Una guerra senza vie d’uscita
«La mappa conta», ricordano Christine Leuenberger e Izakh Schnell in un recente saggio incentrato sulla sfida cartografica posta dal conflitto israelo-palestinese. La mappa conta poiché contribuisce a imporre l’immagine, altrimenti intangibile, della nazione. Essa conta, poiché fonda l’unione della carta e del territorio, del piano della rappresentazione e di quello reale, conditio sine qua non per l’esistenza della comunità immaginata, all’interno della quale il popolo di una nazione moderna diviene pensabile. La mappa conta poiché è uno strumento politico, che tradisce lo sguardo di un’epoca sulla realtà circostante. «L’arte di irrigidire la vita in un sistema di segni», per dirla con Franco Farinelli, è il presupposto per qualsiasi interpretazione esaustiva dei fatti del mondo.
A ogni intensificazione degli attacchi israeliani contro le popolazioni palestinesi, torna a circolare online una mappa stilizzata, volta a illustrare il processo di progressiva espansione territoriale dello Stato ebraico a scapito di quello arabo. Ne esistono varie versioni, ma una delle più popolari è la carta in cui la sorte della Palestina viene comparata a quella dei nativi americani. Come nel caso delle popolazioni indigene dell’America settentrionale, si legge fra le righe, i palestinesi sarebbero destinati a finire nelle riserve.
Una delle tante mappe circolanti sul web e rappresentanti la perdita di territorio a scapito dello Stato palestinese. Fonte: Reddit.
Illusione ottica
Da qualche tempo, la visione della mappa rappresentante le «Palestinian lands», ridotte progressivamente a una serie di enclaves territoriali, circondate dalle ben più omogenee «Israeli lands», è fonte per me di turbamento. Se la mappa sembra, infatti, rappresentare in maniera efficace il processo di spoliazione delle terre un tempo abitate dai palestinesi, il suo messaggio sottinteso è all’origine di un’ambiguità fondamentale: l’esistenza di una sovranità statuale palestinese.
In altri termini, ci troviamo di fronte a un’illusione ottica. Popolazione e territorio tendono a sovrapporsi, allontanando l’osservatore dalla possibilità di una comprensione adeguata del contesto coloniale dal quale il conflitto israelo-palestinese origina. Nel caso in cui l’obiettivo fosse quello di rappresentare la composizione etnica degli abitanti della Palestina occupata, infatti, ci troveremmo fuori strada. Allo stesso modo, se volesse esprimere la proiezione cartografica della Palestina politica, la mappa non rappresenterebbe che una realtà fallace e illusoria. In Cisgiordania come nella Striscia di Gaza a esercitare la sovranità – anche nel caso in cui essa venisse semplicemente intesa nella definizione, banale, di «originarietà dell’ordinamento [giuridico di uno Stato], nel senso che esso non deriva la sua validità da alcun altro ordinamento superiore» – non sono né la sedicente Autorità nazionale palestinese, né tantomeno Hamas. Al contrario, sono, in ultima istanza, i poteri pubblici israeliani, con i loro tribunali, la loro polizia, il loro esercito. Nell’area presa in esame, il monopolio ultimo della violenza, fonte materiale della sovranità, appartiene unicamente allo Stato di Israele. Come dimostrato da Eyal Weizman, anche nel caso di Gaza, dove gli effettivi israeliani non sono presenti sul terreno, il dominio dei cieli fa della Striscia un territorio a sovranità limitata, in cui le operazioni di polizia aerea sopperiscono alla «ritirata» delle truppe di occupazione decretata nel 2005.
La guerra demografica
L’analisi del contesto coloniale, del quale la presente situazione è emanazione, è necessaria ai fini di una comprensione adeguata del problema. Coloro i quali abbiano un minimo di familiarità con la documentazione prodotta dalle amministrazioni coloniali degli imperi europei, fra XIX e XX secolo, potranno facilmente rendersi conto di come il problema del controllo delle porzioni di spazio occupate non sia mai stato di natura territoriale. Nel linguaggio delle cancellerie diplomatiche imperiali, degli organi di governo coloniali, dei loro servizi di sicurezza e dei loro apparati amministrativi, il termine «colonia» è costantemente associato a un gruppo etnicamente connotato: il controllo del territorio non è mai stato altro se non un’appendice del controllo politico-militare delle popolazioni. Il motivo è semplice, quasi tautologico: l’esercizio della sovranità territoriale non pone particolari problemi in un territorio già occupato, all’interno del quale le infrastrutture tecniche deputate al controllo e alla sorveglianza sono moltiplicabili all’infinito da parte della potenza occupante. Il problema risiede, a un tempo, nel controllo delle popolazioni indigene e nella difesa della propria «colonia», intesa come gruppo esogeno, definito dalla linea della razza.
Lo studio approfondito delle popolazioni assoggettate, la costruzione di un sistema penale a due velocità, la deportazione forzata e gli spostamenti di popolazione, la messa a punto del regime di Apartheid, l’affermazione del primato razziale dei coloni e la protezione dei settlers non rappresentano che alcune delle tecniche messe in atto dalle potenze coloniali al fine di rispondere alla minaccia incombente sulla propria «colonia». Il caso di Israele, che iscrive deliberatamente la propria storia nella linea temporale e ideologica della missione civilizzatrice dell’Occidente europeo, è probabilmente il più emblematico.
In questo contesto, l’equilibrio della bilancia demografica rappresenta la sfida politica principale per la conservazione del sistema di dominazione inaugurato con l’occupazione e la nakba palestinese del 1948. La possibilità di un «sorpasso» della popolazione arabo-palestinese su quella di confessione ebraica viene percepita come una minaccia vitale da parte delle autorità israeliane e dagli ideologi del suprematismo. Si tratta di una rivoluzione prospettica che mina alla base gli equilibri esistenti, come sottolineato dall’ex Presidente Rivlin che, nel celebre discorso sulle «quattro tribù» pronunciato nel 2015, prendeva atto del «nuovo ordine» instaurato all’interno dello Stato di Israele a partire dal mutato equilibrio demografico impostosi negli ultimi decenni, in cui nessun gruppo etnico risulta più essere dominante. A tale scenario le estreme destre israeliane, egemoniche, rispondono con l’implementazione di politiche a sostegno dell’immigrazione di nuovi coloni, di cui la colonizzazione aggressiva della Cisgiordania rappresenta la manifestazione più evidente.
D’altro canto, era stato l’attuale ministro delle finanze di ultradestra, Bezalel Smotrich, ad affermarlo senza mezzi termini nell’ottobre 2021: «Gli arabi sono qui per errore, perché Ben Gurion non finì il suo lavoro». Una prospettiva macabra, cui fa eco il richiamo di Netanyahu all’episodio biblico dello sterminio del popolo amalecita, pronunciato il 28 ottobre 2023 come metafora del proprio progetto per uscire dalla crisi apertasi con gli attacchi del 7 ottobre. La popolazione è una vera e propria ossessione per i decisori politici israeliani, in termini quantitativi e qualitativi. Gaza gioca, in questo quadro, un ruolo chiave: è l’insostenibilità della battaglia demografica nella Striscia a indurre, nel 2005, il Primo Ministro, Ariel Sharon, a decretare il ritiro unilaterale delle truppe di occupazione, e la rimozione degli insediamenti israeliani da Gaza. Allo stesso modo, le proiezioni elaborate dal demografo Youssef Courbage, dimostrano come l’alto tasso di fertilità dei gazawi, combinato al basso livello di emigrazione, sembri essere in grado di controbilanciare il rallentamento dell’incremento della popolazione verificatosi nella West bank negli ultimi due decenni, facendo della piccola enclave di 360 chilometri quadrati un vero e proprio bacino demografico, capace di mettere a dura prova le politiche di sostegno alla natalità messe in campo da Israele per i decenni a venire. Da qui la centralità della Striscia nelle sorti del conflitto. Che fare della Gaza del 2048, potenzialmente abitata da quattro milioni di palestinesi? Come frenare il processo di adesione al nazionalismo più intransigente da parte di una popolazione giovanissima e costretta a vivere in un vero e proprio «ghetto» controllato dallo Stato di Israele?
La spietata logica coloniale
Gaza rappresenta una spina nel fianco per l’avvenire di Israele. La breccia aperta all’alba del 7 ottobre nel muro che circonda l’enclave ha dimostrato come la «sovranità del drone» e le sofisticatissime soluzioni tecnico-militari finora impiegate dallo Stato ebraico non siano sufficienti ad assicurare la prima, imprescindibile, missione di un sistema politico basato sulle logiche di dominazione coloniali: la protezione della propria «colonia». In questo senso, gli efferati massacri di militari e civili israeliani compiuti dai gruppi armati nazionalisti palestinesi – e, come fa notare Adi Callai, dagli abitanti di Gaza che si sono spontaneamente uniti all’azione in corso – non hanno nulla di sorprendente. Il rovesciamento della strategia biopolitica perpetrata da Israele nei confronti degli abitanti dell’enclave, riassumibile nella formula foucaultiana dell’unione fra il potere di «far vivere o lasciar morire» e l’affermazione del razzismo istituzionale volto a definire «la condizione di accettabilità della messa a morte di un popolo nemico», è ciò che si è verificato a partire dal 7 ottobre. Con Achille Mbembe, la «necropolitica», che fonda, nel contesto coloniale, il diritto sovrano extralegale di dare la morte, di uccidere a proprio piacimento i membri della popolazione subordinata alla potenza occupante, è qui esploso in tutte le sue contraddizioni. Non si è trattato semplicemente di un’azione spettacolare volta a galvanizzare gli animi dei palestinesi dopo anni di violenze e soprusi, né di un tentativo di imitare gli orrori dello Stato islamico.
Gli attacchi rientrano nella spietata logica coloniale che caratterizza i rapporti di potere in Israele: una battaglia politica per la nuda vita, determinata dalle logiche di razza. Colpire il sistema coloniale nel proprio ventre molle, la sicurezza dei civili, significa lanciarsi a capofitto nella guerra psicologica nei confronti della potenza occupante, scoraggiare l’immigrazione e cercare di contribuire, in questo modo, all’inversione della bilancia demografica, altamente dipendente dall’insediamento di nuovi coloni nei territori occupati. D’altra parte, come sottolineato da Akram Belkaid, una voce riportante l’invio imminente di due milioni di coloni israeliani per «sommergere» la Cisgiordania aveva iniziato a circolare online negli ultimi mesi fra la popolazione palestinese, giocando un ruolo importante nella genesi dell’operazione «Diluvio di al-Aqsa». Sotto shock, l’opinione pubblica occidentale è, così, costretta a riconoscere che la mappa dell’Israele politico assomiglia più a quella presentata da Benjamin Netanyahu di fronte all’assemblea delle Nazioni unite il 22 settembre 2023, che a quella stilizzata, rappresentante i due Stati contrapposti.
In altre parole, non vi è alcuna guerra interstatale in corso in Palestina, ma una lotta interna a un singolo Stato segregazionista, la cui struttura «anacronistica» – come è stata puntualmente definita dallo storico Tony Judt – basata sulla dominazione razziale di una porzione della popolazione su di un’altra, impone condizioni di vita insostenibili ai membri della propria minoranza politica interna: i palestinesi.
Derubricare l’azione armata del 7 ottobre ad atto terroristico compiuto da «barbari», o peggio da «animali umani», come si sono precipitati ad affermare Netanyahu e il suo ministro della difesa Yoav Galant, significa confermare la colonialità dei rapporti politici esistenti nella regione, le cui fondamenta ideologiche di stampo razzista e suprematista vengono erette, innanzitutto, sul terreno della squalifica morale e della disumanizzazione del nemico interno.
Continuare a scommettere sulla guerra demografica, intesa come guerra totale per il primato della propria «colonia» a scapito delle popolazioni indigene, significa, per Israele, continuare a marciare in un pantano senza alcuna via d’uscita, se non quella della pulizia etnica della Striscia, ovvero del trasferimento forzato dei suoi abitanti nel deserto del Sinai, come suggerito dall’Intelligence ministry, un organismo consultivo del governo israeliano. Un’opzione che, tuttavia, appare difficilmente praticabile senza la copertura diplomatica dell’alleato di ferro statunitense, che per il momento ha escluso il suo sostegno al progetto di occupazione permanente di Gaza ventilato nei giorni scorsi da Netanyahu.
Quello che l’ex direttore dell’ufficio newyorkese dell’Alto Commissariato per i diritti umani delle Nazioni unite, Craig Mokhiber, ha definito come un «textbook case of genocide», praticato senza indugi dall’esercito israeliano nelle ultime cinque settimane, potrebbe trasformarsi in un’arma a doppio taglio per lo Stato ebraico. Schiacciati fra l’incudine dell’opinione pubblica interna, accecata dal desiderio di vendetta, e il martello del delicato rapporto con una comunità internazionale scioccata dalla carneficina in corso a Gaza, i dirigenti israeliani sembrano non avere un piano reale per il futuro. Come messo in evidenza da Jon Alterman, «Israele potrebbe perdere»: non tanto la guerra asimmetrica combattuta senza troppe difficoltà sul terreno, quanto la battaglia politica di lungo periodo, che rimette lo Stato ebraico di fronte a vecchie contraddizioni che sembravano ormai superate. Gaza e il suo popolo, innanzitutto.
Qualunque siano gli esiti della guerra iniziata nell’autunno 2023, è sufficiente dare un rapido sguardo alla storia della decolonizzazione per rendersi conto che radar, filo spinato, muri, checkpoint e massacri non sono mai serviti a nulla, se non a ritardare l’inevitabile: la fine delle, insostenibili, forme di dominazione razziale di una «specie umana» su un’altra, per dirla con Frantz Fanon. Che Gaza venga occupata in maniera permanente dalle truppe israeliane, che essa venga collocata sotto il controllo della sedicente Autorità nazionale palestinese, o che i suoi abitanti siano costretti a emigrare oltre frontiera, i fatti del 7 ottobre, destinati a ripetersi forse in forma ancora più violenta, lo hanno dimostrato.
Nicola Lamri è dottorando in storia contemporanea all’Université Polytechnique Hauts-de-FranceIUniversità di Bologna. Le sue ricerche si concentrano sulla storia della decolonizzazione nell’area Mediterranea, e più in particolare sulla guerra di liberazione algerina.
17/11/2023 https://jacobinitalia.it
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