UN ABBRACCIO ALLA DEMENZA
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INTERVISTA AD ANTONELLA LEGATO, FONDATRICE DELL’ASSOCIAZIONE “UN ABBRACCIO ALLA DEMENZA” E OPERATRICE SOCIO – SANITARIA E A VALENTINA FERRUA, PSICOLOGA.
A cura di Rita Clemente
Il problema delle demenze purtroppo è un problema che attualmente è molto diffuso sul territorio e riguarda molte persone più o meno anziane e le loro famiglie. Specialisti, strutture sanitarie e assistenti familiari spesso non sono attrezzati per gestirlo nel migliore dei modi. Antonella Legato, fondatrice del- l’Associazione “Un abbraccio alla demenza” e operatrice socio – sanitaria e la psicologa, dottoressa Valentina Ferrua, operanti in Chieri (To), ci aiutano a comprenderne, attraverso questa intervista, le problematiche, le criticità dell’approccio al problema e le possibili azioni o iniziative per affrontarlo nel mi- gliore dei modi. Comincerò con il rivolgere qualche domanda in merito ad Antonella Legato.
Come hai cominciato, Antonella, a interessarti di demenze?
Antonella Legato Ho incominciato per caso. La madre del mio compagno aveva questo problema e nessuno sapeva gestire la situazione. Io stavo riorganizzando la mia vita, stavo chiudendo un’azienda. Mi sono presa a cuore il caso e ho cominciato a seguire la signora, con molto coinvolgimento ed empatia. Cercavo di tenere conto della sua sensibilità, di assecondarla, mai di contrariarla. La signora era affetta da demenza vascolare. Questi tipi di malattia portano anche manifestazioni di aggressività che però non vanno enfatizzate perché al- trimenti contribuiscono a rafforzare lo stigma.
Poi, da autodidatta, ho fatto studi e ricerche sul problema. Ho cominciato a lavorare sui social, l’unico modo di rapportarmi con il mondo. Attraverso Face Book, ho conosciuto i casi di tante famiglie in tutta Italia e ho capito che il problema era molto diffuso. Mi sono anche rapportata con professionisti del settore, conosciuti a livello nazionale. Apprendevo sempre di più e il rapporto fra me e lei funzionava! La sua aggressività era smussata.
Quali sono le cause della malattia?
Le cause possono essere tante: cause genetiche, depressione, abuso di farmaci, alimentazione scorretta, problemi vascolari. Oppure traumi come perdita di figli persone care scomparse prematuramente. Dopo un forte trauma, la malattia si può manifestare anche a distanza di qualche anno. Se si tratta solo di depressione, la persona è consapevole del suo stato, se si tratta di demenza non lo è. I sintomi sono vuoti o confusioni di memoria oppure comportamenti anomali come nascondere le proprie cose perché non le rubino, attaccamento morboso a oggetti familiari per il timore che qualcuno se li porti via. Modificazioni dell’umore o cambiamenti regressivi di tipo cognitivo. Questi comportamenti anomali possono essere pericolosi per l’incolumità stessa delle persone. Ad esempio, far bollire l’acqua con dentro il detersivo e farvi cuocere la pasta.
Come si manifestano i sintomi e come si possono affrontare sul piano medico?
Purtroppo, molte persone anziane vivono sole e i parenti non sempre si accorgono per tempo di questi segnali inquietanti. Che si tratti poi di demenza, neppure il medico lo può decidere solo sulla base di fatti riferiti, a meno che non si producano delle prove. A quel punto si prescrive una visita specialistica di geriatria oppure di neurologia. Vi sono anche degli psicogeriatri che possono prendere a cuore il problema. Il percorso corretto è il seguente: oc- corre l’impegnativa del medico di base che prescrive la prima visita psicoge- riatrica presso un CDCD (Centro Disturbi Cognitivi Demenze) della ASL di ri- ferimento. Successivamente, i controlli dovranno essere periodici e fatti con una certa frequenza. Nella fase iniziale si può fare qualcosa per tenere sotto controllo la perdita di memoria. I familiari che convivono o seguono la persona affetta da demenza possono spiegare il problema in base alle loro perce- zioni, però non sono in grado di spiegarne le dinamiche. A quel punto, il medico non può fare altro che prescrivere dei farmaci specifici.
In realtà spesso la questione nasce dall’incapacita’ del familiare di entrare in relazione comprendendo che determinati episodi di ansia o di agitazione manifestano dei disagi che la persona malata non sa esprimere.
Dunque cercare di “far ragionare” o arrabbiarsi perché la persona “non comprende” rischia di peggiorare la situazione, arrivando anche a episodi di aggressività.
In mancanza di competenze adeguate, il familiare non si rende conto che de terminate dinamiche dipendono anche da eventuali errori di approccio da parte sua, la sua percezione è che il suo caro sia diventato agitato o aggressivo esclusivamente a causa della malattia, mentre non si rende conto che con un approccio adeguato lo scenario potrebbe modificarsi in maniera positiva.
Questa inconsapevolezza fa si che il familiare descriva al medico la sua percezione che non necessariamente è quella corretta.
Cosa può fare a quel punto il medico se non prescrivere psicofarmaci sedativi?
I farmaci possono calmare la situazione sul momento ma terminato l’effetto il rischio è che in mancanza di un approccio adeguato la dinamica negativa si ripeta così come poi si ripete la somministrazione del farmaco sedativo.
I farmaci prescritti annientano la persona accelerando anche il processo di degenerazione della malattia.
Ecco perché è importante lavorare sulla relazione, sapendo mantenere tranquilla la persona attraverso una relazione positiva e capacitante, evitando così episodi di aggressività ma, cosa ancora più importante, si evita anche la somministrazione eccessiva di psicofarmaci.
Il punto focale è che i farmaci NON CURANO NÉ GUARISCONO, semmai calmano le situazioni.
Ma annientano anche le capacità residue che è importante mantenere finché è possibile, proprio per mantenere la dignità della persona.
La demenza non si esprime necessariamente attraverso manifestazioni di aggressività. Questa viene fuori di solito in seguito a situazioni di ansia, di disorientamento, di conflittualità con il familiare, dovute a carenze di compren- sione. A volte la “logica” del malato si scontra con i dati di realtà, esempio quando si vedono o si vorrebbe interagire con persone che non ci sono più. A quel punto, occorrerebbe abituarsi a guardare il mondo con i suoi occhi, a rendere plausibile la sua visione che significa comprendere il suo bisogno.
Faccio un’altra puntualizzazione. Spesso questa patologia viene definita “demenza senile”, come se riguardasse solo ed esclusivamente persone di età avanzata, ma così non è, purtroppo. Sempre più spesso vengono colpiti soggetti di 50/60 anni, altro motivo utile a interrogarsi anche sulla riorganiz- zazione dei contesti di accoglienza per le persone che si ammalano.
E’ importante la relazione per controllare i suoi stati d’ansia e rendere al malato accettabile la realtà?
Certo, molto importante è la funzione del “care giver” nella relazione con il malato. Il care giver deve essere una persona molto preparata ad affrontare questo genere di patologie, anche per non incorrere egli stesso in situazioni di ansia non gestibile. E purtroppo in Italia non c’è sufficiente formazione e informazione per le persone che si trovano a dover ricoprire questo delicatis- simo incarico. Dopo il covid però sono aumentati i corsi per formare i care givers, anche on line. E questo è molto importante, perché il familiare che si prende cura dell’anziano affetto da demenza può a sua volta percepirsi come vittima di una situazione molto stressante e può mettere in allarme an- che gli altri familiari oltre il dovuto. I geriatri che seguono i pazienti dovrebbero prendersi cura anche dei familiari, offrendo materiale informativo o dando la disponibilità per colloqui privati. Però è ancora troppo poco. Occorre maggiore diffusione di strumenti di informazione, come libri, tutorial.
Molto utili anche i gruppi di auto aiuto, come quelli tra parenti che seguono familiari aflitti da Alzheimer.
E’ anche molto utile inserire i pazienti e/o i familiari in qualche percorso di recupero cognitivo, che può essere attivato anche da Associazioni in strutture sanitarie. Alle famiglie di solito è richiesto un contributo per finanziare le attività.
Tu, Antonella, hai fondato un’Associazione che si occupa di demenze. Quali attività svolgete?
Sì. La mia Associazione si chiama “Un abbraccio alla demenza”, anche perché è proprio l’abbraccio il primo tipo di approccio che si dovrebbe avere. Occorre trasmettere una sensazione di vicinanza, calore, affetto.
La metafora dell’abbraccio dovrebbe poi estendersi anche ai familiari e a tutti i professionisti della “presa in carico”: legali, psicologi, musicoterapisti, educatori, me- dici, il CAF ecc. Si tratta di sentirsi parte di una grande comunità.
Qual è, Antonella, la tua funzione specifica?
Io, oltre ad avere fondato l’Associazione, sono anche diventata “operatrice socio – sanitaria”. Continuo soprattutto a lavorare sulla relazione. Di solito tengo i contatti con i familiari. I parenti “caregiver” dei malati, avendo a loro volta anche altri carichi di famiglia, cercherebbero degli assistenti familiari. E anche questi andrebbero formati adeguatamente sulla specificità di questa patologia, che non richiede solo assistenza sanitaria, ma anche, e forse soprattutto, relazione empatica. Attraverso il sostegno ricevuto, qualora i pa- renti riescano poi a mettere in pratica i consigli ricevuti, la situazione può evolvere verso un cambiamento più favorevole ed equilibrato, più rispettoso dei bisogni emotivi sia del paziente che del familiare “caregiver”.
Purtroppo, attualmente la situazione per i parenti con carichi familiari non è delle più felici. Gli assistenti familiari eventualmente offerti dalle Agenzie avrebbero un costo di 15 euro all’ora, ma le famiglie di solito non possono sostenere un costo così elevato per usufruire di personale adeguatamente formato. Pertanto, il più delle volte si avvalgono dell’aiuto di persone stranie- re, che si accontentano di retribuzioni più basse, ma che non sono adeguatamene formate per seguire questa tipologia di pazienti.
Le stesse badanti del resto, spesso poste di fronte a carichi di lavoro eccessivi con persone che richiedono molta attenzione e una continua sorveglianza, possono, a loro volta, andare soggette a crisi di ansia o di panico.
E’ che non si lavora ancora abbastanza sulla domiciliarità della cura. Basterebbe dare un aiuto economico alla famiglia, ma le scelte politiche passate e attuali spingono invece verso l’istituzionalizzazione, ovvero il ricovero del paziente anziano nelle RSA. Ora, le istituzioni, come ad esempio la Regione, di solito erogano un contributo, a seconda del reddito, per il paziente ricoverato in RSA. Se quel contributo venisse concesso alle famiglie, forse un maggiornumero di anziani potrebbero essere seguiti nelle loro case, all’interno delle loro famiglie. Oltretutto, per essere inseriti in una RSA, occorre seguire un percorso di UVG (Unità valutativa geriatrica), cui si può accedere solo dopo il compimento del 62° anno di età. Ma questo tipo di patologia può riguardare anche soggetti più giovani (perfino cinquantenni!) e per loro occorrerebbe invece una UMVD (Unità Multidisciplinare di Valutazione della Disabilità), per cui andrebbero seguiti in contesti più consoni alla loro età.Inoltre, una struttura ha comunque dei costi elevati, costa in media 3000 euro al mese, parte dei quali possono essere erogati dall’Ente Regione, se l’anziano o la famiglia non dispongono di un reddito su?ciente. Tuttavia, in struttura ai pazienti viene assicurata solo l’assistenza indispensabile alla persona, ma non è per nulla curato l’aspetto relazionale e riabilitativo, con con- seguente ulteriore perdita di autonomia. Invece, una assistenza personalizzata, in famiglia, potrebbe fare la differenza. Anche il diritto all’indennità di accompagnamento non è così facile da ottenere, perché il concetto di disabilità viene riferito soltanto alla disabilita fisica e motoria, ma non mentale, pertan- to le demenze sono escluse. La richiesta di questo importante sussidio è lasciata alla personale volontà e sensibilità del sanitario. Alla sua percezione, globale o parziale, del problema. E quindi alla sua discrezionalità. Per la legge del 2012, nel caso in cui per la persona richiedente l’indennità di accompagnamento si trattasse di disabilità mentali e non puramente fisiche, l’istanza viene rigettata con la seguente motivazione: ”Non risponde ai requisiti di cui all’art. 4 D.L. 9 Febbraio 2012, n.5″. Questa legge non tiene praticamente conto dell’aumento esponenziale di disabilità che riguardano persone colpite da demenza.Purtroppo, non si dispone spesso delle risorse economiche sufficienti ad affrontare il problema in condizioni ottimali.Ho tenuto anche corsi di formazione per badanti. In genere, le istituzioni non organizzano corsi per badanti, che invece sarebbero necessari. Si erogano solo corsi generici sull’assistenza domiciliare, ma non sul tema delle demenze in particolare.
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Valentina, so che tu porti avanti, da tempo, un programma di recupero cognitivo su persone affette da demenza. Mi spieghi in che cosa consi- ste questo lavoro?
Valentina Ferrua Ben volentieri. Ho cominciato a lavorare, come servizio civile, in un progetto pilota di palestra cognitiva, convenzionato con l’ASL, in struttura ospedaliera. Anche quando la convenzione è saltata, la palestra è andata comunque avanti. Da quando è iniziato il covid la struttura ha interrotto la prestazione, ma l’équipe ha continuato a lavorare nei locali della parrocchia “San Luigi Gonzaga” di Chieri. Abbiamo pazienti inviati da medici e geriatri, con diagnosi di demenza lieve – moderata, e persone la cui salute psicofisica è buona, e hanno il desiderio di mantenere le loro capacità al meglio delle loro possibilità. Il lavoro è condotto in équipe con una psicologa, la sottoscritta, un educatore professionale socio-culturale, Roberto, e Michela, laureata in attività fisica adattata che si occupa di rieducazione motoria, per esempio creando sequenze mnemoniche con abbinamenti movimenti-vocaboli, e con l’ausilio della musica. Attualmente gli utenti sono in prevalenza uomini. L’obiettivo è stimolare le persone con declino cognitivo lieve a tenersi in esercizio. Alcune persone hanno bisogno di essere sostenute nell’umore, perché non cadano in depressione.
Come metodologia, si lavora insieme, a livello corale, in cerchio, si lavora insieme sulla lettura di notizie, si scambiano opinioni, si fanno sondaggi, votazioni. Oppure si guarda insieme la stessa opera d’arte e ognuno esprime le sue impressioni. Naturalmente, ognuno è libero di esprimere quello che sente, che prova o che pensa. Motivare le proprie risposte, come chiediamo di fare, può risultare impegnativo, d’altra parte così facendo si mantiene la ricchezza semantica e si esercita il ragionamento. A volte ci scambiamo i ruoli: sono gli utenti a proporre delle attività, che co- munque sono sempre nuove, coinvolgenti e anche divertenti. Lavoriamo anche su giochi di parole, di logica, come sillogismi, costruiamo cartelloni pubblicitari. Si fanno poi le verifiche sui lavori eseguiti.
E’ importante lavorare a diversi livelli: quello cognitivo, quello relazionale, sul movimento fisico e sull’interazione. Se la persona affetta da demenza viene guardata solo come persona malata, ormai incapace di produrre al- cunché e di relazionarsi, perde ancora di più la propria autonomia. Se in- vece gli utenti della palestra cognitiva sono stimolati nella loro creatività, nell’ottica di uno scambio collaborativo, possono migliorare il loro senso di autostima. Un altro obiettivo di queste attività è anche quello di sollevare le famiglie per qualche ora dal loro carico di responsabilità.
Certamente, questo lavoro ha un costo per le famiglie, che consiste in 18 euro a mattinata. E’ un costo che si è ridotto, perché prima era più alto.
Noi lavoriamo per conto dell’ASSAM (Attività Sportiva Sviluppo Attività Motorie) di Chieri.
Per saperne di più ed essere più informati, consiglio la lettura di un articolo dal titolo “Stimolazione cognitiva di persone con declino cognitivo lieve (MCI): report di un’esperienza”, scritto da Roberto Stefano Moro, Valentina Ferrua, Marta Porcelli, Michela Ronco. Il link per trovare l’articolo è il seguente:
www.ojs.unito.it/index.php/tutor/article/view/7296/6159
Ti riporto l’Abstract:
La consapevolezza del declino delle proprie capacità cognitive, pre- sente nelle fasi iniziali, può produrre ansia e depressione, soprattutto nel caso di rapido peggioramento. Un cammino verso l’ignoto, non scelto ma subìto. Con questi stati d’animo ci confrontiamo da ormai tredici anni a Socialmente palestra cognitiva, operante dal 2009 a Chieri (Torino). Scopo del presente contributo è di descrivere la sti- molazione cognitiva praticata a Socialmente nei confronti di persone, generalmente anziane, che si trovano all’inizio di un percorso di de- clino cognitivo, prima della possibile rassegnazione e, in ogni caso, prima che la severità del declino provveda, pietosamente, a rimuovere i ricordi più dolorosi.
Antonella Legato aggiunge:
Lavoriamo anche in collaborazione con “Il nascondiglio”, un luogo pubblico con servizio bar, predisposto all’accoglienza. Pertanto possono
partecipare anche i parenti. Con le persone interessate svolgiamo attività al pomeriggio, per un paio di ore e quasi tutti i pomeriggi.
In definitiva, gli obiettivi essenziali sia della palestra cognitiva, sia di queste attività sono i seguenti:
. Stimolare la vita attiva degli anziani, con lieve o moderata disabilità mentale.
. Aiutare i familiari nella presa in carico del parente ed alleviare il carico di responsabilità.
. Incentivare la relazione.
. Creare nuovi rapporti di socializzazione, che aiutino a sentirsi meno soli.
. Anche i familiari stessi possono trovare ulteriori possibilità di coltivare rapporti umani.
Oltre a ciò, in collaborazione con il Comune partecipiamo al progetto nazionale “Federazione Alzheimer, Italia” legato alle comunità D.F.C. (Dementia Friendly Italia). Si realizzano progetti annuali con varie collaborazioni, tipo scuole, Associazioni, privati cittadini ecc. che possano avviare iniziative an- che per erogare servizi. Ci rivolgiamo alla parte istituzionale per cominciare questo percorso e coinvolgere poi altri soggetti nel territorio. Abbiamo già tenuto un incontro on line con la Federazione Alzheimer Italia. L’obiettivo è adesso aprire un tavolo con varie comunità.
Qualche riflessione conclusiva
Anche per queste riflessioni mi avvalgo di un notevole contributo ricevuto da Valentina, che mi ha inviato un articolo di Giancarlo Di Maggio tratto da”Il Corriere della Sera”, datato 28 marzo 2023 e intitolato “Genitori anziani: per salvarli (e salvarsi) serve la giusta distanza”. L’articolo affronta un problema davvero delicato e spinoso, che io stessa ho dovuto affrontare nella mia esperienza personale. Arriva un momento nella vita di tutti in cui il processo di accudimento si inverte: i figli, ormai adulti, devono prendersi cura e soste- nere genitori anziani in fase di regresso nelle loro facoltà fisiche e psichiche. E, poiché la durata della vita, almeno nei Paesi con maggiori risorse econo- miche e sanitarie, si è notevolmente allungata, questo periodo può durare anche per molti anni. Non è una fase semplice da affrontare, per diversi mo- tivi. E ogni figlio adulto o adulta lo affronta con metodi e strategie diverse, a seconda della propria sensibilità, ma anche della propria storia personale e soprattutto del rapporto che, nel bene o nel male, ha vissuto con i suoi geni- tori. Nell’articolo vengono riportati diversi esempi, di figli e di figlie alle prese con genitori anziani.
Questo il link per poter leggere l’articolo: www.corriere.it/sette/cultura-societa/23_marzo_28/genitori-anziani- salvarli-salvarsi-serve-giusta-distanza-17b59734-c814-11ed-b48b-1072850ccecb_amp.html
E’ un percorso non facile da affrontare, perché in esso entrano in gioco vari fattori. Ad esempio, motivi di astio manifesto o latente che, nel corso della vita, i figli hanno potuto nutrire, per i più svariati motivi, nei confronti di geni- tori a volte troppo invadenti, o autoritari, o possessivi. Ma anche motivi di eccessiva dipendenza psicologica e affettiva. Per cui, soprattutto di fronte a richieste di accudimento molto impegnative, possono subentrare sentimenti di rivalsa oppure di inadeguatezza, che scatenano anche forti sensi di colpa,
non facili da gestire. Pertanto, una decisione opportuna e sana è quella di occuparsi dei genitori anziani, ma prendendone anche le necessarie distan- ze, condividendone le responsabilità con eventuali fratelli o sorelle e facen- dosi anche aiutare da figure professionali o di supporto, come medici, psico- logi, assistenti familiari, badanti oppure, come molto opportunamente rac- contato nelle esperienze di Antonella e Valentina, da comunità o da Associa- zioni che promuovano iniziative di supporto solidale. Questo può fare la dif- ferenza, anche e soprattutto di fronte a politiche statali che non riconoscono appieno il problema e che non erogano, per la sua gestione, le necessarie risorse.
Per chi volesse contatti, rivolgersi a:
Per l’Associazione “Un abbraccio alla demenza: Antonella Legato: 3396735008
abbraccio.demenza@gmail.com
Sito web: www.unabbraccioallademenza.it
Per la palestra cognitiva:
Dott.ssa Valentina Ferrua 3409311854 –valentina.ferrua@gmail.com Facebook e Instagram: SocialMente Palestra cognitiva
Rita Clemente
Scrittrice. Collaboratrice redazionale di Lavoro e Salute
– Con la collaborazione di Antonella Legato e di Valentina Ferrua
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