Una Fase 2 senza ripresa
Dopo il 4 maggio è iniziata la fase 2. Fra grandi disquisizioni sulle distanze di sicurezza, a volte bizantine, si è ripreso a circolare per le strade, per i parchi, oltre i confini comunali, per andare al lavoro. Si sono riaperti esercizi commerciali, i bar con l’asporto, poi progressivamente i servizi a più alto rischio di contagio: ristoranti, barbieri, piscine, musei, stabilimenti balneari. L’andamento del contagio ha favorito questa misura, particolarmente valida per le regioni poste al di sotto della linea gotica.
La prima misura del 26 aprile, il DL n.19, è stata scritta con un po’ di confusione e indeterminatezza. Si dice cosa si apre e cosa riparte. Ma senza entrate nel dettaglio sulla sicurezza nei posti di lavoro implicati, rimandando tutto ai protocolli sottoscritti e alla responsabilità dei datori e dei delegati sindacali che con loro contrattano sulla materia.
Data la novità della Sars-2-Cov19 ci si sarebbe aspettati qualcosa di più dalle teste pensanti al soldo di Conte, magari un maggior coinvolgimento di altre figure sanitarie, al di là dei medici competenti delle aziende.
Va detto che le linee guida dell’ISS sull’argomento, più volte variate ed aggiornate in questi mesi, non sempre hanno sciolto le ambiguità e sono state rassicuranti. Lo stesso dicasi per le linee guida dell’Inail sull’argomento che hanno aggiunto una certa confusione con l’ultima circolare sulle responsabilità anche penali del “datore di lavoro”, dando la stura ad una polemica da parte delle associazioni industriali strumentale, volta a strappare uno scudo legale che neanche infermieri e medici hanno. Ben oltre vi è l’intenzione degli industriali di portare un attacco profondo alla Testo Unico sulla Sicurezza, il DL. n.81/2020.
D’altra parte, dopo i crimini di Bergamo, con l’art.108 bis del DL Rilancio che dà potere ispettivo ai Carabinieri in supporto all’Ispettorato del Lavoro, si sentono braccati. E trovandosi un governo debole la loro unica strategia è rilanciare.
La seconda azione del governo, il DL “Rilancio” del 13 maggio, è stata una grande operazione di stampo keynesiano. 155 miliardi di investimenti, di cui 55 in deficit di bilancio che si vanno ad aggiungere ai 25 miliardi del DL Cura Italia (anche questi in deficit).
La spesa complessiva sale a 180 miliardi, cifra pari al 10% del Pil, corrispondente a quanto perderemo in euro nel 2020, fra lokdown, crisi del turismo, flessione delle esportazioni, calo delle domande globale e nazionale, crisi delle imprese medio piccole e individuali, crescita della disoccupazione.
Poi ci sono 200 miliardi di prestiti attivabili del credito bancario con la garanzia dello Stato del 95%-100% per le imprese.
Fra i tanti miliardi distribuiti a pioggia vi sono 12 miliardi agli enti locali, 12 di aiuti alle aziende (comprensivi della riduzione
di 4 miliardi di gettito dell’Irap, la tassa con la quale si finanzia il sistema Sanitario), 10 per il rinnovo degli ammortizzatori sociali, 3,2 per la Sanità, 2,8 per investimenti sulla sicurezza anti-covid nei luoghi di lavoro, 4,5 miliardi di bonus per le partite Iva, 2,5 miliardi per il turismo e la cultura, 2,1 miliardi per gli affitti e le bollette delle imprese..
Questi investimenti sono solo tamponi, per riparare le ferite portate dall’epidemia al nostro paese, per evitare il collasso. Sono misure anticicliche, difensive rispetto ai guasti prodotti dalla crisi economica generata dalla pandemia. Non sono risolutive, ma salva vita. La massa di soldi impegnati dallo stato corrispondo al 21% delle sue entrate tributarie del 2019.
Si va sulla strada della crescita del debito pari al 160% del PIL, che insieme allo sfondamento del bilancio del 16%, ci portano ben lontano dai sospesi parametri di Maastricht, la cui cogenza verrà restaurata al termine dell’emergenza pandemica, per accordo di tutti i paesi dell’Unione Europa, con gravi problemi per i paesi più esposti come l’Italia e la Spagna.
Sarà come chiedere a un vecchio paziente malandato di ringiovanire appena uscito dalla rianimazione.
In molti si aspettavano dai decreti delle misure di più lungo respiro, tali da permettere a un paese piegato dalla emergenza sanitaria di “tornare a crescere”.
Ma da un governo senza alcun impianto strategico in quanto accrocchio di fottuti e fottitori non c’era da aspettarsi tanto.
L’impianto del DL Rilancio non pone mano ad azioni strategiche. Su alcuni aspetti apre a dei cambiamenti, portando alcune novità.
Nel settore sanitario, a partire dalle necessità dell’emergenza covid, pone in essere un rafforzamento dell’azione sanitaria territoriale, fino all’istituzione della figura dell’infermiere di famiglia o di comunità nella misura di almeno 1 ogni 50 mila abitanti. Vengono innalzati i posti letto nelle terapie intensive (+ 3.500) e aumentati dotazioni strumentali e posti nelle sub-intensive (+4.225).
L’entrata in campo del partito degli industriali per la Fase 2
Tutti hanno percepito che l’anticipazione della fase 2, contrastata dai virologi e sindacati è passata principalmente grazie a Confindustria. Col concorso di alcuni elementi contingenti:
l’aumento delle violazioni della quarantena nel paese che ha doppiato il numero dei contagi, il timore della carenza di liquidità dello Stato visibile dai mancati pagamenti degli ammortizzatori sociali dall’INPS, l’aumento delle tensioni sociali specie al sud, la crescente sofferenza delle imprese su tutti i settori con aumento del rischio di fallimenti, la paura di perdere quote di mercato in Germania per l’industria del Nord d’Italia a favore dell’Europa dell’Est.
Per la prima volta abbiamo visto l’associazione degli industriali è scesa in campo senza più la mediazione della politica.
Si sono presentati con inedita tracotanza come quelli che fanno più PIL nel paese; hanno comprato persino le pagine dei giornali per ricordarcelo.
Ottenuta la riapertura delle fabbriche e più garanzie di stato per il credito dalle banche, hanno alzato subito il tiro. Il nuovo presidente di Confindustria Bonomi appena eletto ha subito attaccato il governo e i sindacati. Ha criticato la nuova cultura statalista, ma non il finanziamento statale alle imprese; ha bocciato la distribuzione a pioggia di risorse, per volerne di più per le sue aziende associate. Ha minacciato la guerra civile sulla riduzione dell’orario di lavoro, per chiedere ai sindacati culturalmente “arretrati” le deroghe ai contratti nazionali. Vuole semplificazioni delle normative e meno burocrazia, solo per avere meno regole sugli appalti, sull’ambiente, sulla sicurezza del lavoro.
Stranamente Confindustria non è mai stata in prima linea per la battaglia sulla legalità, contro l’evasione fiscale e il lavoro nero, contro lo sfruttamento schiavistico degli immigrati, in quanto irregolari, in settori disastrati come l’agricoltura, la logistica, gli appalti, il turismo, nelle piccole imprese. Lo è invece per legalizzare l’illegale, l’evasione, il lavoro nero, gli appalti irregolari, il lavoro non in sicurezza. Questa la chiamano libertà d’’impresa.
Usano la crisi per resuscitare antichi spettri come i vaucher per legittimare il lavoro nero, legalizzando gli immigrati senza bisogno dei permessi di soggiorno, non volendo rinunciare a una comoda riserva di servitù, portata dai cittadini di serie B che possono fare i servi e gli schiavi.
L’obiettivo è di riproporre la vecchia ricetta di tagliare i salari invece di spendere in ricerca e innovazione. Costa meno evadere, sfruttare il lavoro nero e grigio, non rispettare o non applicare i contratti. Finché c’è uno stato e una giustizia che glie lo permettono. Il ricatto della crisi e della disoccupazione è per loro una nuova occasione per salvare questo modello.
Il nuovo quadro pandemico richiede risposte nuove
La lobby delle imprese non hanno capito che se si va sulla strada della distanza di sicurezza a partire dai luoghi di lavoro, bisognerà investire tanto, “troppo”, in innovazione di processo, cambiando gli stili di vita anche dentro la produzione.
Si dovranno modificare i turni e le fasce orarie, ridurre e ridistribuire gli orari, cambiare i processi produttivi, cambiare di conseguenza tutto il sistema dei trasporti collettivi e individuali senza impatto negativo sull’ambiente.
Questo comporterà dei costi aggiuntivi ai quali il “nostro” sistema delle imprese sembra non voler partecipare. Garantire il distanziamento sociale anche nella circolazione e nel consumo delle merci e dei prodotti (pensiamo al sistema ristorativo, a quello alberghiero, a quello turistico), cambiando modi e luoghi di consumo.
Anche quello che si produce dovrà cambiare sulla base di questo cambiamento dei modelli di vita.
Cambiando anche rispetto a quello che producono, investendo di più nell’innovazione, cosa che comporta cambiare la propria natura di ladri impenitenti (ladri del fisco, del salario, dei diritti del lavoro, dell’ambiente).
Abbiamo una classe politica ed economica ancora del tutto inadatta e impreparata a questa rivoluzione necessitata dai rischi epidemici, pandemici ed ecologici che si prospettano nel pianeta e per il nostro paese.
Lo si vede da cosa scrivono e da cosa continuano a dire.
I conti non tornano. Meno stato o più stato?
I soldi mobilitati per far fronte all’emergenza della fase 1 e alla ripartenza della fase 2 rischiano di non bastare se l’economia andrà peggio dei pronostici (turismo e ristorazione sono a rischio per il 2020 e il 2021, l’industria dell’export dipende dall’andamento mondiale della pandemia e delle guerre commerciali fra USA, Cina, UE). A questo si aggiunge la mancanza di liquidità delle imprese e dello stato italiano già nei mesi di maggio e giugno per far fronte all’emergenze.
Occorrono soldi per l’emergenza e per il dopo emergenza, ma occorrono anche soldi per rimettere a posto l’economia e la società italiana.
Quarant’anni di conversione al neo-liberismo non hanno migliorato le sorti della penisola. Molti dei mali storici del paese, già analizzati da Gramsci e Salvemini, sono rimasti: la cronica corruzione delle classi dominanti, il divario fra Nord e Sud, l’ingiustizia sociale nella redistribuzione delle ricchezze al contenimento delle retribuzioni, l’illegalità diffusa ed endemica, lo stato burocratico, corrotto e la giustizia piegati agli interessi delle classi dominanti.
Le politiche neo-liberiste degli ultimi trent’anni hanno portato a un impoverimento dello stato sociale, a una decadenza del servizio sanitario pubblico che si è toccato con mano in questa emergenza, all’insufficiente aggiornamento della scuola e alle sua attuali difficoltà a mantenersi come servizio pubblico universalistico.
L’Italia era già ammalata prima della crisi sanitaria. Il coronavirus non ha cancellato ma esaltato i suoi mali. Era un paese invecchiato, in declino, in stagnazione permanente, con una crisi bloccata della rappresentanza politica.
Il coronavirus ha portato alla maggiore consapevolezza di una parte dell’opinione pubblica che occorra più stato, più servizi pubblici, più intervento pubblico nell’economia.
Con il coronavirus il dogma liberista del privato migliore del pubblico è entrato in crisi.
Ora nessuno vuole tornare a come stavamo prima. In tanti
vorrebbero uno stato che diventasse più efficiente, che garantisse più lavoro, più istruzione e più sanità per tutti.
Ci vorrebbe un maggior ruolo e dirigismo dello Stato.
Vi è bisogno di piani di settore con un piano del lavoro, una
riorganizzazione strategica pianificata dell’economia, incentrata su elementi fondamentali come la ricerca, l’innovazione, l’ambiente e la tutela del territorio, la salute, la formazione, la mobilità, la connessione digitale. Questo può comportare una maggiore concentrazione economica, con un intervento e una partecipazione, anche qui, dello Stato.
Uno Stato che potrebbe favorire raggruppamenti consortili o cooperativi dei piccoli imprenditori in cambio della copertura pubblica di parte se non di tutta la quota di capitale sociale.
Lo Stato può ridiventare imprenditore e pianificatore in compartecipazione con i piccoli privati incentivati a partecipare in forma cooperativa. E’ una bestemmia? Non proprio, è una delle tante variabili del “capitalismo di stato”, di cui i cinesi sono oggi i maggiori esportatori.
Rimangono due questioni di base. I soldi dove si trovano? Questo governo sarà in grado di gestire la fase 2 con la fase 3 (riprogettazione del futuro)?
La questione finanziaria è un punto centrale che trova due strade obbligate, una che ci manda a Bruxelles, l’altra che ci riporta a Roma. I soldi devono venire dalla BCE. Ma questi sono attivati con vari fondi previsti dai trattati dell’Unione, firmati e sottoscritti da tutti i nostri governi precedenti (di destra, di sinistra e tecnici) che non prevedono i finanziamenti a fondo perduto, se non per incentivare le aree depresse e progetti specifici (i Fondi europei vincolati). Sul tavolo rimangono i parametri di Maastricht temporaneamente sospesi per l’emergenza Covid. Usciti dall’emergenza nel 2021 o nel 2022 verranno ripristinati. Per l’Italia ritornerà il vincolo del debito al 60% del PIL (nel 2021 andremo al 160% del PIL) e della parità di bilancio. Abbattere il debito diventerà un obiettivo impossibile, se non al costo di immiserire la maggioranza della popolazione per i prossimi dieci, vent’anni.
La carenza di liquidità da parte dello Stato italiano, a fronte di una riduzione delle entrate e dell’aumento dell’impegno di spesa, spingono il paese a cercare prestiti sul mercato finanziario internazionale. L’UE sarebbe su questo piano l’alternativa migliore fornendo tassi più vantaggiosi, ma con pesanti vincoli sul futuro.
Si è parlato tanto di MES senza condizioni. La Spagna e la Francia alla fine non lo useranno, dato il rischio che questo comporta.
Il MES rimane un finanziamento con un tasso di interesse quasi a zero, che va restituito nell’arco di 10 anni, a partire dal 2021, e che andrà dunque ad aumentare il debito del paese. Questo condiziona il rating di affidabilità verso i creditori che l’Italia rischia di vedersi abbassare ai livelli bulgari, come già fatto da Fitch, con inevitabili ricadute sullo spread e quindi sui tassi di interesse associati al nostro debito, da pagare ogni anno.
L’Europa a guida tedesca non gradisce i finanziamenti anti-Covid a fondo perduto (senza restituzione). I paesi nordeuropei temono di doversi accollare il terzo debito pubblico del mondo senza che il nostro paese si sia sforzato di fare quello che non ha mai voluto fare: tassare con maggior rigore una delle più grandi masse patrimoniali private d’Europa, che molti piccoli e medi ricchi hanno accumulato dal boom economico ad oggi.
Con il quadro europeo bloccato, nel momento in cui lo Stato italiano non dispone di grandi liquidità, diventa sempre più difficile attendere la “misericordia” dei finanziamenti UE a “fondo perduto”. Per lo Stato italiano è una questione di mesi, visto che le entrate fiscali e contributive hanno subito vari rimandi e diluizioni nel tempo, data l’emergenza, e visti gli sconti distribuiti a pioggia alle varie categorie economiche.
In tal senso la situazione è drammatica, e probabilmente assisteremo ad una capitolazione al MES condizionato solamente alla spesa sanitaria, senza vincoli di politica economica, ma da restituire a partire dal 2021. E dopo settembre bisognerà iniziare a trovare quali tasse inventare per iniziare a diminuire il debito accresciuto.
Un incentivo viene adesso dall’asse franco-tedesco rafforzato, con l’apertura ai primi finanziamenti a fondo perduto di 500 miliardi di euro, guardando all’Italia come anello debole e voragine di una potenziale crisi senza precedenti.
Le strade sono quasi obbligate, data la natura di questa maggioranza sempre più artificiale e retta sui fragili equilibri fra Bruxelles, Berlino, Parigi e il Quirinale.
Vuoti e rischi per la democrazia.
Il governo ha una maggioranza parlamentare che non corrisponde alle simpatie dell’elettorato. La sua unica ragione di unità risiede nel ricatto quirinalizio delle elezioni anticipate, dietro al quale vi è il supporto non indifferente della UE e del Vaticano.
Con l’epidemia in corso una crisi politica di questa maggioranza sarebbe impensabile, nessuno la vuole realmente, nemmeno l’opposizione che ha più vantaggio a fischiare i falli dalla curva che a scendere in campo per dare il peggio di sé come ha già fatto in Lombardia, Piemonte e Liguria.
Elemento chiave rimane il Presidente della Repubblica che vigila, controlla e condiziona in stretta concertazione con le maggiori capitali europee.
Mattarella ha deliberatamente lasciato a Conte la libertà di gestire questa emergenza sanitaria a colpi di decreti da primo ministro, vigilando ogni passaggio, consapevole che nella nostra Costituzione non è normato lo “stato di emergenza” o “di guerra”, data la natura fortemente democratica della nostra Repubblica. Nella Costituzione italiana i “regimi d’eccezione” non sono previsti volutamente. Ma così non è nemmeno regolato lo stato d’eccezione, da un punto di vista democratico.
Nel nostro ordinamento in uno stato d’eccezione chi può decidere d’urgenza? Il Presidente del Consiglio in quanto Capo del Governo con una maggioranza parlamentare o il Presidente della Repubblica, in quanto capo delle forze armate e in quanto maggior rappresentante della Repubblica eletto direttamente da parlamento e senato?
Il vuoto istituzionale rimane strutturalmente aperto, è stato rattoppato con l’iniziativa di Conte nella fase più acuta dell’emergenza, su silente mandato presidenziale.
Con un rientro alla normalità istituzionale, la decretazione anche governativa diventerà sempre più difficile, senza il coinvolgimento dei gruppi parlamentari della maggioranza, senza l’apporto dell’assemblea parlamentare, senza considerare i corpi intermedi della società (associazioni civili, degli imprenditori, dei sindacati). E nel DL Rilancio si è seguita una prassi molto più collegiale, anche se le parti sociali sono state consultate per ultime e in fase correttiva.
La tentazione di governare a colpi di decreti sfruttando l’emergenza pandemica rimane molto forte, già si parla di proroga dell’emergenza (in scadenza a giugno) fino al 31 di dicembre, quando in Francia e in Germania non esiste una situazione del genere paragonabile alla nostra di decretazione d’urgenza e di nuovo restringimento degli spazi di confronto parlamentare.
D’altra parte la vita del governo non sarà facile dovendo dare delle risposte radicali su almeno tre piani nei prossimi tempi.
La prima sarà sul terreno della riorganizzazione dei modelli produttivi e sociali di fronte a vecchie e nuove minacce pandemiche ed epidemiche.
La seconda su quello della gestione dell’esplosiva emergenza sociale causata dalla nuova crisi economica scatenata dalla pandemia, con la crescita esponenziale dei fallimenti e della disoccupazione.
La terza, più difficile, riguarderà la soluzione di alcuni mali storici del paese che si sono manifestati in questa crisi aggravandola (sovraproduzione normativa e crescita burocratica, corruzione, illegalità, cattivo funzionamento del mercato del lavoro, giustizia inefficiente ed inefficace, divario fra nord e sud, redistribuzione dei redditi bloccata da trent’anni, mancanza di piani di sviluppo di settore, inefficienza fiscale, sanità disorganizzata a livello nazionale, scuola allo sbando, previdenza da rifare).
La mancanza di una visione coerente e unitaria di questo governo rimane il suo tallone di Achille, che rischia di azzopparlo nei mesi a venire, di fronte alla necessità di dare risposte ormai ineludibili ai problemi ormai paralizzanti del paese.
E uno di quelli che già aleggia sarà quello di una seria patrimoniale di carattere progressivo sui grandi patrimoni, come quelli delle banche, delle grandi imprese o della grande finanza, nonché di quelle ricchezze private ultramilionarie. Se ne riparlerà dopo settembre.
Un’ultima considerazione riguarda il ruolo dei lavoratori e dei sindacati.
Lavoratori e sindacato.
A partire dall’esplosione di scioperi a marzo dei settori manifatturieri e la mobilitazione volontaristica dei lavoratori sanitari per salvare la popolazione della penisola, qualcosa è cambiato. Indubbiamente la paura del contagio in un clima di restrizioni difformi, fra mondo del lavoro e sistema della circolazione, ha inciso.
I lavoratori hanno iniziato a resistere, lottare con scioperi, fermate spontanee, flash mob, proteste in smart-working e pure tanto tanto assenteismo. Le organizzazioni sindacali sono andate realisticamente al rimorchio. Sembra ritornato di moda il vecchio Tronti degli anni ’60.
Con la differenza, che le direzioni sindacali hanno reattivamente tradotto questa resilienza diffusa ed offensiva in trattative e accordi, alcuni sostenibili, altri meno.
Sostenibili fra metalmeccanici, edili e trasporti, non sostenibile fra i sanitari, inesistenti nel terziario e nel commercio (retaggio di un logos industrialista).
Ma sussiste una certa insufficienza sul piano politico nell’affrontare l’avversario rappresentato dalla dura reazione confindustriale che, forte di un programma ultraliberista, è ciclicamente tentato dallo spazzare via le ultime resistenze del sindacalismo italiano ed europeo.
La Cgil, storicamente il maggior sindacato di sinistra, oggi si trova al bivio. Deve decidere se declinare come sindacato dei servizi, ritirandosi per resistere, o se riusare il conflitto, puro o spurio, che oggi si ripresenta sul campo, per rilanciare una nuova partecipazione, ricostruendo radicamento, aggregazione, nuove idee legate alle nuove generazioni (con o senza cittadinanza), stimolando la maturazione di nuove avanguardie nei posti di lavoro e nelle varie filiere del valore, in grado di rilanciare un nuovo movimento organizzato del lavoro del futuro. Chiudersi nei servizi per mantenere un sempre più labile legame sociale rischiando di morire o uscire fuori e saper lottare, anche con i pochi a mezzi a disposizione.
Il web, i social, le azioni di disturbo dell’immagine dell’avversario, la controinformazione e le campagne d’informazione in house, le lotte quotidiane, le resistenze, sono strumenti già usati, sperimentati nel nuovo che avanza, ma ancora troppo poco per il movimento sindacale.
Landini ha scelto questa seconda strada con un timido profilo, per non urtare troppo l’unità ritrovata fra sigle, convivendo con una minacciosa metà del corpo della Cgil oggettivamente e soggettivamente sempre più orientato sull’altra strada.
Dai cambiamenti di equilibrio interno, dentro una classica logica di palazzo (anche in queste forme marcia purtroppo la storia), si potrà avere la vittoria di una forza sull’altra.
Ma solo se vi sarà una spinta esterna, direttamente dal mondo del lavoro, come già visto in altri tempi e come emerso in questi mesi, si potrà avere un rinnovamento del movimento sindacale. Altrimenti rischiamo un altro grande lungo inverno.
I motivi e gli argomenti per indignarsi e muoversi ci sono tutti. Basta non sbagliare strada.
Marco Prina
CGIL Moncalieri (TO)
18 maggio 2020.
Pubblicato sul numero di maggio del mensile Lavoro e Salute www.lavoroesalute.org
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