Tra criminalizzazione e populismo penale

PH: Luca Greco (Manifestazione a Ferrara 2 marzo 2024)

Premessa. Possiamo descrivere l’operato dei legislatori italiani degli ultimi anni con due parole: eccezione e repressione. Sono infatti tanti gli interventi legislativi che i governi degli ultimi due decenni hanno posto in essere sull’onda di una presunta emergenza e, quindi, per ragioni eccezionali, con l’intento soprattutto di reprimere fenomeni e condotte ritenute inadeguate, inappropriate, non accettabili.

«La criminalizzazione del dissenso», per usare un’espressione molto in voga, viene da lontano e ha illustri precedenti: il Decreto Renzi-Lupi, il Decreto Minniti e i Decreti Salvini e Lamorgese.

All’interno di questo quadro normativo, il DDL 1660 rappresenta il punto più alto della deriva repressiva che ha infettato il legislatore, la politica italiana e, purtroppo, anche gran parte dell’opinione pubblica italiana. La tendenza ad affrontare ogni problema sociale come una emergenza porta con sé risposte superficiali e sostanzialmente punitive.

Nascono così continuamente nuove ipotesi di reato e si introducono nuove aggravanti al fine di delimitare sempre di più il recinto delle libertà personali, soprattutto quelle che attengono alla libertà di espressione del dissenso. Il principio che vede nella sanzione penale l’estrema ratio, l’ultimo rimedio da attuare all’interno di uno Stato di diritto, ovvero la risposta che dovrebbe arrivare dopo aver tentato ogni altra pacifica e mite soluzione, è stato ormai da tempo sostituito da un diritto penale sempre più aggressivo e repressivo.

Probabilmente però, è sbagliato pensare che queste politiche coercitive e, quindi, anche il DDL 1660 con la sua logica aggressiva, siano il frutto di uno Stato forte. Tutt’altro. Si tratta piuttosto di un chiaro ed evidente segno di debolezza di uno Stato che non è autorevole (non autoritario) e che ha la necessità di fare ricorso ad un utilizzo smisurato della forza per garantire la convivenza tra i suoi cittadini. Uno Stato che deve far ricorso alla violenza, che deve soffocare il dissenso, che vede dietro l’angolo sempre un nemico da affrontare “militarmente”, è uno Stato insicuro, spaventato, debole.

Le nuove misure repressive: tra nuovi reati e inasprimento delle pene

Il DDL n. 1660 si compone di 38 articoli, che introducono 14 nuovi reati e 13 aggravanti di pene per reati già esistenti. Al suo interno è strutturato in VI Capi:

– Capo I, composto degli articoli da 1 a 9, reca disposizioni per la prevenzione e il contrasto del terrorismo e della criminalità organizzata nonché in materia di beni sequestrati e confiscati e di controlli di polizia;

– Capo II, composto degli articoli da 10 a 18, reca disposizioni in materia di sicurezza urbana;

– Capo III, composto degli articoli da 19 a 32, reca misure in materia di tutela del personale delle forze di polizia, delle forze armate e del corpo nazionale dei vigili del fuoco, nonché degli organismi di informazione e sicurezza della Repubblica;

– Capo IV, composto del solo articolo 33 istituisce un albo di esperti che affianchino gli operatori economici vittime di usura ai fini del reinserimento nel circuito economico legale;

– Capo V, composto degli articoli da 34 a 37, reca norme sull’ordinamento penitenziario;

– Capo VI, infine, composto del solo articolo 38, reca una clausola di invarianza finanziaria generale riferita al complesso delle disposizioni del provvedimento.

Per ragioni espositive non è possibile dare conto di tutte le novità legislative in esso presenti. È però possibile provare a ragionare su alcuni specifici interventi normativi che appaiono particolarmente controversi e che sembrano collocarsi nel solco della deriva populista che anche nel campo del diritto penale si sente con forza.

Un primo riferimento è a quelle norme presenti nel DDL 1660 che inaspriscono il trattamento sanzionatorio di alcuni reati a tutela delle forze dell’ordine e di alcuni delitti contro il patrimonio. Si tratta di modifiche normative che si fondano sulla illusione che all’aumento delle pene corrisponda anche una maggiore efficacia deterrente delle norme. Nulla di più sbagliato. Di per sé, infatti, l’aumento delle pene edittali non porta alcun concreto risultato dal punto di vista della deterrenza.

Altra norma particolarmente significativa che desta anche forti dubbi di ragionevolezza, come sottolineato dal Consiglio direttivo dell’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale, è l’aggravante di cui all’art. 61 n. 11 novies c.p. che si applica a qualsiasi reato commesso «all’interno o nelle immediate adiacenze delle stazioni ferroviarie e delle metropolitane o all’interno dei convogli adibiti al trasporto di passeggeri». Come conseguenza di tale aggravante lo stesso reato sarà, dunque, punito diversamente a seconda che venga compiuto all’interno di una metropolitana o di una stazione ferroviaria o, invece, in un parco pubblico o in altro luogo.

Vi sono, poi, tutta una serie di previsioni normative che invece destano preoccupazione perché utilizzano lo strumento penale in funzione esclusivamente repressiva in contesti sociali ed economici fragili e difficili. Se, infatti, fenomeni come quello dell’occupazione arbitraria di immobili sono per molti aspetti deprecabili, è pur vero che spesso dietro a tali fenomeni si palesano situazioni di difficoltà, marginalità sociale che non andrebbero affrontati con lo strumento penale ma con ben altri mezzi da parte della politica.

Allo stesso modo, l’inasprimento delle pene nel delitto di accattonaggio (con la reclusione da 1 a 5 anni), è un vero e proprio attacco alla povertà. Una cosa, infatti, è punire le condotte di organizzazione e di sfruttamento dell’accattonaggio, altra cosa è andare a colpire indiscriminatamente un fenomeno che spesso rappresenta l’unica forma di sostentamento per una famiglia. Anche in questo coso, la misura repressiva è sicuramente frutto di un populismo penale diffuso. Ma il compito della politica dovrebbe essere ben altro.

Accanto a queste norme incriminatrici, si pongono le previsioni che vanno a prevedere un inasprimento della disciplina del cd. DASPO URBANO. Interventi di matrice esclusivamente repressiva, proprio come tutte le norme che mirano a soffocare le manifestazioni del dissenso. L’esempio più emblematico è quello del c.d. blocco stradale che da illecito amministrativo viene trasformato in delitto penalmente perseguibile anche con un aumento della pena prevista.

In uno stato democratico il dissenso politico va tutelato e salvaguardato, oggetto di repressione possono diventare solo le condotte violente che integrano eventualmente fattispecie di reato. Con il DDL 1660 si ha invece la criminalizzazione tout court delle proteste e il tentativo di imbavagliare ogni forma di contestazione e di espressione del dissenso politico.

Il DDL 1660 e i CPR

Le novità normative riguardano anche una stretta rispetto ai soggetti sottoposti a detenzione amministrativa all’interno di un Centro di Permanenza per il Rimpatrio o ai detenuti.

Il testo approvato alla Camera prevede diverse modifiche al codice penale, tra le quali l’introduzione del nuovo reato di cui all’art. 415-bis c.p. (rubricato “Rivolta all’interno di un istituto penitenziario”) che oltre a punite le condotte di promozione, organizzazione e direzione di una rivolta, incrimina anche condotte di c.d. resistenza passiva.

Questa nuova previsione normativa coinvolge anche le persone soggette a detenzione amministrativa all’interno di un Centro di permanenza per i rimpatri. Per costoro è previsto che «chiunque, durante il trattenimento in uno dei centri di cui al presente articolo o durante la permanenza in una delle strutture di cui all’articolo 10-ter o in uno dei centri di cui agli articoli 9 e 11 del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142, ovvero in una delle strutture di cui all’articolo 1-sexies del decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1990, n. 39, mediante atti di violenza o minaccia o mediante atti di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti, posti in essere da tre o più persone riunite, promuove, organizza o dirige una rivolta è punito con la reclusione da uno a sei anni. Per il solo fatto di partecipare alla rivolta, la pena è della reclusione da uno a quattro anni. Se il fatto è commesso con l’uso di armi, la pena è della reclusione da due a otto anni. Se nella rivolta taluno rimane ucciso o riporta lesioni personali gravi o gravissime, la pena è della reclusione da dieci a venti anni. Le pene di cui al quarto periodo si applicano anche se la lesione personale o la morte avvengono immediatamente dopo la rivolta e in conseguenza di essa».

Interventi di riforma che costituiscono “una pericolosa estensione del controllo penale” e che vanno a colpire anche le condotte di resistenza passiva, incriminando ogni atto di ribellione, anche quelli non connotati da violenza o minaccia (ad esempio il rifiuto del cibo o dell’ora d’aria) e che impediscano il compimento di atti d’ufficio di gestione dell’ordine e della sicurezza.

Fattispecie che rischiano di fungere da arbitrario strumento di gestione della sicurezza all’interno delle strutture nelle quali le relazioni di forza sono necessariamente a senso unico1.

Dopo i casi di cronaca che hanno visto protagonisti i CPR italiani con fatti gravissimi perpetrati ai danni dei soggetti trattenuti al loro interno, sarebbe stato auspicabile un intervento normativo volto a inasprire le pene per chi approfitta del ruolo e della funzione ricoperta per compiere violenza su persone indifese. Magari avremmo preferito interventi volti a dare maggiore dignità e maggiori diritti a chi viene rinchiuso in strutture fatiscenti senza aver compiuto alcun reato e senza dover scontare alcuna pena. Invece, la risposta dello Stato italiano è stata di tipo opposto.

Un messaggio molto chiaro per ridurre al silenzio chi non ha alcun modo di far sentire la propria voce se non utilizzando il dissenso, la protesta passiva, l’autolesionismo e, in ultimo, il suicidio, per lanciare un grido di disperazione e di dolore oltre le mura e le sbarre dei CPR italiani.

I rapporti pubblicati, le visite ispettive compiute, i reportage realizzati in questi anni ultimi anni, ci consegnano un’immagine del CPR ben precisa. «Luoghi intrinsecamente patogeni dove la protesta, pacifica o meno, rappresenta spesso l’unico mezzo di denuncia e reclamo di diritti. Gli incendi, i danneggiamenti, i tentativi di fuga, ma anche gli scioperi della fame e gli atti di autolesionismo sono l’unico mezzo di manifestazione di dissenso rispetto alla quotidianità delle violenze e dei diritti negati nei centri» 2. Una narrazione che ha trovato conferma nelle inchieste sul CPR di Milano e su quello di Palazzo San Gervasio.

Conclusioni

Provando a tirare le somme di questo ragionamento sul DDL 1660, possiamo affermare che si tratta senza dubbio di un intervento normativo fortemente repressivo di alcune condotte che da un punto di vista sociale ed economico dovrebbero avere ben altra attenzione. Un intervento di criminalizzazione del dissenso caratterizzato da un forte populismo penalistico che finisce per dare risposte sproporzionate e anche poco efficaci.

Ma non solo. Il DDL 1660 presta anche il fianco a evidenti profili di incostituzionalità che andranno attentamente vagliati soprattutto con riferimento al principio di proporzionalità delle pene, al finalismo rieducativo della pena e, infine, al principio di umanizzazione della pena.

  1. Un documento dell’Associazione italiana dei professori di diritto penale ↩︎
  2. Sedare e punire: il nuovo DDL Sicurezza reprime la protesta nei CPR, CILD (luglio 2024) ↩︎

Il DDL 1660 e la deriva repressiva di uno Stato debole

Avv. Arturo Raffaele Covella

14/10/2024 https://www.meltingpot.org

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