Un episodio dopo l’altro: logiche della messa in serie fra cinema e TV
Quello tra serialità televisiva (ammesso che l’aggettivo non suoni anacronistico) e cinema è un rapporto complesso, un intreccio difficile da districare, per quanto non sia raro, ancora oggi, incontrare puristi dell’una o dell’altra forma audiovisiva che si sforzano di ergere steccati, di delimitare ambiti, spesso fingendo di dimenticare come il fenomeno della serializzazione del racconto riguardi, più in generale, l’industria culturale e le sue dinamiche di mercato.
La messa in serie, infatti, è uno dei processi costitutivi della cultura di massa, ed è attraverso la serializzazione che i media trovano legittimazione in quanto forme di intrattenimento popolari e redditizie – i feuilleton, per esempio, contribuivano alla vendita dei giornali. Anche il cinema, fin dalle origini, trova nella messa in serie un meccanismo di diffusione e di promozione efficace: se nel cinema delle origini o delle attrazioni mostrative la raccolta in “serie”, come le vedute Lumière, serviva soprattutto a raggruppare tematicamente film che presentavano elementi simili, dando già anche dei suggerimenti di programmazione, nel costituirsi del cinema come linguaggio finalizzato al racconto la serializzazione assume un ruolo centrale perché contribuisce allo sviluppo di una narrazione di più ampio respiro, alla fidelizzazione del pubblico e alla riconoscibilità di attori e personaggi – e, dunque, a fare del cinema un prodotto commercialmente vantaggioso.
Non è, dunque, la televisione a inventare la serialità; e, del resto, alcuni aspetti della serialità contemporanea che la rendono ai nostri occhi perfino più interessante del cinema, per lo meno di quello mainstream, trovano la loro origine nel serial cinematografico.
È il caso di quei personaggi femminili complessi, anticonformisti e indipendenti che la serialità televisiva sembra aver sdoganato: prima di Buffy o di Jessica Jones c’erano le serial queen degli anni dieci del Novecento – protagoniste di serial come The Perils of Pauline, What Happened to Mary o The Adventures of Kathlyn –, « giovani donne animate da un’energia irrefrenabile, da uno sconfinato gusto del brivido che le spinge ad affrontare pericoli d’ogni genere e perfino, non di rado, a misurarsi fisicamente con avversari dell’altro sesso»[1].
(da wikipedia)
La serialità, dunque, funziona come volano nella promozione e nell’affermazione di un nuovo medium: processi simili a quelli descritti si hanno perciò con l’avvento della televisione, all’interno della quale l’appuntamento ripetuto della messa in serie, ancorché molto diversa da quella a cui siamo abituati oggi, trova una sua collocazione naturale. Se il cinema degli anni Cinquanta punta a distinguersi dalla nuova arrivata rinnovando proprio la componente attrazionale e spettacolare delle immagini – più ampie grazie al Cinemascope, dalle tinte più brillanti grazie a una versione migliore del Technicolor, e perfino più tridimensionali con il 3D –, la ricorsività, la dilatazione del racconto, la standardizzazione delle modalità di messa in scena sono invece i punti di forza di un medium a bassa definizione come la TV.
La forma inevitabilmente sintetica di questo excursus non consente di fare distinguo o precisazioni che sarebbero doverosi: ci sono parecchie differenze, per esempio, fra la forma antologica o del telefilm della prima golden age della tv, della soap degli anni Ottanta e delle serie della terza golden age – quella, per intenderci, inaugurata soprattutto dalle cable all’inizio del nuovo millennio con titoli come I Soprano.
Tuttavia, ciò che è importante sottolineare è che la serialità non è l’elemento costitutivo di un medium o di un altro; piuttosto, è una forma di articolazione fluida, mutevole, trasversale, a cui il cinema non rinuncia mai del tutto – che cosa sono, in fondo, il ciclo di film di Andy Hardy (Mickey Rooney) negli anni Quaranta, o la saga di Bond, se non declinazioni della messa in serie? – ma che trova all’interno della tv una predominanza e una complessità strutturale senza precedenti.
Ed è proprio la complessità – per rifarsi alla ben nota definizione di uno dei testi più influenti, oggi, sulla serialità, Complex TV di Jason Mittell[2] – la parola chiave per comprendere i rapporti di forza fra cinema e serialità: la svolta tecnologica rappresentata dal digitale, dalla moltiplicazione esponenziale di device, piattaforme e modelli produttivi, insieme con il proficuo processo di scambio di professionalità fra cinema TV nell’epoca del transmedia storytelling, ha dato come risultato una proliferazione di forme e una vivace sperimentazione, che si è tradotta in una produzione seriale via via più articolata da un punto di vista narrativo e più ricercata da un punto di vista formale[3].
(da rollingstone.it)
Il mediascape contemporaneo è costituito, dunque, da paesaggi mutevoli, da incroci e ibridazioni di fronte alle quali variano anche la risposta delle audience e la riflessione critica. Per esempio, solo fino a qualche anno fa, la cosiddetta “quality television” (una definizione per molti problematica, dato il giudizio di valore che implica) rappresentata da serie come Lost, Breaking Bad o Mad Men, diventava oggetto di interesse per un’ampia platea di studiosi e spettatori perché “somigliava al cinema”: vi si riconoscevano, cioè, modalità di messa in scena e una densità narrativa e tematica che avvicinavano quelle serie più al cinema che non alle convenzioni della serialità, e di conseguenza i parametri di giudizio applicati si basavano proprio su questo riconoscimento.
È “cinematografico” un piano sequenza (True Detective) e, in generale, l’attenzione allo stile e agli aspetti formali; sono “cinematografici” personaggi complessi, meno tipizzati dei character delle sitcom o delle soap (Tony Soprano nella serie omonima, Don Draper in Mad Men, solo per citarne alcuni); è considerato “cinematografico”, infine, il ricorso a forme narrative più deboli o dilatate (un esempio estremo, in questo caso, potrebbe essere costituito dalla terza stagione di Twin Peaks).
D’altro canto, la serialità televisiva ha da sempre giocato la carta della “nobilitazione” tramite il ricorso a professionalità e a modelli propri del cinema: non solo si aggancia all’appeal dell’auteur quando affida a riconosciuti autori cinematografici la regia di alcuni episodi o addirittura il ruolo di showrunner, ma spesso si nutre, cita, rielabora, sovverte l’immaginario cinematografico. Stranger Things, una delle serie di maggior successo degli ultimi anni, è indubbiamente il risultato di una rilettura nostalgica di molta cinematografia degli anni Settanta e Ottanta. Il caso forse più paradigmatico, però, è quello di Ryan Murphy.
Pur avendo contribuito in modo significativo a delineare il profilo di una serialità complessa, decisamente più interessante delle sue non memorabili incursioni cinematografiche, il prolifico showrunner americano sembra non riuscire a prescindere da una costante fascinazione per il cinema, che si è tradotta non solo nel recupero e nell’adesione a modelli di genere affini al suo gusto barocco e flamboyant (il melodramma, il musical, il gore), ma in nostalgiche riletture biografiche della vita delle star (la prima e unica stagione di Feud) e addirittura in ucronie che reinventano Hollywood e la storia del cinema classico per renderli inclusivi, in un’operazione a metà fra l’innocua fantasticheria e il delirio di onnipotenza di uno showrunner talvolta incline a confondere l’inclusione come pratica politica con il tokenism.
Se è vero che il cinema, almeno in una certa fase, è la misura e il metro di paragone delle serie tv, è altrettanto innegabile che il grande schermo continua a fare i conti con una perdita di centralità che si è tradotta in una sorta di rovesciamento delle gerarchie di valore.
(da commons.wikimedia.org)
Il cinema è oggi accusato di non reggere il passo con una serialità che, come si è detto, è aperta a sperimentazioni visive, si confronta con tematiche di grande attualità, presenta una varietà di personaggi in linea con le esigenze di una rappresentazione che si vuole inclusiva, in grado di intercettare le istanze di cambiamento provenienti dai movimenti femministi e dalle minorities, e genera fenomeni di culto e vere e proprie forme di assuefazione – si pensi al consumo bulimico del binge watching.
Di fronte alle mutazioni del mediascape contemporaneo, alla propria rilocazione[4], e a una perdita di egemonia causata anche, come si è detto, da un’inedita centralità della serialità, il medium cinematografico reagisce concentrando gli investimenti sulla “messa in serie” proprio per la sua capacità di fidelizzare il pubblico, di soddisfarne il bisogno di affezione, di bilanciare il piacere derivante della ripetizione e dunque dal riconoscimento con piccole variazioni sul tema. È questa, evidentemente, la logica dietro il franchise di maggior successo degli ultimi anni, quello costituito dal MCU (Marvel Cinematic Universe), un articolatissimo universo transmediale che, come alcuni serial degli anni Dieci, prende le mosse da una matrice seriale antecedente (i fumetti Marvel) e la traspone su grande schermo, creando una continuità narrativa fra un episodio e l’altro – come evidenzia anche l’inserimento delle scene post-credits con funzione di cliffhanger.
In un articolo del 2015, Cesare Alemanni definiva già alcuni cambiamenti strutturali nelle strategie di produzione di Hollywood come «la trasformazione del cinema nella nuova televisione»: tra sequel, prequel e reboot si mira a espandere gli universi narrativi e a dilatare il racconto come fa la serialità, in modo tale da garantire l’uscita di un certo numero di tentpole l’anno (quei blockbuster su cui concentrare gli investimenti perché dovrebbero garantire ampi margini di ricavo) e massimizzarne con certezza il profitto, dato che intorno a quei titoli e a quell’immaginario si è già nutrito (e misurato) l’interesse e l’affezione del pubblico[5].
Ma lo sfruttamento della serialità da parte dell’industria cinematografica si declina in forme di ancor più esplicita subalternità: si pensi ai film tratti da serie televisive di successo.
Se eravamo già abituati a vedere serie tv concepite come espansioni o rivisitazioni di mondi e di immaginari nati al cinema (Bates Motel, Westworld, Suburra, Fargo, Ratched), oggi non è raro riscontrare anche migrazioni in senso opposto: L’immortale, per esempio, film di Marco D’Amore che racconta le vicende del suo personaggio, Ciro Di Marzio, dopo la terza stagione di Gomorra; oppure Downton Abbey, chiosa cinematografica dell’omonima serie che non fa niente di più che riportare, per un paio d’ore, i fan nostalgici fra l’opulenza, le divise inamidate e le argenterie tirate a lucido della residenza della famiglia Crawley.
La critica e la cinefilia italiane guardano con sospetto a questa inversione di tendenza, non essendosi ancora del tutto liberate dal pregiudizio che fa loro considerare la serie come un prodotto appiattito sulla narrazione e stereotipato da un punto di vista formale. Non a caso, in certe nicchie cinefile si prendono in considerazione solamente quelle produzioni “autoriali” (quelle, per intenderci, dei vari Lynch, Chazelle, Refn, Guadagnino) che, seppure con risultati disomogenei, sottraggono alla struttura seriale la forte coesione narrativa e l’equilibrio fra ripetizione e variazione, per sostituirlo con una rarefazione del racconto e un’esibizione di marche stilistiche che, per contro, fa storcere spesso il naso a critici televisivi e cultori della serialità, che esibiscono un atteggiamento dispregiativo verso quelli che percepiscono come film inutilmente sfilacciati in più episodi e realizzati solo per cavalcare il prestigio e la risonanza che tali operazioni possono garantire tanto gli autori quanto ai network.
Se non si guarda, anche con sospetto, alle ragioni economiche e produttive di certe ibridazioni, si rischia in effetti di leggere questi fenomeni in maniera ingenua e semplicistica. Tuttavia, di fronte a una costante deterritorializzazione del prodotto audiovisivo (sia esso cinematografico o seriale), arroccarsi in posizioni difensive ed ergere steccati a difesa della purezza dell’uno o dell’altro medium ci sembra un atteggiamento poco proficuo.
Soprattutto perché, all’orizzonte, sembra profilarsi una sfida complessa, che obbligherà forse a ridefinizioni radicali tanto la produzione cinematografica che quella seriale: come deve ripensarsi il cinema nel momento in cui la strategia conservativa di sequel e franchise spettacolari rischia di scontrarsi con l’emorragia di spettatori causata dalla pandemia?
E la serialità, seppur avvantaggiata dal contesto di fruizione prevalentemente domestico, come può riconfigurarsi a fronte di un’inevitabile contrazione dell’offerta (già adesso le difficoltà economiche e produttive hanno determinato la messa in pausa e la cancellazione di molte serie)? Per rispondere a questi interrogativi si renderà necessario, forse più di prima, rinunciare a posizioni elitarie per adottare, piuttosto, un approccio integrato, che non trascuri le specificità del singolo medium – per residuali che possano apparire – mostrandosi invece in grado di individuare percorsi trasversali entro le geografie mutevoli del nuovo scenario mediale.
NOTE
1 Monica Dall’Asta, Trame spezzate. Archeologia del film seriale, Le Mani, Recco 2009, p. 103.
2 Jason Mittell, Complex TV. Teoria e tecnica dello storytelling nelle serie TV, minimum fax, Roma 2017.
3 Daniela Cardini, Il tele-cinefilo. Il nuovo spettatore della Grande Serialità televisiva, «Between», vol. IV, n. 8, novembre 2014, p. 22, <https://ojs.unica.it/index.php/between/article/view/1361> (ultima consultazione il 3.11.2020).
4 Cfr. Francesco Casetti, La galassia Lumière: Sette parole chiave per il cinema che viene, Bompiani, Milano 2015.
5 Cesare Alemanni, L’età del sequel, «Prismo», 18 luglio 2015, < http://www.prismomag.com/leta-del-sequel/> (ultima consultazione il 3.11.2020.
Chiara Grizzaffi
4/1/2022 https://www.dinamopress.it/
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