residui ideologici»?
Qui, semmai, l’unico residuo ideologico – se un’espressione tanto generica può avere un senso – pare essere quello che forgia modelli di azione poliziesca e repressione giudiziaria, questi sì resti di un clima emergenziale che, se a suo tempo appariva inaccettabile a qualsiasi sincero democratico, oggi ci sembra di una gravità inaudita.
6) È accettabile che alcuni giornali, senza verificare le fonti e le reali dinamiche dei fatti, diano notizia in tempo reale delle misure repressive, con tanto di nomi, cognomi, luoghi di residenza, nel totale disprezzo del diritto alla privacy dei destinatari di tali misure?
7) È accettabile che, approfittando di questa situazione, il presidente dell’Edisu (l’Ente per il diritto allo studio regionale) e l’assessora regionale all’Istruzione facciano campagna elettorale inserendo una clausola che revoca la borsa di studio agli studenti «non meritevoli» in base alla loro condotta politica, ledendo di fatto il diritto allo studio?
Le misure repressive adottate e il contesto nel quale esse si inseriscono restituiscono l’immagine di una situazione preoccupante, dinanzi alla quale è necessario assumere una posizione netta. Il dissenso – ricordiamolo – è un elemento imprescindibile in ogni stato che voglia definirsi democratico.
La repressione del dissenso, dall’università ai movimenti sociali, è parte di un processo che a fronte della crescita esponenziale delle diseguaglianze risponde con la marginalizzazione e la ghettizzazione del disagio sociale (ne sono emblema il daspo urbano e i processi di gentrificazione), che lascia impunemente spazio a risorgenti gruppi fascisti per diffondere re-visioni distorte, razzismo e discriminazione, e punisce chi, invece, si fa portatore attivo di quei valori di giustizia sociale che la Costituzione indica come non negoziabili.
Abbiamo capito! Ed ecco i nostri nomi.
Il link per firmare l’appello:
Foto di copertina dalla pagina Facebook di Manituana – Laboratorio Culturale Autogestito
Assemblea dottorand* e precar* e docenti del Campus Luigi Einaudi
14/10/2020 https://www.dinamopress.it
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