Tutti i diritti negati dalla legge sulla non autosufficienza

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Il Parlamento ha approvato la legge «in materia di popolazione anziana» che sottrae diritti esigibili sanitari ai malati non autosufficienti. Cosa servirebbe, invece, ma non c’è nella legge? Alcuni mirati interventi sulle norme già in vigore per una presa in carico sanitaria di malati e persone con disabilità non autosufficienti che riconosca anche le prestazioni di assistenza tutelare prestate da familiari o assistenti.

di Andrea Ciattaglia

Con un’operazione di studiata confusione comunicativa, il Parlamento ha approvato la legge delega «in materia di politiche per le persone anziane», pubblicata in Gazzetta ufficiale il 30 marzo 2023 con il numero 33. Fin dal titolo, è evidente, ma solo riconoscendone la deliberata dissimulazione, che l’operazione di vasta scala che la legge contiene e mette in moto ha come obiettivo i malati non autosufficienti, per ora over65, con estensione scontata agli adulti con disabilità considerati soggetti «assimilabili». Più corretto sarebbe quindi, come faremo in questo contributo, chiamarla legge sulla «non autosufficienza», come in effetti è citata nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), Missione 5, ed esplicitamente riconoscere che la norma riguarda la riforma dei servizi destinati agli over65 malati non autosufficienti, con prevedibile estensione a tutti gli adulti con grave disabilità e patologie tali da aver compromesso definitivamente la loro autonomia.

Fatta questa premessa, in estrema sintesi, la valutazione del testo è inequivocabile: questa «riforma» è una brutale quanto incisiva sottrazione di diritti, in particolare del diritto universalistico alle cure sanitarie, ad una parte rilevante della popolazione. Deliberatamente, il testo omette sempre la causa della condizione di non autosufficienza, cioè la grave carenza di salute determinata da gravi malattie, sottraendo ai destinatari della norma il diritto alla tutela della salute.

Altro che «‘Patto per la Terza età’ che pone le basi della riforma complessiva delle politiche in favore degli anziani e contro la loro marginalizzazione» come l’ha definito la nota della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, all’indomani dell’approvazione. E nemmeno, come continuava il comunicato di Palazzo Chigi, «il potenziamento dell’assistenza domiciliare con progetti individualizzati per scongiurare così il ‘parcheggio’ degli anziani nelle strutture sanitarie» o «più servizi e ausili per le situazioni di maggiore fragilità». Tutti rilievi senza riscontro concreto, peraltro sconfessabili da una lettura ragionata del testo di legge, che questo articolo si propone di guidare.

Provare a proporre alcuni interventi di breve e lungo periodo per ovviare alla negazione di diritti della legge – a partire dai decreti attuativi da approvare entro gennaio 2024, per restare nei tempi del Pnrr a cui la legge è stata agganciata – è l’altro proposito di questo articolo. L’obiettivo è fornire analisi e proposte per azioni di resistenza istituzionale, associazionistica e individuale rispetto ad un modello di negazione delle cure e delle tutele dei malati e delle persone con disabilità non autosufficienti. Un’azione necessaria che per essere efficace – a parere di chi scrive, per la sua quotidiana esperienza «sul campo» – deve essere unita alla concreta difesa organizzata dei singoli, vittime di questa negazione dei diritti.

ANALISI
Gli elementi chiave della legge.
Il testo della legge 33, con poche variazioni apportate in sede di discussione parlamentare, è il risultato di due pressoché identici disegni di legge governativi, approvati il 10 ottobre 2022 nell’ultima seduta del Governo Draghi, e con procedura d’urgenza il 19 gennaio 2023 da parte del Governo Meloni. La 33 è, quindi, una legge approvata su scrittura del Governo e che al Governo è immediatamente tornata per l’approvazione dei decreti attuativi, con una discussione parlamentare nelle commissioni Sanità e Affari sociali di Senato e Camera ridotta all’osso. Tappe forzate che più di un osservatore ha definito di dubbia costituzionalità, dato che limitano la sovranità del Parlamento, la cui attività viene compressa in scadenze predeterminate e indiscutibili, legate alle risorse del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR).

Nella legge, dopo tre articoli di «nulla legislativo» su invecchiamento attivo, turismo lento e «trasmissione del patrimonio culturale, linguistico e dialettale», il nucleo del provvedimento si trova agli articoli 4 (“Delega al Governo in materia di assistenza sociale, sanitaria e sociosanitaria per le persone anziane non autosufficienti”) e 5 (“Delega al Governo in materia di politiche per la sostenibilità economica e la flessibilità dei servizi di cura e assistenza a lungo termine per le persone anziane e per le persone anziane non autosufficienti”).

Snaa e Indennità di accompagnamento. Nel primo si delinea il distacco degli anziani malati non autosufficienti dal sistema di tutele vigenti per gli altri concittadini, specialmente in materia sanitaria. La legge prevede l’istituzione di un «Sistema nazionale per la popolazione anziana non autosufficiente» (SNAA, articolo 4, lettera b). Si tratta di un Sistema, e non di un Servizio come quello sanitario nazionale, «a parte», a cui destinare tutti i malati non autosufficienti ai quali non viene riconosciuto lo status – e i corrispondenti diritti – di malati. Trattati come «casi sociali» al massimo da «accudire» previa valutazione socio-economica (ma se avranno qualche risorsa, nessun servizio sarà attivato perché il settore di riferimento sarà quello delle politiche sociali e non quello della sanità).

Lo strumento di selezione all’ingresso del nuovo Sistema sarà la valutazione socio-economica (Isee) e sociale più in generale (famigliari, abitazione…): i decreti attuativi e ancor di più le Regioni saranno chiamati a definire le regole di esclusione di questa «fetta» importante di malati dal resto dei cittadini con gli stessi bisogni. Un esempio già accennato nel testo di legge è la prevista integrazione dei servizi di Assistenza domiciliare integrata – Adi (Sanità) e Sad – Servizio di assistenza domiciliare (Assistenza comunale), in modo da negare la prestazione sanitaria a chi non avrà i requisiti per quella comunale/sociale. La valutazione avverrà in fantomatici «punti unici di accesso (Pua), collocati presso le Case di Comunità», che lo stesso ministero della sanità ha messo in dubbio per carenza di professionisti.

All’utente dell’istituendo «Sistema» manca un riferimento unico, che risponda del servizio e sia responsabile – anche di fronte ad un giudice – della sua eventuale mancata erogazione. A questo soggetto – che non c’è, o meglio, che dovrebbe essere il Servizio sanitario nazionale come previsto dalla legge 833 del 1978 – sarebbe opportuno delegare la funzione di centro direttivo, gestionale e di erogazione delle risorse.

La legge prevede, invece, che il nuovo sistema sia governato dal “Coordinamento interministeriale per la popolazione anziana” (tutta, dai vecchi malati senza autonomia a quelli amministratori delegati di aziende multimilionarie!), «presieduto dal Presidente del Consiglio dei ministri o, su sua delega, dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali, è composto dai Ministri del lavoro e delle politiche sociali, della salute, per la famiglia, la natalità e le pari opportunità, per le disabilità, per gli affari regionali e le autonomie, dell’economia e delle finanze o loro delegati». C’è chi ha osservato che c’è dentro «mezzo governo»; è la garanzia che le decisioni saranno al ribasso per chi ha più bisogno e che non sarà individuabile un soggetto responsabile.

All’articolo 5 della legge viene delineata la strategia di «aggressione» dell’indennità di accompagnamento, unica riserva consistente di risorse prevista dalla norma, da sottrarre alla disponibilità «cash» e disintermediata degli utenti. La legge indica dove trovare le risorse per gli interventi domiciliari per i malati non autosufficienti. Dove ci sono già: le risorse Inps dell’indennità di accompagnamento sulle quali malati e famiglie oggi hanno pieno controllo di spesa. La legge (articolo 5, comma 2, a) 1)) prefigura una riforma epocale della misura, con l’introduzione per i malati cronici non autosufficienti «di una prestazione universale graduata secondo lo specifico bisogno assistenziale», (attenzione, non «clinico»), mentre oggi viene data «al solo titolo della minorazione», in base alla legge 18 del 1980.

La prestazione sarà erogabile «in forma di trasferimento monetario e di servizi alla persona». É vero che la scelta, anche reversibile, spetterà all’utente, ma è facile immagine che i progetti di presa in carico saranno costruiti considerando l’indennità come parte del finanziamento dello stesso e non più cifra liberamente spendibile dall’utente, oggi non considerabile come reddito e nemmeno rilevante ai fini dell’Isee.

Le premesse della legge. Per capire la traiettoria di lungo periodo in cui s’inserisce la legge 33 è necessario allargare lo sguardo.Le premesse formali della legge sono state scritte prima dei disegni di legge del governo. Nel maggio 2020 il Consiglio Superiore di Sanità (Css) scriveva nel documento “Invecchiamento della popolazione e sostenibilità del Servizio sanitario nazionale”: «Deve nascereun Servizio nazionale per la Ltc (Long term care, le cure di lunga durata che gli esperti del Css intendono esclusivamente in campo assistenziale e non sanitario, ndr)che ha come missione le politichesocio-assistenziali e socio-assistenzialiper la Ltc, escludendo le prestazionisanitarie che rimangono in capoal Servizio sanitario nazionale. Esso potrebbe dedicarsi siaal target anziani, sia al target disabiliadulti. Esso può essere finanziato ricomponendotutte le risorse pubblichein gioco: fondi Inps per la Ltc (l’appena citata «Indennità di accompagnamento»),spesa socio-sanitaria del Servizio sanitario nazionale per le Long term care (in sostanza, gli interventi per tamponare situazioni di «acuzie», ndr)e spesa degli enti locali, cioè i Comuni sui quali, insieme alle famiglie, si scarica il peso dei diritti negati. La proposta di istituire un Servizio nazionale per la Long term care, istituzionalmente ed organizzativamente autonomo dal Servizio sanitario, rientra nel disegno di procedere alla progressiva espulsione delle persone non autosufficienti con patologie cronico degenerative e dei disabili gravi dal diritto ad usufruire pienamente delle prestazioni che il Servizio sanitario fornisce alla generalità dei propri assistiti. Disegno lucidamente perseguito sin dal 1983, da tutti i Governi nazionali che si sono succeduti, attraverso la strumentalizzazione del concetto di integrazione tra sanità ed assistenza sociale con l’unico scopo di ridurre la spesa sanitaria.

In coerenza con questa linea, è la «partita» dell’indennità di accompagnamento. Il documento del Consiglio superiore di sanità lanciava l’idea – non proprio originale – di finanziare il nuovo servizio, nel frattempo divenuto il Sistema SNAA, con i soldi che già ci sono, operando una «razionalizzazione» delle modalità di impiego delle risorse disponibili.

Per dirla più chiaramente: si prefigurava di «mettere le mani» sui fondi destinati dall’Inps a finanziare le indennità di accompagnamento e far pagare, agli utenti non autosufficienti e alle loro famiglie, una parte consistente delle prestazioni che verranno fornite dai soggetti privati (profit e non profit) individuati dalle norme istitutive del nuovo servizio. «A titolo di esempio è immaginabile – è scritto nero su bianco nel documento – definire un percorso di co-partecipazione per tutti in funzione del reddito in modo da eliminare le barriere di accesso alle strutture protette per la classe media, così come il valore dei trasferimenti potrebbe esser modulato su reddito e patrimoni dell’anziano, aumentando il valore dei contributi pubblici ai meno capienti e abbassandolo ai più benestanti». La traduzione dal «burocratese» dovrebbe mettere in allarme la maggior parte della popolazione, considerando il fatto che nei documenti e nelle procedure tecniche relativi alla valutazione sociale, quando si accenna a persone «benestanti» alle quali ridurre le tutele, si considerano anche i proprietari di una prima casa di abitazione con un reddito medio basso.

Futuro antico. Da direttore della storica testata “Prospettive assistenziali” (oggi “Prospettive. I nostri diritti sanitari e sociali”), chi scrive osserva, a conclusione dell’analisi del provvedimento e prima di passare alle proposte, che è impressionante come per individuare i nodi critici della legge 33 e dell’impostazione culturale che la sostiene si possano utilizzare senza variazioni le parole che vennero utilizzate oltre vent’anni fa nel condannare la proposta di legge che poi portò all’approvazione della legge 328/2000. Anche allora, la negazione dei diritti per i malati non autosufficienti era palese. Moltissime associazioni e organizzazioni non vollero vederla e denunciarla, scaricando sui cittadini più deboli le conseguenze drammatiche di «una legge senza diritti» che però – proprio come quella appena approvata – confinava i non autosufficienti in un settore senza tutele.

«Il testo in esame – è scritto su “Prospettive assistenziali” 128, ottobre-dicembre 1999 – prevede il trasferimento della competenza ad intervenire, nei confronti degli anziani colpiti da malattie invalidanti (cancro, demenza, pluripatologie, ecc.) e da non autosufficienza, dalla sanità (che attualmente deve curarli in base a leggi vigenti dal 1955) all’assistenza, con le seguenti conseguenze: 1) passaggio dalla gratuità al pagamento da parte dei degenti di rette ammontanti anche a 100-140 mila lire al giorno; 2) perdita del diritto esigibile alle cure sanitarie, ricoveri compresi, e assegnazione degli interventi alla discrezionalità dell’assistenza e quindi con l’inserimento nelle liste di attesa, anche di 2-3 anni, per il ricovero in case di riposo e altre strutture assistenziali (residenze protette, ecc.)».

E ancora: «Per quanto riguarda i malati di Alzheimer e sindromi correlate e gli anziani sofferenti a causa di altre infermità inguaribili (…) l’articolo 15 del testo in esame prevede che restino ferme ‘le competenze del Servizio sanitario nazionale in materia di prevenzione, cura e riabilitazione per le patologie acute e croniche, particolarmente per i soggetti non autosufficienti’. Questa formulazione non conferma, come potrebbe apparire a prima vista, la totale (o almeno la primaria) competenza del Servizio sanitario nazionale, così come avviene per i malati giovani e adulti. Stabilisce, invece, che il Servizio sanitario nazionale deve intervenire esclusivamente per quanto concerne le prestazioni mediche, infermieristiche e riabilitative e non in merito a tutti gli altri aspetti» di tutela della salute, che pure erano e sono tutt’ora di competenza sanitaria in base all’articolo 32 della Costituzione.

Veniva allora evidenziato, fatto di rilevante importanza, che «per le altre competenze riguardanti il soggetto malato (ammissione, scelta del posto letto, dimissione, norme sulla idoneità dei locali, qualificazione e numero degli addetti, oneri economici a carico dell’utente, ecc.) le disposizioni di riferimento non sono più quelle del Servizio sanitario nazionale, ma del settore assistenziale. Di conseguenza, l’utente non ha più il diritto esigibile alle cure del Servizio sanitario nazionale, ma le sue istanze rientrano nel settore dell’assistenza/beneficenza, le cui prestazioni sono – salvo casi del tutto eccezionali – di gran lunga meno valide rispetto a quelle che la legge impone alla sanità».

Le risorse. Detto che il problema fondamentale della legge 33 è l’enorme sottrazione di diritti fondamentali di cura e di tutela della salute, il tema delle risorse economiche è importante. Per qualificare l’impegno dello Stato nell’incremento delle tutele e dei servizi nell’ambito della legge 33, basta riportare per intero l’ultimo comma dell’articolo 8, “Disposizioni finanziarie”: «Dall’attuazione delle deleghe recate dalla presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. A tale fine, agli adempimenti relativi ai suddetti decreti, le amministrazioni competenti provvedono con le risorse umane, finanziarie e strumentali, in dotazione alle medesime amministrazioni a legislazione vigente». A «comandare» l’intervento dei servizi, dunque, non sarà la domanda, ma i fondi stanziati prevalentemente nell’incerto, e non universalistico per dettato costituzionale, ambito sociale.

Sappiamo, invece, che la presa in carico dei malati non autosufficienti ha necessità di più risorse (che ci sono, come dimostrano gli stanziamenti per altri capitoli di spesa – anche improvvisi – mai soggetti a limitazione nel bilancio dello Stato) e di un riconoscimento della tutela della salute a casa attraverso un maggiore impegno della sanità, universalistica, accessibile a tutti senza valutazione socio-economica o limitazione preventiva delle risorse, nelle attività di assistenza tutelare. Quest’ultimo obiettivo è fondamentale per la tutela della salute dei malati non autosufficienti a domicilio e per il rispetto del diritto ad una vita dignitosa dei loro parentiche se ne prendono cura.

La lunga esperienza acquisita nella lotta contro l’emarginazione sociale dei più deboli dalle organizzazioni del volontariato dei diritti (Coordinamento sanità e assistenza tra i movimenti di base e Fondazione promozione sociale, per citare quelle conosciute dal di dentro da parte di chi scrive) dimostra in modo incontrovertibile che le iniziative che sono state di maggior aiuto per le persone in gravi condizioni personali e sociali non sono state quelle relative all’assistenza o ai servizi sociali, bensì quelle riguardanti la conquista di un diritto per tutti, che tenesse conto delle esigenze dei più deboli fra gli utenti e desse loro adeguata risposta. Ancora più a monte, la vera prevenzione dell’esclusione non si realizza quasi mai con gli interventi dei servizi sociali e dell’assistenza (preposti proprio alla gestione delle persone e dei nuclei familiari posti ai margini della società), ma operando affinché tutti i settori di interesse sociale (sanità, scuola, ecc.) siano predisposti in modo da accogliere pienamente e insieme agli altri, anche le persone più deboli.

PROPOSTE
L’analisi fin qui proposta costringe, in un certo senso, a fornire delle soluzioni di lungo periodo (è il caso del primo dei seguenti punti, sul Servizio sanitario), e delle proposte operative concrete anche in vista dei necessari interventi sui decreti attuativi della legge.

Il SSN, ente unico per i Livelli essenziali. La doverosa assunzione dell’obiettivo di realizzare una efficace integrazione delle prestazioni per i malati non autosufficienti e per le persone con grave disabilità – sia per quanto attiene alle diverse valenze specialistiche sanitarie che per quelle sociali (che, in molti casi, sarebbe molto più opportuno qualificare come “relazionali”) – presuppone che esse siano affidate ad un sistema di servizio unitario che non può che essere individuato nel Servizio sanitario nazionale. Potremmo così riassumere la proposta: la titolarità istituzionale delle valenze sociali dei livelli essenziali deve essere assegnata ad un solo ente, il Servizio sanitario nazionale.

È, ovviamente, un percorso diametralmente opposto a quello del «Sistema nazionale per la popolazione anziana non autosufficiente – SNAA». La collocazione degli interventi afferenti alla cosiddetta area dell’integrazione socio-sanitaria (quella in cui oggi sono confinati i malati non autosufficienti, per capirci) in capo esclusivamente alle Aziende sanitarie consentirebbe, infatti, di creare unità operative polivalenti sia per quanto attiene al sanitario che al sociale. Chi assume la direzione dell’unità operativa avrebbe la piena responsabilità della gestione di tutto il personale assegnato (assunto dall’Azienda sanitaria o pervenuto in mobilità dai Comuni) e ciò consentirebbe di superare ogni motivo di conflitto generato dell’appartenenza ad enti diversi e quindi di orientare ed organizzare gli interventi in modo da garantire la centralità dell’utente malato/con grave disabilità non autosufficiente. Occorrerebbe, in sostanza che siano chiari i diritti delle persone, definiti i soggetti istituzionali deputati a garantirli e certe e adeguate le risorse di cui questi ultimi devono poter disporre.

Per arrivare a ciò è indispensabile indicare un solo soggetto istituzionale ed organizzativo (l’Asl) – e non due (Asl e Comuni o addirittura tre se si mette in campo l’Inps) – che sia tenuto ad assicurare le prestazioni, previste per diritto, dalla fase di valutazione a quella di definizione, attuazione e verifica del progetto di cura. Allo stesso modo occorre che vi sia un unico organismo a governare il sistema onde evitare che si verifichi quello che oggi accade: l’impotenza dei cittadini di fronte al palleggiamento delle responsabilità tra le istituzioni ed i servizi che esse governano.

È fondamentale che questo Servizio unico a garanzia dei Livelli essenziali sia il Servizio sanitario nazionale e non quello sociale, perché il primo ha ancora oggi, nonostante la legge 33, il dovere costituzionale e legale di prestare tutte le cure necessarie e per tutto il tempo richiesto a tutte le persone alle quali sia stata certificata la condizione di malattia, sia essa fisica e/o psichica: compresi ovviamente i malati cronici non autosufficienti ed i disabili gravi di qualunque età.

Per queste ragioni dovrebbe essere del tutto evidente che l’unica vera ed efficace assicurazione sul benessere e sulla tutela della salute di noi cittadini è il Servizio sanitario nazionale, che già finanziamo con una componente specifica del gettito dell’Imposta Regionale sulle Attività Produttive (Irap) e con l’addizionale regionale dell’Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche (Irpef).

Grazie alla legge n.833/1978, istitutiva del Servizio sanitario nazionale, è stata data efficace attuazione al diritto alla salute sancito dall’articolo 32 della Carta costituzionale. E, laddove non è o non è stato così, è possibile, proprio in funzione della legge, rivendicare il diritto negato, fino al ricorso alla magistratura. É proprio tornando a questa legge – letta nella versione originaria e dunque depurata dagli effetti deleteri della aziendalizzazione del sistema sanitario, introdotta dal decreto legislativo n. 502/1992 e sostanzialmente confermata dal successivo decreto legislativo n. 229/1999 – che si può recuperare l’ancor oggi valido «comunitarismo» che la ispirava.

Cure domiciliari. Le grandi assenti della legge 33 sono le cure domiciliari, nella forma di interventi che rispondano davvero, in modo appropriato alle esigenze dei malati e delle persone con disabilità non autosufficienti, che sono in primo luogo (a volte unico) esigenze di tutela della loro residua salute, fin nelle più elementari funzioni della vita quotidiana. Alla luce di questa carenza fondamentale è opportuno riprendere qui le osservazioni puntuali su tema sviluppate da Maurizio Motta, docente all’Università di Torino, ex funzionario dei Servizi sociali del Comune di Torino, esplicitate per la prima volta nell’evento pubblico «Dal ddl non autosufficienza alla vera garanzia delle cure», svoltosi il 26 gennaio 2023 al Centro Servizi per il Volontariato di Torino, e poi rilanciate su «Welforum – Osservatorio nazionale sulle politiche sociali».

Potenziare l’assistenza domiciliare richiede, ha osservato Motta, «di aumentare le capacità degli interventi sanitari a domicilio: infermieristici, diagnostici (come la radiologia domiciliare e i prelievi per esami), riabilitativi, e il superamento dell’intervento del medico di medicina generale come operatore che lavora da solo, ma soprattutto richiede di fornire molti più sostegni per la tutela negli atti della vita quotidiana (andare a letto ed alzarsi, usare i servizi igienici, essere lavati, alimentarsi, vestirsi). è proprio la mancanza di questi sostegni che oggi costringe a ricoveri indesiderati in Rsa, o ad opporsi alle dimissioni dall’ospedale, o a portare per disperazione i non autosufficienti al Pronto Soccorso, o al crollo od impoverimento delle famiglie».

La direzione presa dal Piano di ripresa e resilienza non dà garanzie in questo senso. Il Pnrr (purtroppo) finanzia soprattutto il potenziamento dell’Assistenza domiciliare integrata (Adi) come è ora (infermieri a domicilio, in alcune Regioni a volte con poche ore di Operatore socio sanitario – Oss), con un budget stimato fino al 2025 di circa 3 miliardi di euro. Quindi, nella legge 33 non c’è un adeguato impegno strategico per potenziare l’offerta di supporti domiciliari tutelari negli atti della vita quotidiana. L’articolo 4, al punto 3, lettera n) si limita a prevedere l’integrazione tra Adi e Sad (il Servizio di assistenza domiciliare sociale dei Comuni), formulazione troppo generica, che non fa comprendere cosa deve accadere, e che non implica alcun aumento degli interventi di tutela a domicilio.

Assistenza domiciliare tutelare. Per potenziare la presa in carico domiciliare tutelare non bastano poche ore di operatore sociosanitario (Oss) oppure con denaro alle famiglie, perché ci sono molti non autosufficienti che vivono con persone che da sole non riescono ad usarlo.

Occorre invece un’assistenza domiciliare che si articoli in più modalità possibili, da concordare con la famiglia per adattarle alla specifica situazione: assegni di cura per assumere lavoratori di fiducia da parte della famiglia (ma anche con forti supporti per reperirli e per amministrare il rapporto di lavoro, ove la famiglia non sia in grado di farlo), contributi alla famiglia che assiste da sé, affidamento a volontari, buoni servizio per ricevere da fornitori accreditati assistenti familiari e pacchetti di altre prestazioni (pasti a domicilio, telesoccorso, ricoveri di sollievo, piccole manutenzioni, trasporti ed accompagnamenti), operatori pubblici (o di imprese affidatarie) al domicilio.

Il meccanismo migliore, indicato da Maurizio Motta, che qui si ripropone, è fatto di tre passaggi: «1) la valutazione multidimensionale individua un grado di non autosufficienza abbinato a un budget di cura da usare, crescente al crescere della non autosufficienza, 2) si compone il budget di cura con 50% di risorse del Servizio sanitario nazionale, e 50% dell’utente e/o dei servizi sociali dei Comuni (se l’utente non è in grado di pagare la sua quota), 3) si trasforma il budget nell’intervento che è più utile in quel momento, potendo modificarlo nel tempo. E questo peraltro è proprio il percorso che già opera per l’inserimento in Rsa, dove il ‘budget di cura’ è la retta che viene pagata».

Il ruolo del Servizio sanitario nazionale. «Qualunque famiglia (o operatore sanitario che interviene a casa) sa molto bene che è inutile una buona assistenza sanitaria al domicilio senza sostegni del non autosufficiente nelle funzioni della vita quotidiana», ha osservato ancora Motta. «Ma questi sostegni non possono essere a carico solo delle famiglie o dei servizi sociali dei Comuni; devono invece essere sotto la titolarità primaria del Servizio sanitario nazionale e con una sua compartecipazione finanziaria».

Ecco le ragioni di tale posizione, per punti:

a) Perché già succede: i Livelli essenziali di assistenza sanitaria e socio-sanitaria (Lea) vigenti già prevedono che il costo in Rsa sia metà a carico del Servizio sanitario nazionale; costo che copre non solo le spese sanitarie o di professioni sanitarie, ma tutte le prestazioni di tutela della vita in Rsa (costo di tutti i dipendenti, dei pasti, delle pulizie, etc). Dunque, perché non deve accadere lo stesso nell’assistenza domiciliare prevedendo che se la stessa persona è assistita a casa la tutela sia in parte a carico del Servizio sanitario nazionale? Non prevederlo implica che per le stesse tipologie di malati non autosufficienti il Servizio sanitario di fatto incentiva solo il ricovero, come accade oggi. Superare questa assurda contraddizione, per far sì che il malato cronico non autosufficiente riceva analoghe risorse del Servizio sanitario per la sua tutela quando è in Rsa o quando è a casa, deve avvenire prevedendolo entro i Lea sociosanitari.

È possibile farlo? Sì, la via tecnica è la modifica puntuale, quasi chirurgica dell’attuale Dpcm n. 15 del 12 gennaio 2017 sui Lea, con l’inserimento (articolo 22 delle prestazioni sanitarie che lo Stato è obbligato a fornire) del riconoscimento delle prestazioni informali di «aiuto infermieristico e assistenza tutelare alla persona», con corrispondente assegno di cura sanitario destinato a riconoscere l’attività dei famigliari o di assistenti famigliari regolarmente assunti.

b) Perché il Servizio sanitario nazionale oggi spende circa 150 euro al giorno per un posto in case di cura post ospedaliere, e per degenze spesso inappropriate perché molte volte sono «posteggi» in attesa che diventi disponibile un posto in Rsa o in assistenza domiciliare. E il Servizio sanitario nazionale spende intorno ai 40 euro al giorno per la parte sanitaria della retta in Rsa (il 50% del costo totale). Con spesa minore potrebbe coprire il 50% del costo di una robusta assistenza domiciliare tutelare. Non sarebbe un significativo risparmio interno allo stesso Servizio sanitario?

c) Perché dove questo è accaduto (ad esempio in Torino e in un’altra Asl piemontese, col concorso finanziario Asl negli interventi domiciliari) l’offerta ai non autosufficienti diventa più consistente. Garantire a un malato non autosufficiente poche ore settimanali di Oss al domicilio serve ad evitare il ricovero in Rsa solo per le famiglie che possono aumentare queste ore con proprie risorse, ed è inutile per le famiglie che hanno meno risorse proprie.

d) Perché i non autosufficienti sono tali in quanto malati o con esiti di patologie. Dunque, è un’area di problemi sulla quale dovrebbe essere chiara la titolarità primaria del Servizio sanitario nazionale, anche nella spesa e nel governare il sistema delle offerte. E non basta invocare una generica «integrazione sociosanitaria» (come purtroppo fanno anche i vigenti Lea).

Diritti esigibili. Molte Regioni e Asl utilizzano (specialmente per gli interventi per i non autosufficienti) il criterio di intervenire «solo se e quando ci sono risorse finanziarie», il che trasforma quelli che dovrebbero essere diritti esigibili (pure previsti nei livelli essenziali delle prestazioni) in precari diritti «finanziariamente condizionati». Purtroppo, è lo stesso spirito che anima la legge 33. E che non garantisce diritti certi nemmeno a quei non autosufficienti non solo – come tutti – malati, ma anche in situazione di indigenza economica.

È necessario, al contrario, che si arricchiscano i contenuti dei Lea sociosanitari. E occorre farlo per dare agli interventi natura di diritti davvero esigibili dai cittadini, ossia per far ricevere gli interventi essenziali e non solo «un posto in lista d’attesa». Ed è bene che ciò avvenga entro i Lea sociosanitari perché sono la normativa più consistente prevista a questo scopo, per il profilo giuridico che hanno i diritti entro i Lea. Inoltre, è bene che i Lea restino il principale contenitore che regola il Servizio sanitario nazionale, senza frantumare la normativa e per non depotenziare il loro ruolo.

Compartecipare come in Rsa. Il tema della contribuzione dell’utente con sue risorse è determinante. Ancora Motta: «Il budget di cura utilizzabile per l’assistenza domiciliare (ossia la spesa dalla quale ricavare il piano di assistenza) deve essere costruito con lo stesso meccanismo di quello per l’assistenza residenziale perché non deve esistere alcuna forma di ‘convenienza economica’, né per le famiglie né le amministrazioni, che influenzi la scelta tra le due forme/setting di cura, scelta che deve invece derivare soltanto dall’appropriatezza clinica e dalla preferenza dei cittadini». Inoltre, al contrario di cosa accade ora in norme nazionali e regionali, la valutazione della condizione economica non deve essere usata per determinare l’accesso alle prestazioni (che va invece previsto soltanto in base alle condizioni di non autosufficienza) ma unicamente per identificare la successiva contribuzione al costo degli interventi che è a carico del cittadino. Altrimenti, come oggi, accade che con l’Isee vengano esclusi dagli interventi migliaia di malati non autosufficienti.

Andrea Ciattaglia è direttore della rivista “Prospettive. I nostri diritti sanitari e sociali”, voce del Csa – Coordinamento sanità e assistenza e della Fondazione promozione sociale, storiche organizzazioni di promozione e tutela dei diritti dei malati non autosufficienti e delle persone con grave disabilità.

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