Un Paese che ha minato il suo futuro
La decadenza di un Paese si misura innanzitutto sulla condizione sociale e culturale delle sue giovani generazioni. Perché risiede in quella fascia di età l’energia, la creatività, la possibilità di un futuro per l’intera società. Un Paese che non investe sui giovani sta segando il ramo su cui è seduto.
Da questo punto di vista, l’Italia si trova in una condizione drammatica.
Alcuni dati bastano a capirne i contorni.
Secondo la ricerca “Divario generazionale tra conflitti e solidarietà” della Fondazione Bruno Visentini, siamo passati dai 10 anni necessari ad un giovane ventenne nel 2004 per costruirsi una vita autonoma, ai 18 anni per raggiungere lo stesso risultato nel 2020 (arrivando quindi a 38 anni di età), e addirittura 28 anni nel 2030. In pratica, le ultime generazioni entreranno nell’età “adulta”, secondo i parametri classici dell’autonomia, solo al giro di boa dei cinquant’anni.
E se nei “trenta gloriosi” –gli anni del dopoguerra, segnati dal compromesso capitale-lavoro e da uno sviluppo capitalistico al quale le lotte hanno imposto lo stato sociale- la sociologia studiava la mobilità in ascesa, cioè la possibilità di migliorare la propria posizione sociale rispetto a quella di provenienza, oggi la sociologia torna a confrontarsi con la mobilità sociale, ma in direzione ostinata e contraria: si verifica un processo di discesa e di peggioramento della propria posizione sociale. La maggior parte delle nuove generazioni ha vissuto e sta vivendo questo processo di declassamento rispetto alla posizione acquisita dai loro genitori.
Quello a cui si sta assistendo è, né più né meno, la storia della scomparsa dal mondo produttivo di una generazione.
Persino i dati più recenti –marzo 2017- relativi ad una diminuzione della disoccupazione giovanile, prontamente utilizzati dal premier di turno per esaltare il Jobs Act, nascondono il trucco: la disoccupazione infatti diminuisce solo perché aumentano i NEET (Not engaged in Education, Employment or Training), i giovani che non studiano, né lavorano, né cercano soluzioni che sanno non esserci.
Un Paese capace di guardare al futuro, in periodi di crisi e di disoccupazione, dovrebbe investire nell’istruzione, formazione e cultura. Non è il caso dell’Italia, che infatti è all’ultimo posto (dati Eurostat 2014) per percentuale di spesa pubblica destinata all’istruzione (7,9% a fronte del 10,2% di media Ue) e al penultimo posto, davanti alla sola Grecia, per quella destinata alla cultura (1,4% a fronte del 2,1% di media Ue).
Se si guarda alla percentuale sul Pil – rileva l’Eurostat – la spesa italiana per l’educazione è al 4,1% a fronte del 4,9% medio Ue, penultima dopo la Romania (3%) e insieme a Spagna, Bulgaria e Slovacchia. Non va meglio per la spesa per la cultura: 0,7% contro l’1% della media Ue. Peggio fa solo la Grecia. con lo 0,6%.
Se si mette infine il focus sulla spesa per la formazione universitaria, la percentuale sul Pil è allo 0,8% in media Ue e allo 0,3% in Italia, mentre se si guarda alla percentuale sulla spesa pubblica l’Ue si attesta in media sull’1,6% e l’Italia sullo 0,7% (ultima in Europa).
Risiede esclusivamente in queste cifre la scelta di mettere il numero chiuso all’accesso alla formazione universitaria, spacciato dai governi come necessità di maggiore linearità tra percorsi di studio e mondo del lavoro.
La logica conseguenza di questi dati, come rimarca l’OCSE, è che ”i giovani italiani hanno livelli d’istruzione inferiori ai loro coetanei della maggior parte degli altri Paesi”.
Nel 2012, la percentuale di 25-34enni in Italia senza diploma del secondario superiore (28%) era la terza più alta dei Paesi EU21, dopo Portogallo (42%) e Spagna (35%) ed era molto più alta rispetto alla media dell’OCSE del 17,4% e alla media del 15,7% degli EU21.
Sempre nel 2012, il tasso di laureati tra i 25-34enni è stato il quartultimo dei Paesi dell’OCSE e del G20 con dati disponibili (Italia al 34° posto su 37 Paesi).
Un Paese che non cura l’istruzione e la formazione dei suoi giovani, che non dà sbocchi lavorativi per una grossa fetta di loro, mentre riserva alla restante parte un lavoro precario e iper-sfruttato sino allo schiavismo; e che, unico in Europa, affronta il tema del reddito universale di esistenza ancora con categorie moralistiche: questo è il brillante risultato di decenni di modello liberista, che, dopo aver costruito la soggettività artificiale dell’”imprenditore di sé stesso”, libero e autodeterminato nella sua sfida verso il mondo, oggi, di fronte alla solitudine competitiva in cui è stata immersa una generazione, non trova di meglio che insultarla, dichiarandola “bambocciona”, “choosy (schizzinosa)” o invitandola a giocare a calcetto invece che a inviare curricculum.
“Assassina è la precarietà, assassini i governi che ci vogliono rubare la felicità. L’unica certezza è il nostro odio, l’unica garanzia è la nostra vendetta” Questa è la scritta apparsa sui muri della sede della Legacoop, per ricordare, nel febbraio scorso, Michele, il grafico trentenne suicidatosi a Udine.
Che questa rabbia si trasformi in processo collettivo di ribellione sociale è forse l’unica speranza che resta a questo Paese.
Marco Bersani
7/6/2017 http://www.italia.attac.org
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 29 di Maggio – Giugno 2017: “Non è un Paese per giovani“
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