Tu resti fuori
Foto di Ferdinando Kaiser
Tu resti fuori: è quanto rischia di sentirsi dire in ospedale, in piena emergenza coronavirus, un paziente malato, qualora insieme a lui dovessero giungere altre persone affette da malanni e che hanno più probabilità di guarire.
Tu resti fuori, però, è quanto noi lavoratori del sociale sentiamo ripetere da anni. Per noi non si tratta di emergenza.
Tu resti fuori dai confini dell’Italia e dell’Europa, si sentono dire i migranti in fuga, assediati dai fascisti, dalla polizia, da sultani e dittatori. Tu vai fuori dal mio paese, tornatene a casa tua, è la logica sottintesa ai decreti Minniti-Orlando-Salvini, applicati ora dalla ministra al governo.
Tu resti fuori è quanto si è sentito dire Michele: erano i giorni più caldi dell’anno e aveva perso la vista. I suoi problemi di salute si erano fortemente aggravati. Tu resti fuori, ci ha detto il Comune. La stessa cosa ce l’hanno detta tanti altri servizi pubblici e privati. E lui, fuori, ci è restato: per tre giorni e tre notti abbandonato a se stesso in un parchetto. Pochi passi e finiva a terra. Come si fa a soddisfare i più basilari bisogni in questo stato? Ve lo riuscite a chiedere, a immaginare? No. Se non fosse stato per la rete di solidarietà creatasi intorno a lui, Michele starebbe ancora lì fuori, ed è la migliore delle ipotesi …
Tu resti fuori è quanto si è sentito dire Giovanni: ha problemi di dipendenza da alcool. Questa volta siamo già in piena emergenza coronavirus, pochi giorni fa. Si è pisciato e cacato addosso, è disorientato. Forse una comunità è disposta ad accoglierlo, ma ha bisogno di un posto dove passare la notte. Di qualcuno che si prenda cura di lui. Questo qualcuno non c’è, non c’è posto per lui (e se fosse contagioso?): e Giovanni resta fuori. Se ne va barcollando, a passare la notte chissà come, chissà dove.
I momenti di crisi esasperano le contraddizioni del nostro vivere sociale: esse non nascono con le emergenze, sono già lì ben presenti e sotto gli occhi di tutti, ma nessuno in tempi di “normalità” le vuole vedere. L’emergenza esaspera il clima di violenza diffuso, la noncuranza verso i soggetti più colpiti dalle scelte politiche dei governi (la cosiddetta crisi economica), lo stigma sociale verso le persone considerate diverse. Così Michele e Giovanni, e Joy che vive sfruttata nel ghetto, continueranno a restare sempre più fuori. Ai margini della società, sempre più marginalizzati. Tu resti fuori, c’è il rischio di epidemia da coronavirus.
Il nostro lavoro,. come operatori sociali, risponde al principio opposto: tu puoi entrare, se vuoi; i tuoi problemi, i tuoi bisogni devono stare al centro; interrogare le contraddizioni sociali; essere una priorità per tutta la collettività. Questo per noi lavoratori del sociale è un principio assoluto, che vale sempre. E tanto più in tempi di crisi da coronavirus: sapete, i bisogni sociali sono una faccenda quotidiana, e non vanno in quarantena.
Restate a casa, si dice: in quale casa devono restare i 50.000 senza dimora che vivono in Italia? Siate solidali e responsabili, si dice: come si pratica la solidarietà se i decreti impedissero di fare il lavoro di strada di ogni giorno, se dovessimo chiudere o ridimensionare fortemente i nostri servizi e disgregare le nostre comunità? Nemmeno una parola è stata spesa dai nostri governanti, così decisi nell’applicare le zone rosse (dai tempi di Genova 2001 ho il terrore di queste due parole messe insieme), per suggerire azioni in favore di chi, fuori, ci sta già.
Che fare, dunque? Tenere certo presenti le dovute accortezze, ma continuare a includere. Aprire caserme inutilizzate e spazi pubblici per garantire una casa a chi non ce l’ha. Con i dovuti servizi collaterali. Sostenere le reti di solidarietà presenti nei nostri territori. Garantire supporto e sostegno, materiale, psicologico, relazionale. Che nessuno resti fuori! Né adesso e né mai più!
Roberto De Lena
Operatore sociale (ma è anche impegnato con Attac e di Cadtm Italia) in Molise.
10/3/2020 comune-info.net
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