Tra il martello della violenza e l’incudine del carcere: la storia di Ali

La criminalizzazione sistematica delle persone in movimento

Ali 1 nasce in Sudan nel 2000, nel pieno della seconda guerra civile sudanese. Con 1,9 milioni di morti e 4 milioni di profughi, è considerata una delle guerre più sanguinose dalla fine della Seconda Guerra Mondiale 2. Cresce nella città di Cassala, al confine con l’Eritrea, e trascorre la sua infanzia in un contesto estremamente difficile da un punto di vista socio-politico e umanitario a causa delle continue guerre civili, della carestia che investe il paese, e del regime di al-Bashir.

La situazione si aggrava ulteriormente nel momento in cui scoppia la guerra in Darfur, una provincia situata nella parte occidentale del Paese. Suo padre, arruolato nell’esercito governativo, viene mandato a combattere per reprimere i movimenti autonomisti, ma ben presto il conflitto diventa una pulizia etnica. Il padre di Ali muore combattendo nel 2016, lasciando un marchio sul figlio che lo perseguiterà anche in futuro.

Ali si ritrova a dover ricoprire il ruolo di capofamiglia, a dover garantire la sopravvivenza di sua madre e dei suoi fratelli. Nel frattempo, la situazione economica, politica e umanitaria nel paese è drammatica a causa della guerra civile nel Sudan del Sud, scoppiata pochi anni prima, nel 2013. Il ragazzo comprende che sostenere la propria famiglia in un contesto di guerra pressoché permanente non è facile, quindi è costretto a lasciare il Sudan. Una volta giunto in Egitto, trova lavoro in una fattoria, e nonostante le difficili condizioni di un lavoro faticoso, non si arrende. Il lavoro gli serve per poter mandare un po’ di denaro alla sua famiglia. 

Col passare del tempo, Ali fa amicizia con altri sudanesi che vivono in Egitto con cui trascorre il tempo libero dopo il lavoro, condividendo le difficoltà della vita da esiliati. I connazionali scoprono che suo padre era stato coinvolto in operazioni militari che avevano causato la morte di alcuni dei loro cari durante la guerra civile. Ali è costretto a fuggire di nuovo, questa volta verso la Libia.

Ma la Libia non è affatto un paese sicuro. Appena arrivato, viene rapito da un gruppo armato che gli chiede un riscatto che non può permettersi di pagare. Quindi viene trattenuto come prigioniero per sei mesi, subendo torture fisiche e psicologiche. 

Quando i suoi rapitori si rendono conto che nessuno può pagare per lui, gli propongono un accordo: lavorare senza compenso per diversi mesi in cambio della libertà. Ali non ha altra scelta ed è costretto ad accettare. Dopo aver completato il periodo di lavoro forzato, riesce a scappare verso la città di Bani Walid, dove trova lavoro nel settore delle costruzioni. Inizia così a risparmiare del denaro per poter arrivare in Europa. Vuole partire verso l’Italia. 

Viene nuovamente arrestato dai militari nel tragitto da Bani Walid a Bengasi. Questa volta per riavere la libertà riesce a pagare con i soldi che aveva faticosamente risparmiato, e in qualche modo raggiunge Bengasi, dove riprende a lavorare con l’idea fissa di lasciare la Libia.

A Bengasi, fa conoscenza con una persona del suo quartiere che ha rapporti con i trafficanti. Non è poi così difficile entrare in contatto e decide di pagare un anticipo di 500 dinari. Nel giorno stabilito, una macchina lo porta in una casa “di appoggio”, dove si trova di fronte una scena orrenda: uomini armati minacciano con le armi un altro migrante africano. Ali assiste all’omicidio dell’uomo, ucciso per aver disobbedito. È terrorizzato. Gli stessi miliziani si rivolgono a lui e gli dicono che dovrà prendere il comando della barca che sarebbe partita con altri migranti a bordo. Ali cerca di spiegare loro che non sa come comandare una barca. Ma viene minacciato, nuovamente, di morte. 

Viene rinchiuso in una stanza fino al momento della partenza. Il giorno prefissato, lo portano sulla costa, dove trova due barche: una colma di persone provenienti soprattutto dalla Siria e l’altra con miliziani libici. Questi lo costringono a salire a bordo della loro barca. 

Durante il viaggio, gli spiegano come timonare l’imbarcazione e come mantenere la rotta. È consapevole che la sua vita dipende dalla sua capacità di seguire queste istruzioni. Dopo diverse ore di navigazione, Ali viene trasferito sulla barca con gli altri migranti e ne prende il comando. Nonostante la paura e il mare così ampio davanti a sé, Ali si fa coraggio e prosegue il viaggio. 

Il trauma dell’arresto

Durante il viaggio l’imbarcazione rischia più volte di capovolgersi per via delle onde, ma sono fortunatamente intercettati e soccorsi in mare aperto, poi portati sulle coste italiane dalla guardia costiera. 

Le forze di polizia che li aspettano, trasformano rapidamente il sollievo e la speranza di Ali in un incubo. Invece di ricevere assistenza o essere trasferiti verso i centri di accoglienza, tutte le persone sono sottoposte a rapide indagini con un solo obiettivo: trovare chi ha guidato l’imbarcazione. 

Cercano un colpevole, lo “scafista”, anche se si tratta di qualcuno che semplicemente si è seduto vicino al timone o ha scattato una foto accanto ad esso. Le persone a bordo vengono interrogate e viene chiesto loro di indicare chi ha guidato l’imbarcazione. Alcuni, intimoriti di essere arrestati, lo indicano. 

Approfondimenti/Interviste/Racconti di vita

Non chiamiamoli “scafisti”

Il secondo episodio di Radio Melting Pot (stagione 2024/2025)

Radio Melting Pot

27 Aprile 2024

Pur cercando di dire di essere stato costretto a guidare l’imbarcazione, e quindi una vittima di una serie di costrizioni, viene ammanettato e portato in carcere. Nessuno chiede al ragazzo i motivi che lo hanno spinto a fare questa azione. 

Le autorità italiane trattano severamente chiunque prenda il comando di un’imbarcazione o svolga qualsiasi ruolo, anche secondario, come versare carburante nel motore. Chiunque abbia guidato una barca o assunto una responsabilità durante il viaggio è considerato, come minimo, complice dei trafficanti di esseri umani che attraversano il Mediterraneo 3.

Ad Ali sono imputati reati come “favoreggiamento dell’immigrazione irregolare” e “associazione a delinquere”. Secondo la legge italiana, queste accuse implicano di essere parte di una rete di trafficanti di esseri umani, ma le accuse a suo carico mancano di prove sufficienti per supportare questa affermazione.

Le accuse contro le persone migranti spesso si basano su supposizioni che possono essere errate. Nel caso del procedimento contro Ali erano assenti tre elementi chiave per qualsiasi accusa penale:

  1. L’intenzione criminale:
    L’accusa di “favoreggiamento dell’immigrazione irregolare” richiede la prova di un’intenzione criminale, ossia che l’imputato avesse intenzionalmente aiutato i migranti a entrare illegalmente nel paese. Nel suo caso, non c’era alcuna intenzione di commettere un crimine: Ali fu costretto a guidare l’imbarcazione sotto minaccia armata e minaccia di morte. 
  2. Il ruolo nell’operazione:
    I partecipanti ai viaggi illegali sono generalmente classificati in base ai loro ruoli: organizzatore del viaggio, intermediario e comandante dell’imbarcazione. Ali, pur avendo guidato l’imbarcazione, non era tra i pianificatori o gli organizzatori. Assunse il comando sotto costrizione e non aveva alcun legame diretto con la rete criminale. Era solo una vittima delle circostanze.
  3. Assenza di prove solide:
    Nei casi di traffico di esseri umani, le autorità si basano solitamente su prove concrete, come messaggi di testo, chiamate telefoniche o testimonianze che colleghino l’imputato ai trafficanti. Nel caso di Ali, non c’erano prove che indicassero un suo coinvolgimento con i trafficanti. Non aveva alcun ruolo organizzativo né precedenti contatti con le bande criminali; il suo unico obiettivo era salvarsi.

L’assenza di prove è l’elemento chiave che indebolisce le accuse. Non si può condannare una persona basandosi su testimonianze inaffidabili o su supposizioni non supportate da prove concrete. Ali, come molti altri migranti, non aveva modo di difendersi se non con la propria testimonianza.

L’autosalvataggio: Yusra Mardini come esempio

La storia di Ali può ricordare molto altre storie, come quella raccontata nel film “Io capitano” di Matteo Garrone, o il caso di “auto-salvataggio” della nuotatrice siriana Yusra Mardini e sua sorella Sarah, diventato noto per il film “Le nuotatrici”. Nel 2015, mentre le ragazze fuggivano dalla guerra in Siria dirette in Grecia, si trovarono in pericolo nel Mar Egeo, quando la barca sovraffollata su cui viaggiavano stava per affondare. Le due sorelle e un altro rifugiato si tuffarono in acqua e tirarono la barca per tre ore, salvando 19 persone.

Sebbene l’ingresso di Yusra e Sarah Mardini in Europa, e il loro aiuto alle altre persone nell’attraversare il confine marittimo fossero illegali, non furono arrestate né punite. Quello che fecero fu considerato un auto-salvataggio e un salvataggio collettivo da una probabile morte, non un crimine. Anzi, fu riconosciuto come un atto eroico e umanitario.

Lo stesso principio dovrebbe applicarsi ad Ali. Sebbene sia stato costretto a guidare l’imbarcazione, il suo scopo non era il traffico di esseri umani né l’ottenimento di ricavi economici, e non faceva parte di una organizzazione criminale. Si trovava di fronte a due scelte difficili: salvare sé stesso e le altre persone a bordo o morire. Era stretto nella morsa tra la minaccia dei miliziani e l’annegamento. 

In questi casi, le sue azioni dovrebbero essere viste come un salvataggio piuttosto che un atto criminale.

Libertà per i capitani e le capitane

Le leggi che puniscono le persone che guidano le imbarcazioni spesso ignorano le circostanze individuali di ciascuna. L’applicazione generalizzata delle punizioni porta a grandi ingiustizie, dove gli innocenti vengono puniti mentre i veri trafficanti, come nel caso libico, fanno parte di un sistema governato dall’impunità e dalla collusione con milizie e autorità.

Nel caso di Ali, non ci sono vere prove che lo incolpino di fare parte di una rete di traffico di esseri umani. E’ un ragazzo in cerca di sicurezza in Europa, dopo che le dure vicissitudini subite nel suo Paese di origine, in Egitto e in Libia lo hanno costretto alla fuga. La guida della barca non è stata una scelta, ma un’imposizione. Tuttavia, è stato trattato come un colpevole, nonostante sia vittima di un sistema spietato che non permette di muoversi liberamente e mettersi in salvo. 

Casi come il suo ci dicono quanto siano ingiuste e criminalizzanti le politiche sulla migrazione: altro che “scafismo”! Le azioni dei capitani e delle capitane che sono state arrestate e detenute nelle carceri italiane o degli altri Stati europei 4 dovrebbero essere valutate alla luce del contesto e delle costrizioni subite, e i casi di auto-salvataggio collettivo dovrebbero essere trattati in modo totalmente diverso.

  1. Nome di fantasia ↩︎
  2. Guerra in Sudan: testimonianza di un conflitto lontano dai riflettori. Il report del talk con Azim Koko, attivista italo-sudanese ↩︎
  3. Nel numero 1 della rivista Controfuoco consigliamo la lettura di Capitani, criminalizzazioni e contronarrazioni, a cura del Progetto dal Mare al Carcere ↩︎
  4. Si veda il progetto “Dal mare al carcere” ↩︎

Nagi Cheikh Ahmed

25/10/2024 https://www.meltingpot.org/

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