Duemila malati non autosufficienti senza cure. Torino nega il diritto al ricovero.

Raddoppiati in due anni i malati cronici gravissimi ai quali l’Asl Città di Torino non eroga la convenzione sanitaria. Sono costretti a pagare più di 3mila euro al mese per i ricoveri. Famiglie allo stremo.

di Andrea Ciattaglia

A Torino è allarme cure negate per i malati non autosufficienti. In due anni sono raddoppiati i casi anziani invalidi che si sono visti rispondere «no» dall’Asl alla loro richiesta di ricovero in Residenza sanitaria assistenziale (Rsa) in convenzione. Un diritto esigibile normato a livello nazionale come livello essenziale delle prestazioni che prevede il pagamento da parte dell’Asl della metà della retta totale, ormai arrivata a cifre che superano i 3.500 euro mensili. L’incremento degli esclusi dalle cure di lunga durata – che sono prestazioni di Livello essenziale, per legge nazionale – è drammatica. Lo rivelano i dati dell’Azienda sanitaria Città di Torino, trasmessi in due tranche (agosto e ottobre 2024) al Comune di Torino in risposta ad una mozione del Consiglio comunale, primo firmatario il consigliere Pierino Crema.

Queste le cifre delle cure negate: nel 2022 erano complessivamente 979 i casi che avevano fatto richiesta di ricovero convenzionato e che avevano ricevuto un «no» dall’Asl. Nel 2024 sono diventati 1.953. Nel dettaglio, al 30 giugno 2024, il ricovero è stato negato a 94 casi «urgenti» (erano 22 nel 2022, + 327%), a 1.231 «non urgenti» (+167% rispetto a due anni fa) e a 628 «differibili» (+26%). I termini tecnici non devono ingannare, la stessa delibera della Regione che definisce le categorie di priorità, indica a che condizione di malattia e di bisogno sanitario si riferiscono. Per esempio, tra gli esclusi – anche quelli indicati come «non urgenti» – è frequentissimo trovare persone con malattie «di diversa natura e gravità con elevato livello di non autosufficienza, ad alto rischio di scompenso e complicazioni», oppure con «deficit cognitivo di grado variabile (anche di grado severo), associati o meno ad alterazioni comportamentali anche di grado elevato».

Il direttore generale dell’Asl, Carlo Picco, precisa che «la programmazione degli inserimenti viene effettuata sulla base della fascia di priorità, dei tempi previsti dalla norma regionale e sulla base delle risorse disponibili». Sono proprio le risorse a determinare la «priorità» degli inserimenti e non l’aumento della domanda. Di qui la pressante richiesta delle associazioni dei malati di adeguare i fondi alla richiesta di cure, anziché scremare le istanze ammesse sulla base degli insufficienti fondi messi a bilancio dell’Asl.

L’impasse è regionale, sponda assessorato alla sanità. Spiega la consigliera di minoranza Monica Canalis (Pd): «La normativa piemontese fin dal 2022 prevede un tetto per il budget regionale annuale per gli inserimenti in regime di convenzione nelle strutture residenziali: 268 milioni di euro di fondi sanitari, nei quali sono stati anche riassorbiti gli aumenti concordati con gestori delle residenze, a parziale soddisfacimento delle loro richieste di adeguamento delle rette». Risultato? «Il blocco delle risorse va a scapito dell’utenza, visto che corrisponde ad una riduzione degli inserimenti in regime di convenzione sia in proporzione sul numero di letti Rsa totali – che crescono, per l’apertura di nuove strutture – sia in termini assoluti, perché ogni singola convenzione costa di più all’Asl».

Capitolo a parte per le dimissioni ospedaliere direttamente in Rsa. L’Asl le conta come convenzioni, ma le regole regionali garantiscono un massimo di sessanta giorni di copertura, nella maggior parte dei casi l’intervento Asl finisce e viene attivato dai famigliari un oneroso ricovero privato o il rientro a casa senza continuità delle cure. Per Giuliano Maggiora, presidente dell’Associazione Alzheimer Piemonte, «non si possono mettere sullo stesso piano una convenzione a tempo indeterminato con un contributo di poche settimane, al quale segue – ecco dove si nega il diritto – l’interruzione dell’impegno dell’Asl». I dati dell’azienda sanitaria riferiti al 2023 (ultimi disponibili) dichiarano 1.925 inserimenti nell’anno a titolo definitivo e 1.857 a tempo limitato, in dimissione ospedaliera (+ 31% rispetto al 2022).

Le cifre trasmesse dall’Asl al Comune comprendono anche dati sulle cure domiciliari, dove l’arretramento delle prestazioni destinate ai non autosufficienti è – se possibile – ancora più allarmante: sono quasi completamente spariti, o fortemente ridimensionati, gli assegni di cura del «modello Piemonte» che prevedevano una quota sanitaria regionale non soggetta a Isee di 675 euro al mese, corrisposta direttamente al malato non autosufficiente e alla sua famiglia per necessità di cure a domicilio di lunga durata (servivano in molti casi a coprire le spese vive dell’assistenza, o una parte dello stipendio dell’assistente personale).

Le prestazioni domiciliari registrate dall’Asl e comunicate al Comune si limitano, invece, a fotografare l’Assistenza domiciliare integrata, che è l’unico parametro delle cure a casa tenuto in conto dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). La distorsione è evidente: sono interventi a tempo determinato (il ministero della Salute ha certificato che si tratta in media di 17 ore all’anno), svolti solo da personale professionale (medico di famiglia, infermieri, altri operatori) con precise finalità (curare una piaga, provvedere a flebo e medicazioni…). Insomma, una parte importante delle cure domiciliari, ma non quelle che servirebbero in alternativa alla Rsa. L’Adi è costituita da interventi di grande utilità per chi non ha altre necessità che quelle sanitarie specifiche e puntali, mentre è poco o per nulla efficace per i non autosufficienti, che hanno bisogno di interventi di più bassa soglia, ma continuativi. I dati si riferiscono delle prestazioni domiciliari sulla platea totale di tutti gli ultrasessantacinquenni torinesi (lo prevedono le indicazioni del Pnrr) e registrano il passaggio da 8.462 prese in carico nel 2019 a oltre 24mila.

Più di un osservatore qualificato spiega che «su questi dati forse occorrerebbe maggiore dettaglio». Per esempio: l’incremento del 200% delle prese in carico, se fossero mantenute le ore di impegno per singolo caso del passato, corrispondere al 200% di incremento di attività di medici, infermieri, altri operatori. È così? In un contesto di scarsità cronica di personale e di risorse, sarebbe sorprendente. Oppure si è incrementato il numero delle prese in carico, diminuendo le ore dedicate ai singoli casi?

30/12/1024

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