Tunisi, Cutro, Lussemburgo. La linea nera del diritto d’asilo

n attesa che i pessimi accordi europei portino i loro frutti, tra la legge 50 (decreto Cutro) e gli obitori di Sfax in Tunisia, UE e Italia rinnegano il diritto d’asilo

È bastato il viaggio in Tunisia dal dittatore razzista Saied, compiuto dalla Presidente del Consiglio italiano Giorgia Meloni e dalla Presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen, a spegnere gli entusiasmi esplosi dopo la riunione del Consiglio dei ministri dell’Interno dell’UE, tenutasi a Lussemburgo lo scorso 8 giugno. Altro che “trionfo della linea Piantedosi”, il Presidente Tunisino è stato lapidario: il suo Paese non intende svolgere il lavoro sporco di trattenere i cittadini che vogliono fuggire dalla Tunisia (tunisini o migranti che siano) per un’elemosina e dovendo accettare il ricatto imposto dal FMI: 1,9 mld di euro in cambio di riforme strutturali che getterebbero la popolazione nella povertà e innescherebbero una nuova rivolta. Gli stessi giornali italiani hanno scoperto (meglio tardi che mai) i morti per naufragio insepolti, accatastati negli obitori di Sfax, il fatto che il rimpatrio di una persona in Tunisia costa 2.500 euro, che il tanto decantato piano solidale, semplicemente europeo, semplicemente non esiste.

Certo il governo ha condotto una trattativa – di solito Salvini evitava anche il confronto – ma con risultati insignificanti. Si voleva rendere obbligatoria per tutti i 27 Stati membri l’accoglienza di un numero proporzionale di rifugiati, si è giunti al fatto che, persino di fronte a un piano in cui si prevede il pagamento di 20 mila euro a persona per i Paesi che rifiutano di prestare accoglienza, Ungheria e Polonia hanno espresso voto contrario.
Gli effetti reali di questo voto si vedranno quando sarà il Parlamento Europeo, già in piena campagna elettorale, a dover esaminare i provvedimenti proposti e gli accordi raggiunti. Il testo finora reso noto afferma che “Gli Stati membri hanno piena discrezionalità quanto al tipo di solidarietà cui contribuiscono. Nessuno Stato membro sarà mai obbligato a effettuare ricollocazioni”. Se con questo testo si dovevano rafforzare i rimpatri forzati e contrastare i “movimenti secondari” (quelli che finora hanno avuto come ostacolo poroso il Regolamento di Dublino, il risultato è una scatola vuota. Il New pact on migration and asylum del 23 settembre 2020 resta di fatto al palo: soltanto per approvare quanto deciso nel vertice di Lussemburgo ci sarà una montagna di norme da modificare, dal Regolamento sulla circolazione “Schengen”, alla c.d. “Direttiva rimpatri” del 2008, sarà necessario, molto probabilmente, un tempo che non è sufficiente a questo Parlamento (si voterà il 9 giugno prossimo). Le divisioni peseranno molto probabilmente in quanto i due principali gruppi, Identità e Democrazia (di cui fanno parte i Paesi del “gruppo Visegrad” e la Lega) e i Conservatori e Riformisti Europei (area Meloni), hanno posizioni divergenti che richiederanno tempo per essere ricomposte.

Da rivedere c’è intanto la proposta di regolamento sulla procedura d’asilo. L’idea è quella di una uniformità UE, da rispettare per ogni richiesta di protezione. Si vorrebbero snellire le disposizioni abbreviando i tempi, il tutto garantendo il rispetto dei diritti per chi chiede asilo, dall’interprete all’assistenza legale (dovrebbero già essere obbligatori). In aggiunta si dovrebbe applicare la c.d. “procedura di frontiera” (diniego), al momento in cui la domanda di asilo si presenta ad un valico di frontiera esterna, in caso di arresto dovuto ad ingresso illegale o allo sbarco dopo un’operazione SAR (Ricerca e Soccorso). Secondo l’accordo raggiunto “se il richiedente rappresenta un pericolo per la sicurezza nazionale o l’ordine pubblico, ha ingannato le autorità con informazioni false o nascondendo informazioni e se il richiedente ha una nazionalità di un Paese con un tasso di riconoscimento delle richieste di asilo inferiore al 20%” potrebbe essere rispedito anche nel “Paese terzo sicuro” (concetto complesso) da cui è transitato. In Italia si vorrebbe applicare una sorta di combinato disposto unendo tali procedure a quanto permesso con la legge 50/2023 (decreto Cutro), peraltro approvata senza il passaggio nelle commissioni parlamentari preposte e che di fatto lascia ampi margini di manovra alla volontà dei prefetti di espellere chi non è gradito. Uno dei tanti assurdi che si determinano è che tale norma è persino in contrasto con le proposte di modifica restrittiva dell’asilo definite a Lussemburgo, in quanto non rispettosa dei principi di garanzia già menzionati.

Da ricordare che già la legge 50/2023 permette di applicare una “procedura accelerata” a chi proviene da Paesi di origine considerati “sicuri”. Chi è considerato in tali condizioni, non ha consegnato il passaporto o altro documento simile, o non possa prestare “idonea garanzia finanziaria”, potrà essere trattenuto negli hotspot, nei punti di raccolta che si vanno realizzando dopo la dichiarazione dello stato di emergenza, nei CPR in prossimità delle frontiere. Sfuggono, per ora soltanto i minori e gli altri soggetti ritenuti particolarmente vulnerabili.  “Raccomanda, tuttavia, di incanalare in procedura di frontiera (con trattenimento) solo le domande di protezione internazionale che, in una fase iniziale di raccolta delle informazioni e registrazione, appaiano manifestamente infondate. L’UNHCR è intervenuta in tale contesto ritenendo positiva la “procedura accelerata” per chi quasi certamente otterrà protezione ma ritiene che la domanda di asilo fatta da chi proviene da un Paese ritenuto sicuro non debba seguire tale iter se lo stesso dichiari di essere in circostanze tali da non poter considerare sicuro per se stesso il Paese di provenienza. In pratica si tratta di un richiamo affinché il diritto d’asilo o di protezione possa rimanere soggettivo e non direttamente connesso alle valutazioni date al Paese di origine. Quella che prende forza nell’accordo di Lussemburgo è la nozione di “Paese terzo sicuro” in cui effettuare rimpatri. Già sul termine “Paese d’origine sicuro”, con cui stipulare accordi bilaterali e verso cui riportare chi non ha diritto d’asilo, il diritto europeo dà interpretazioni controverse. Una direttiva europea del 2013 e del Consiglio all’articolo 38 considera un Paese terzo “sicuro” solo nel caso sia garantito che “una persona richiedente protezione internazionale riceverà un trattamento conforme ai seguenti criteri: a) non sussistono minacce alla sua vita ed alla sua libertà per ragioni di razza, religione, nazionalità, opinioni politiche o appartenenza a un determinato gruppo sociale; b) non sussiste il rischio di danno grave definito; c) è rispettato il principio di “non-refoulement” conformemente alla Convenzione di Ginevra; d) è osservato il divieto di allontanamento in violazione del diritto a non subire torture né trattamenti crudeli, disumani o degradanti, sancito dal diritto internazionale; e) esiste la possibilità di chiedere lo status di rifugiato e, per chi è riconosciuto come rifugiato, ottenere protezione in conformità della Convenzione di Ginevra”.

Gran parte dei Paesi che con l’accordo di Lussemburgo dovrebbero essere considerati Paesi terzi sicuri in cui effettuare rimpatri (Tunisia, Libia, Egitto e Turchia ad esempio) sono ben lontani da tali condizioni. Si aggiunga che almeno finora, il diritto internazionale impone che debba sussistere un legame fra il richiedente asilo da espellere dall’UE e il Paese terzo preso in esame, che renda ragionevole il trasferimento. Ed ogni situazione andrebbe valutata caso per caso. La possibilità di ricorrere avverso il trasferimento va comunque garantita. Anche nell’accordo preso l’8 giugno, permane il fatto che l’inammissibilità a restare in territorio UE è condizionata al fatto che il Paese individuato come sicuro, in cui rimandare chi chiede protezione, assicuri il rispetto dei diritti del suddetto né sia minacciata la sua vita e la sua libertà ma diventa una condizione fondamentale la preesistenza di un collegamento fra chi chiede protezione e il Paese terzo preso in considerazione, anche basandosi sul fatto che vi sia transitato o che membri della sua famiglia siano ancora lì.
Piantedosi pretendeva che anche un transito temporaneo avrebbe potuto stabilire tale legame e portare a considerare inammissibile una richiesta d’asilo in Europa, ma tale richiesta è saltata anche se resta a rischio la posizione chi in detti Paesi è passato sarà probabilmente oggetto di stipula di nuovi accordi bilaterali.

Piantedosi e la stessa Meloni hanno cantato vittoria facendo notare come l’attenzione si sia spostata dai c.d. “movimenti secondari” (richiedenti asilo che giunti in un Paese UE cercano di raggiungerne un altro) e quindi i problemi che ne derivano per gli Stati continentali, ai c.d. “movimenti primari” quelli di arrivo nei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Ma ad oggi almeno nessun accordo di riammissione, nemmeno quello ben funzionante con la Tunisia, prevede di poter rimandare lì cittadini di altri Paesi e delle volontà del Presidente tunisino di cui abbiamo già parlato in apertura. Ad oggi si riesce – e con costi notevoli – a riportare a Tunisi, non più di 60 cittadini di detto Paese con 2 voli settimanali, difficile implementarne il numero in maniera significativa. Ad oggi, è bene ricordarlo, anche i respingimenti via mare risultano illegali in quanto la Tunisia non è considerata PoS (Place of Safety) porto sicuro.
A Lussemburgo non si sono poi stabiliti nuovi impegni UE per sostenere i rimpatri forzati di cittadini di Paesi terzi verso gli Stati da cui sono transitati. Per farlo sarebbe necessario modificare radicalmente la già citata direttiva rimpatri (115/2008), e questo ha tempi non brevi. Dovrebbe essere definito un nuovo regolamento, che sostituirebbe “Dublino”, che riduca i termini di ogni procedura. Oggi c’è un meccanismo complesso perché un richiedente asilo venga “dublinato”, cioè rimandato nel Paese in cui ha dovuto chiedere asilo. Questa sarà trasformata in una semplice notifica, resta il fatto che la responsabilità rimane ai Paesi di primo ingresso che restano competenti  per la domanda d’asilo per due anni. Il sogno salviniano della chiusura dei porti come strumento di ricatto, viene polverizzato.

La nuova proposta prevede una generica “cooperazione con i Paesi terzi per facilitare il rimpatrio e la riammissione”, si preoccupa del fatto che alcuni di questi Paesi potrebbero non collaborare e, in tal caso, si chiederebbero misure per rendere più efficace tale collaborazione ma si scontra con tempi lunghi e con la dubbia compatibilità rispetto al diritto internazionale che si è tenuti a rispettare. Sulla carta l’Italia, già col decreto Salvini nel 2018 (in questo punto non modificato), ha ristretto il campo delle persone che potevano accedere all’asilo, nel marzo 2023 si è ampliato il numero di “Paesi terzi” in cui poter rimpatriare i rispettivi cittadini, ma nel nostro ordinamento non esiste, ad oggi, la categoria di “Paese di transito sicuro”. Solo un nuovo regolamento pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale Europea potrebbe portare a ridefinire la legge in Italia.

Ma il fatto che tali cambiamenti richiedano tempo non deve indurre nessuno ad abbassare la guardia. Aumentano le risorse che verranno impiegate per fermare gli arrivi “illegali” e intanto si cerca di pianificare una strategia di rimpatri che, per l’ennesima volta, non solo si rivelerà inapplicabile e provocherà lutti, ma non servirà affatto a scoraggiare i tentativi di partenza in quanto le cause strutturali dei processi migratori non vengono intaccate. Se ai Paesi a cui si chiede di esternalizzare le frontiere si offrono enormi risorse, come è stato per la Turchia, si garantisce a chi li governa un enorme potere di ricatto; se si agisce lavorando sulle divisioni interne, finanziando quelli che sembrano i partner più affidabili (cfr Libia) ci si ritrova spesso privi di orientamento essendo gli scenari mutevoli; se non si erogano risorse adeguate (Tunisia) e addirittura si sponsorizzano le misure monetariste e speculative internazionali, non ci si può aspettare cooperazione.

Forse uno dei punti più forti di cui la politica dovrebbe tenere conto nel relazionarsi, anche per interessi beceri, come il contenimento delle persone in movimento, con i Paesi vicini, è che l’approccio neocoloniale è finito da un pezzo, che in un mondo multipolare non si può continuare a intervenire come facevano le potenze europee del XX secolo. Non è ad oggi possibile comprendere con quali risorse economiche e umane si potranno attuare piani di rimpatrio coatto, di ampliamento dei luoghi di detenzione amministrativa o di altra forma di trattenimento tali da soddisfare le speranze del vertice di Lussemburgo. L’accordo raggiunto parla di un impegno europeo che riguarda 30 mila persone, la metà di quelle giunte nel 2023 in Italia, lo stesso governo decisionista ha stanziato per i Centri Permanenti per i Rimpatri 42,5 mln di euro che dovranno bastare per 3 anni e che, se anche dovessero potenziare il numero di posti disponibili, resterebbero sempre (ed è già grave che ci sia tale ampliamento), una goccia nel mare, rispetto alle roboanti dichiarazioni europee. La stessa legge 50/2023 (orribile continuarla a chiamare “decreto Cutro”), non potrà divenire effettiva in assenza di un decreto che fissi (altra novità), l’entità delle risorse economiche che il richiedente asilo dovrebbe dimostrare di possedere, per evitare il trattenimento in attesa dell’esame della propria richiesta di protezione. Ci vorranno come minimo tre mesi, nel frattempo arriverà l’estate, il mare sarà migliore e la situazione nei luoghi di sbarco e di prima accoglienza sarà caotica, il tutto in un contesto, connesso alla dichiarazione dello “stato di emergenza”, per cui il potere delle Prefetture sarà ulteriormente amplificato. Assisteremo a sistemazioni delle persone in luoghi di fortuna, ad affidamenti diretti degli appalti, per la gestione della prima accoglienza, fatti in deroga e senza alcuno strumento di controllo.

Quindi mentre il governo si fregia del falso titolo di essersi imposto in Europa, assisteremo ai danni delle vecchie e nuove disposizioni governative, in primis la clandestinizzazione forzata delle tante e dei tanti a cui non verrà concessa protezione speciale. Il 10/12% dei soccorsi, realizzato dalle ONGporterà le navi umanitarie nei porti lontani dalla Sicilia e dalla Calabria ma la maggior parte delle persone salvate si ritroveranno in enormi centri di raccolta nei pressi dei porti siciliani, per cui già stanno partendo immense speculazioni. E il rischio che continui a calare la predisposizione ai soccorsi in mare, facendo ripetere naufragi annunciati come a Cutro sarà enorme. In assenza di nuove normative europee che vedranno la luce solo col nuovo Parlamento – si preannuncia più spostato a destra di quello in carica – sarà da vedere se e quando sarà possibile garantire il diritto alla difesa, in tutte le sue fasi, per chi chiede asilo. È facile prevedere che si proverà a mettere già in pratica quanto deciso a Lussemburgo, ad esempio escludendo da ogni forma di protezione, a prescindere, chi proviene da Paesi ritenuti dall’Italia sicuri, o le cui richieste d’asilo accettate sono inferiori al 20% di quelle presentate. C’è un contenzioso insanabile fra l’idea di Paese terzo sicuro, in cui si presuppone che la maggioranza degli abitanti non rischi trattamenti inumani e degradanti e ogni normativa sull’asilo a partire dall’art. 10 della Costituzione, che lo riconosce come diritto individuale. Non è giuridicamente accettabile che i dinieghi divengano prassi automatica per chi proviene dai “Paesi sicuri”, siano essi di transito o di origine.

Oggi il clima in Europa è peggiorato ma già in passato diversi governi italiani sono stati condannati per aver eseguito allontanamenti forzati, eseguiti a volte collettivamente, senza il necessario controllo dello stato di salute di chi veniva deportato, senza una sua sicura identificazione. Nell’estate che si prospetta, attiviste e attivisti dell’antirazzismo, legali e solidali, dovranno vigilare affinché non si verifichino violazioni e, in tal caso, essere pronti a denunciarle. Non si potrà essere timidi, cauti o riottosi, perché le decisioni prese nei punti di frontiera considerati “di crisi” (si pensi a Lampedusa), potranno godere dell’avallo del governo più a destra della storia repubblicana, della scarsità di reale opposizione politica e di reale informazione e, come se non bastasse, di un silenzio UE con cui comprare la complicità italiana.
Il ministro Piantedosi, uscito dal vertice di Lussemburgo, si è vantato di aver rifiutato i soldi. Si riferisce a quelli che, se e quando l’accordo europeo entrerà in vigore, dovranno sborsare i Paesi che rifiutano le ricollocazioni, anche temporanee, a coloro che invece li accetteranno. La vita di una persona da proteggere varrà allora 20 mila euro. L’Italia li rifiuterà per la nobile ragione che “non intende diventare il ricettacolo delle persone non accolte” e saranno destinati a piani europei per l’accoglienza. Vedremo, intanto ci si mobiliti per affrontare un’estate che si preannuncia rovente in tutti i sensi.

Stefano Galieni

14/6/2023 https://transform-italia.it

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