Tra i politicanti del selfie e la realtà dei fatti
“Noi sappiamo quello che è necessario fare per il paese. Peccato che non sappiamo come farci rieleggere una volta che l’abbiamo fatto”. Queste famose parole dette, anni fa, da un’alta carica dell’Unione Europea riassumono perfettamente il cinismo del ruolo di politicante (non politico, quelli si sono estinti ormai da tempo) che marcia implacabilmente sulla faciloneria dell’opinione pubblica, la stessa che oggigiorno si informa in gran parte fagocitando social a destra e a manca, poi gridando allo scandalo dal proprio portatile. Questa polarizzazione di intenti, tra ciò che dovrebbe essere fatto e ciò che in realtà viene fatto dai governanti di turno, è una ricetta che fino a qualche anno fa, in Italia come nel resto del mondo, poteva reggere, per il semplice motivo che si appoggiava alla complicità degli scarsi mezzi di comunicazione e soprattutto alla mancanza dei social media (chi più ne ha più ne metta). Social che invece oggi imperano, e ci hanno convertito in topi da laboratorio, criceti da rotellina, ininterrottamente connessi alla rete, ma soprattutto pronti a gonfiare istante dopo istante la pancia della gente. Poi cosa importa se un politico passa ore al giorno col cellulare sui social a scrivere slogan elettorali o a fare le sue dirette per le allodole, invece di coprire il ruolo per il quale gli italiani lo hanno votato. Ma che bisogno abbiamo noi cittadini di una campagna elettorale senza fine?
Se l’ignoranza di base non è evoluta granché negli anni (non credo sia totalmente corretto guardare dati e statistiche sul livello educativo degli italiani rispetto ai concittadini europei, anche se entreremmo in una valle di lacrime), è probabilmente evoluto il modo di approfittarsene. L’impudenza dei governi antecedenti si è sempre retta sfruttando l’ignoranza dei governati, a maggior ragione focalizzandosi sulla fetta meno istruita e preparata della popolazione, ma una volta per lo meno lo faceva con minor frequenza e, forse, con più stile. Oggi, i governanti sono costantemente esposti al giudizio del popolo, immersi in un vortice di frenesia elettorale senza soluzione di continuità, che ha consentito che si creasse una discrepanza, uno spazio incolmabile, tra quello che è giusto fare e quello che invece viene promesso e pure fatto, Europa permettendo. In altre parole una voragine tra il ruolo del politico vero, che promuove le riforme che vanno fatte per il bene del paese (incentivi economici, occupazione, riduzione del debito, educazione, sanità, etc.) e il politicante-saltimbanco che deve rendere conto al suo social-elettorato, lanciando frasi a effetto e promettendo quello che i governati ormai vogliono sentirsi dire, con l’obiettivo di arrivare a fine legislatura, tanto i dati economici sui quali rispondere arrivano con ritardo. Così diffondono balle e fake news senza riscontro nella realtà, tanto cosa ti costa? Come l’effetto moltiplicatore delle pensioni (da quando in qua le pensioni fanno parte del PIL? Abbiamo davvero tutti sti soldi per poterci permettere di eliminare la Fornero?), o la brillante idea di inserire dei minibot per sanare i debiti della pubblica amministrazione (e scarnire gli attivi di tante brave imprese “italiane” per la ridicola liquidabilità che avrebbero simili strumenti).
La magia dei social ha reso possibile che il popolo giudichi con egual importanza l’approvazione di una riforma economica dotata di una moltitudine di provvedimenti e il respingimento di una barca a Lampedusa, senza rendersi conto che la prima, magari, richiede un po’ più di sforzo e serietà. Promettiamo pensioni più accessibili solo perché la demografia del paese pende inesorabilmente verso l’anzianità, mentre tagliamo gradualmente più fondi all’istruzione, di fatto incentivando i giovani ad emigrare. Quando i giovani smettono di credere nel futuro del proprio paese, la cosa inizia ad essere grave.
La nuova politica del selfie lucra sulle manovre facili e populiste, ma pecca sulle manovre complesse come quelle economiche, rischiando davvero di mandarci allo sfascio. Il Ministro dell’Interno ha basato la sua campagna elettorale sui suoi due principali nemici, gli stranieri (specialmente quelli di un altro colore) ed Elsa Fornero, ma, né lui, né gli altri imbonitori di illusioni, hanno chiaro una schema politico-economico di lungo termine. Secondo la squadra di governanti i problemi dell’Italia sono gli immigrati, la sicurezza, le pensioni, l’euro, le tasse che devono pagare i ricchi e le famiglie gay. Non la spesa per debito pubblico, l’evasione fiscale, il razzismo da bar, il divario tra Nord e Sud, la troppa burocrazia, il crollo demografico, l’emigrazione giovanile, etc. Questi temi evidentemente possono aspettare altri 20-30 anni di stagnazione economica. Se a questo aggiungiamo l’erosione delle ideologie politiche, che vivono solo sulle schede elettorali, beh il quadro è piuttosto affliggente. Si assiste a un vero e proprio isterismo elettorale: gente che fino a ieri si dichiarava di sinistra adesso vota per la Lega.
Allora, se vogliamo bene al nostro paese, perché non iniziamo a selezionare le nostre fonti informative? Iniziamo a diminuire le dosi di informazione televisiva gestita e ad ascoltare, attentamente, chi politicante non è e non ha nessuna intenzione di farlo.Chi ha studiato per sostenere le cose che dice, in piccoli spazi pedagogici. Iniziamo a valutare bene i curriculum di queste persone se decidiamo di prenderne spunto. Non si può far parlare tutti su tutto. Carlo Rubbia è un fisico premio Nobel nel 1984, ma non uno scienziato del clima; Paola Taverna (assidua sostenitrice no-vax nonché vicepresidente del Senato della Repubblica) è perito aziendale, non è medico; Matteo Salvini è diplomato al liceo classico, non è professore di diritto della navigazione, tantomeno di scienze delle finanze, così come la stragrande maggioranza dei nostri parlamentari non sono economisti, ma vengono lo stesso interpellati su temi economici complessi. Ed elogiati perché asfaltano i professoroni che decidono di partecipare ai talk. Perché continuiamo a dargli tanta importanza?
Il discorso, poi, dovrebbe essere allargato a una più ampia riflessione sul funzionamento della democrazia odierna. La democrazia, “indotta e manipolata” dai cambiamenti tecnologici e dai mezzi di comunicazione di massa, è in crisi? Parliamone. Paradossalmente la democrazia è diventata più difficile e pericolosa, nel momento in cui è diventata più facile ed accessibile. Oggi non s’imbroglia più alle elezioni per accaparrarsi un manipolo di voti in più, oggi il popolo si defrauda giorno dopo giorno dalla tastierina di un cellulare intelligente. Che coscienza politica abbiamo creato?
Marco Grisenti
6/7/2019 www.unimondo.org
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