Una peste chiamata Israele
Nel sud della Striscia di Gaza, Israele deve condurre una campagna diversa da quella che ha condotto a nord, ha detto un alto dirigente della Casa Bianca in un briefing telefonico. In sostanza, deve evitare il più possibile i conflitti (“deconfliction“) con le strutture umanitarie, compresi i numerosi rifugi delle Nazioni Unite situati nel centro e nel sud di Gaza. Mentre tutta l’attenzione mediatica è rivolta al rilascio di alcuni degli ostaggi sequestrati da Hamas e alla liberazione di alcuni prigionieri palestinesi – ma Mondoweiss ci informa che negli ultimi quattro giorni di tregua Israele ne ha arrestati più di quanti ne ha rilasciati – l’alto dirigente della Casa Bianca ci fa sapere che non c’è alcuna speranza che il massacro si fermi. Quel che si chiede a Israele è solo di muoversi “con estrema attenzione per ridurre al minimo” le uccisioni nei rifugi delle Nazioni Unite. Lo si chiede, neanche lo si pretende. Ha ragione Patrizia Cecconi che in questo articolo, scritto prima dell’inizio di una tregua che di fatto ha consentito solo alla gente di Gaza di respirare per rendersi conto di quale immane tragedia l’abbia colpita e di quali complicità l’abbiano permessa per oltre 50 giorni, scrive che la peste si sposta. Continuerà a uccidere prestissimo, nessuno si faccia illusioni. Forse “farà un po più di attenzione” ai rifugi dell’Onu nel sud della Striscia, forse. Il portavoce governativo Eylon Levy, anche oggi l’ha ribadito senza alcuna possibilità di esser frainteso: per un futuro più luminoso e prospero per tutti in questa regione, questa volta finiremo il nostro lavoro
Tra le foto e i video strazianti inviati in diretta social – non trasmessi dai media televisivi perché mostrerebbero inequivocabilmente la mostruosa faccia sanguinaria di Israele – tra quelle immagini, in cui si vedono i corpi lacerati di adulti e di bambini estratti dalle macerie, o le penose lunghe file di sudari bianchi poggiati a terra negli spazi liberati dalle travi che li hanno uccisi, una m’ha toccato particolarmente, pur non essendo peggiore delle altre, né accompagnata dal pianto disperato di un bimbo terrorizzato e ferito o da corpi smembrati: la foto di un ragazzo che come tanti altri sopravvissuti aiutava, portando in braccio un corpicino coperto da un telo bianco.
Nei suoi occhi, nell’espressione del suo viso, e soprattutto nel modo in cui portava quel corpo c’era più che disperazione, direi più che sofferenza. Qualcosa che a me è sembrata un’offerta dolorosa e insieme un’angosciante attesa. Forse la stessa attesa che ho letto in tanti messaggi arrivati da Gaza in risposta alla mia richiesta di notizie: “sono ancora vivo ma so che domani forse raggiungerò i miei fratelli” oppure “per ora sono viva ma credo che raggiungerò presto mio padre e la mia bambina”, o ancora “il mio amico migliore non c’è più, io aspetto il mio turno”…. Tutti civili inermi, colpiti da inaccettabile ferocia mascherata da “diritto alla difesa” di uno Stato canaglia che porta avanti da decenni il suo progetto di annessione totale della Palestina, utilizzando questa volta l’azione cruenta della resistenza palestinese del 7 ottobre come ottima scusa per completare il suo disegno. Disegno sostenuto dai suoi fedeli alleati, tra i quali vanno annoverati anche i nostri mass media che brillano per servile abilità nel veicolare la menzogna di un’Israele sempre vittima, appoggiandosi alla disgustosa strumentalizzazione della reale tragedia della Shoah.
Ma torno all’immagine che m’ha particolarmente colpito e che, per quelle strane vie in cui s’intrecciano i nostri pensieri, mi ha riportato alla memoria parole lette, recitate e ascoltate tanti anni fa: “Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci…una donna…. Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta… le stese sopra un panno bianco, e disse l’ultime parole: ‘addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch’io pregherò per te e per gli altri.’… Come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccio, al passar della falce che pareggia tutte l’erbe del prato.”
Quella falce era la peste del 1630 raccontata dal Manzoni. Quel ragazzo palestinese che portava il corpicino di un bambino, ucciso insieme a migliaia di altri innocenti, raccontava invece di una peste umana fatta di tonnellate e tonnellate di bombe, bombe israeliane. Come la falce evocata dal Manzoni, così la peste israeliana sta passando sul popolo di Gaza falciando vite indifese. Vite di pochi giorni o di molti anni, senza distinzione, “il fiore rigoglioso e il fiorellino ancora in boccio… tutte l’erbe del prato”. E ugualmente, quella falce criminale, sta mietendo altre vite in Cisgiordania, seppur con numeri diversi, ma con identica, impunita ferocia.
La peste del 1630 quando fu sazia, dopo tre o quattro anni, se ne andò dall’Italia settentrionale, ma si diffuse altrove. Di lei, in Lombardia, oltre al dolore per i lutti, rimase la “colonna infame”, che nel tempo avrebbe rappresentato il ricordo di violenze e ingiustizie commesse dai giudici alla ricerca degli untori. Anche di Israele, della sua sete di sangue e di terre palestinesi, forse un giorno rimarrà un simile ricordo, forse una colonna alla cui base verrà inciso un “mai più” che sarà un mai più per tutti e non solo per un qualunque gruppo umano che si ritenga eletto.
Quello che Israele sta commettendo in questi giorni è talmente grave da configurarsi come genocidio. Non che tutti i crimini commessi fin dalla sua nascita non fossero gravi, anzi possiamo con tranquillità affermare che proprio l’impunità di tutti questi anni ha portato la sua delittuosa arroganza fino a questo punto. Israele, senza pagar pegno, può infatti dileggiare, ingiuriare e minacciare il Segretario generale dell’ONU, bombardare ambulanze, centri sanitari e ospedali, con o senza superflue giustificazioni, può fare a pezzi più di 15.000 civili tra cui 5.500 bambini, può vantarsi di aver distrutto in poche ore oltre 200 costruzioni civili e varie altre migliaia in un mese, può fare strage di giornalisti (testimoni scomodi), di medici e paramedici; può distruggere luoghi di culto cristiani e musulmani ed edifici simbolo della legalità internazionale come le sedi dell’ONU, può distruggere le scuole dell’ONU e assassinare una settantina di membri dell’ONU, e nonostante tutto questo può contare sul codazzo di opinion maker, suoi fedeli sostenitori, che definiranno risposta democratica forse “un po’ eccessiva” i suoi crimini di guerra e definiranno prova di democrazia l’opposizione delle famiglie degli ostaggi all’approvazione di una legge sulla pena di morte per i prigionieri palestinesi perché, “ora”, metterebbe in pericolo la vita dei loro cari. Potranno però approvarla più tardi, a ostaggi riconsegnati. Una democrazia in cui le uniche vite che contano sono quelle israeliane. Immorale, ma comprensibile per gli israeliani, immorale e basta per gli asserviti valletti mediatici.
La gravità di questa diffusione di barbarie spacciata per “diritto a difendersi”, la cancellazione di ogni regola tanto giuridica che umanitaria, la normalizzazione del sopruso e del crimine sottratti alle norme della legalità internazionale non è solo una catastrofe per il popolo palestinese, ma ammorba e sfibra le regole di civiltà che la comunità internazionale si è data, fino a renderle l’ombra di se stesse. Tutto questo è come il batterio della peste. Si diffonderà come si diffuse la peste “manzoniana” che arrivò nel Granducato di Toscana, nel Ducato di Modena, nello Stato Pontificio ecc. ecc. fino ad apparire qualche anno dopo anche nel Regno di Napoli. La peste venne debellata solo quando si scoprì il farmaco giusto. Nel caso di Israele il farmaco non è certo cercare di sottrarsi all’accusa di antisemitismo, mantello utile a coprire tutti i suoi numerosi abusi gettando discredito su chiunque osi avanzare una critica. La sua impunità rende una caricatura tutto ciò che oggi chiamiamo democrazia, se Israele viene definito democrazia. Non si può ignorare che Israele assedia, sebbene in forma diversa, non solo Gaza ma tutta la Palestina occupata dal 1967; che si è impossessato, come “bottino di guerra”, nel 1949, del 78% della Palestina storica invece di accontentarsi di quel 56% previsto dalla risoluzione ONU 181, lasciando meno del 22% ai palestinesi contro quel 43,7% previsto dalla stessa Risoluzione ONU per un loro ipotetico Stato di Palestina. Proposta che, comprensibilmente, allora il mondo arabo rifiutò, e che involontariamente “tolse le castagne dal fuoco” a Ben Gurion, il cui progetto di annessione totale seguita ad avanzare dal 14 maggio del 1948 (data della Nakba palestinese) grazie anche alla confisca illegale di terre palestinesi da parte dei coloni ebrei che, dopo gli accordi di Oslo, non ha fatto altro che crescere a dismisura. Non abbiamo lo spazio per affrontare adeguatamente la parte storica, per la quale rimandiamo ai testi di storici ebrei israeliani quali Ilan Pappé o Shlomo Sand, ma non possiamo non tener conto che l’appetito sionista teso a fagocitare l’intera Palestina, è stato ulteriormente stimolato alla fine degli anni “90, dalla scoperta dei giacimenti di gas naturale al largo del mare di Gaza, e che gli accordi tra Yaser Arafat e la britannica BG per il loro sfruttamento sono stati ostacolati da Israele il quale, passo dopo passo ha reso la Striscia di Gaza una vera prigione con l’impedimento di qualunque forma di commercializzazione autonoma e l’intento, facilmente ipotizzabile, di appropriarsi anche dei giacimenti “Gaza marine”.
Solo una profonda non conoscenza di ciò che ha subito tutto il popolo palestinese dal 1948 ad oggi – o una totale malafede – può portare alla ripetizione tanto efficace quanto mendace del “diritto di Israele a difendersi”, formula protettiva di qualunque crimine lo Stato ebraico commetta, vera peste che prolifera col sostegno dei suoi complici politici e mediatici, spargendo lutti e cancellando ogni speranza di giustizia e, conseguentemente, di dignitosa pace. E mentre scrivo mi arriva una telefonata da Khan Younis, è il dr. Basheer, un medico cardiologo che quattro anni fa mi portò con fierezza ad ammirare la sua coltivazione di fragole a Jabalia. Non c’è più niente, mi dice, neanche la casa, né il centro clinico in cui operava. Lui, la sua famiglia e altri amici comuni hanno eseguito l’ordine di evacuazione verso il sud e ora sono accampati a Khan Younis ma, mi dice, “they are bombing here too”, bombardano anche qui. Poi, prima di salutarmi, aggiunge “I hope to see you, to still be alive, when you can return to Gaza. But you won’t recognize Gaza, there’s nothing left”. Già, spera di vedermi, quando tornerò a Gaza, se sarà ancora vivo, ma mi avverte che non riconoscerò niente, perché a Gaza non c’è più niente. Parole che stringono il cuore e mi riportano davanti agli occhi la foto del ragazzo col corpicino bianco tra le braccia e le parole della mamma di Cecilia, che mentre consegnava la sua bambina sapeva che la peste avrebbe portato via anche lei. Oggi la peste è stata sconfitta, allora anche l’illegalità conclamata e la criminalità israeliane potranno esserlo. Parecchi ebrei nel mondo e nella stessa Israele, al pari dei palestinesi, è proprio questo che vogliono. Solo allora la resistenza palestinese non dovrà più contare i suoi morti né avrà più motivo di farne.
Patrizia Cecconi
28/11/2023 https://comune-info.net/
Articolo uscito sull’Antidiplomatico
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