Una questione di potere (sui nostri corpi)

La destra vuole usare i fondi del Pnrr per consentire alle associazioni antiabortiste di operare nei consultori. Di fronte a questo attacco alla salute sessuale e riproduttiva la marea transfemminista non si è fatta trovare impreparata

Il 23 aprile scorso, in Senato è passato l’emendamento al Decreto legge 19/2024 che prevede ilfinanziamento delle associazioni antiabortiste per operare nei consultori attraverso i fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Le Regioni potranno avvalersi «della collaborazione di soggetti del terzo settore che abbiano una qualificata esperienza nel campo del sostegno alla maternità» per l’organizzazione dei servizi consultoriali. Quindi, dei gruppi antiabortisti. Non si tratta di un fatto nuovo ma, adesso, gode di un chiaro sostegno politico, messo su carta.

La presenza dei gruppi antiabortisti nei consultori non contraddice il continuo riferimento di Giorgia Meloni all’applicazione della legge 194, che in Italia regola il diritto all’aborto e che il movimento transfemminista critica ormai da anni: l’articolo 2 dispone che «i consultori sulla base di appositi regolamenti o convenzioni possono avvalersi, per i fini previsti dalla legge, della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita». Grazie a questo articolo gli antiabortisti erano già entrati nei consultori, sotto varie spoglie. Adesso però l’appoggio governativo è esplicito, cambia la fonte dei finanziamenti e chi sceglierà le associazioni che collaboreranno con i consultori: non più l’equipe multidisciplinare del consultorio stesso ma la Regione. 

Questi spazi della salute si ritroveranno dunque un’imposizione dall’alto, e come possiamo immaginare, si allargherà la forbice di differenze di trattamento da regione a regione, a seconda delle decisioni politiche che verranno prese di volta in volta. L’emendamento è, da una parte, un ulteriore avvicinamento del governo all’elettorato antiabortista, dopo la firma del manifesto valoriale di ProVita e Famiglia in campagna elettorale, passando per l’espressione di solidarietà all’associazione dopo la manifestazione del 25 novembre a Roma; dall’altra parte è un messaggio per l’Europa. Con le elezioni europee alle porte un simile provvedimento dichiara un’intenzione politica che va in direzione opposta a quella che la maggioranza del Parlamento europeo ha indicato con la votazione della Risoluzione di pochi giorni fa, in cui si invitava a inserire il diritto all’aborto nella Carta dei diritti europei. Nella Risoluzione troviamo anche una nota specifica che riguarda proprio la richiesta all’Ue di monitorare e impedire che i fondi europei vengano utilizzati per finanziare le associazioni antiabortiste. L’Italia con questo emendamento sembra quindi aver accolto la richiesta dei pro-life che all’indomani della votazione della Risoluzione europea hanno esortato ad «aggiungersi ai paesi pro-vita».

Corpi sotto attacco: la 194 e la sua storia 

La storia dell’aborto ci parla della storia della nazione. Esiste un piano storico-normativo utile per osservare un percorso di trasformazioni non lineari nelle norme, nell’interpretazione di liceità/illiceità e nella percezione di gravità e colpa. Questa storia si lega imprescindibilmente all’autodeterminazione riproduttiva come campo di tensione che resiste alla costruzione di un discorso nazionale/nazionalista, fondato su una presunta «naturalità» dei corpi, dei ruoli, della famiglia e degli orientamenti sessuali. Ma ovunque, in contesti radicalmente differenti, ci sono sempre stati corpi e pratiche non conformi così come una pluralità di famiglie diverse, fatte di una donna o di un uomo e figli, di più coppie, di persone con legami di sangue e non, di figli non biologici, di relazioni non eterosessuali. Nella storia non c’è spazio per la norma, verrebbe da dire «naturalmente». 

I corpi delle donne e delle soggettività non conformi sono territori di incontro e scontro personale e politico; necessario spazio di riappropriazione e rivendicazione dei propri bisogni e desideri; luoghi di resistenza al potere ma, anche siti contesi per la riproduzione di questo stesso potere. Esiste una lunga durata del progetto di costruzione nazional familista, proprio delle destre e del cattolicesimo conservatore e legato all’idea di nazione come comunità etnica, che attraversa tutta la storia italiana (e non solo) sin dalla sua formazione. Nondimeno, c’è sempre stata e continua a esserci in vario modo la presenza e l’agire di esperienze e culture politiche – anche diverse e in contrasto tra loro – che hanno mosso e continuano a muovere una critica radicale a questo progetto. Si tratta di una questione di potere e di potere sui corpi, di un conflitto tra modelli dominanti e parti sociali, posizionamenti, pratiche e identità non riconosciute e discriminate. L’aborto, ancora oggi, ci parla di tutto questo.

La 194 restituisce nella sua ambiguità questo scontro costante. A differenza della legge 405/75 che istituisce i consultori e che aveva recepito le istanze del movimento femminista, la 194 fu, storicamente, frutto di un compromesso tra sinistra e Democrazia cristiana all’indomani dell’assassinio di Aldo Moro. La legge fu approvata meno di dieci giorni dopo la sua morte. L’intensità del conflitto sociale in quegli anni si era potuta misurare sul terreno dei rapporti di forza e si manifestava con lo scontro aperto. Anche le riforme (dall’approvazione dello Statuto dei lavoratori al varo della legge sul referendum e a quella sul divorzio) erano state conquistate in questo modo. Dopo Moro però tutto cambiò, dalla lotta si passò all’imperativo del compromesso; dagli anni di intensa mobilitazione a quelli del cosiddetto riflussoossia, semplificando, quell’atteggiamento caratterizzato dal disimpegno politico e sociale e dal ripiegamento nella sfera del privato in un clima di disillusione che ha caratterizzato l’inizio degli anni Ottanta. In qualche modo la 194 sembra situabile a cavallo di questo passaggio. Nonostante la legge depenalizzasse l’aborto, il punto non fu tanto legittimare questo diritto ma, piuttosto, tutelare la maternità nonostante la depenalizzazione. Nel corso di questi anni il carattere problematico di questo impianto è emerso con chiarezza sempre maggiore e, oggi come allora, tutte queste strategie si inseriscono in un gioco di potere strettamente legato a una strumentalizzazione dell’aborto che ha come obiettivo il disciplinamento dei generi. 

La 194 non presenta l’aborto come una libera scelta come spesso si crede: esso è previsto se la gravidanza comporta «un serio pericolo per la salute fisica o psichica» della gestante o per ragioni economiche, sociali e familiari. Deve cioè sempre esserci una giustificazione di qualche tipo, non è contemplata l’idea che si possa desiderare di non diventare genitori nella propria vita o in un momento specifico della propria esistenza. Inoltre, la legge istituisce diversi ostacoli all’accesso, come la famosa«settimana di riflessione» (articolo 5) e l’obiezione di coscienza (articolo 9), che a oggi è praticata da circa il 65% dei medici. Questa percentuale è possibile perché pur indicando che gli ospedali sono tenuti a fornire il servizio di Interruzione Volontaria di Gravidanza, non si pongono limiti all’obiezione arrivando a situazioni (22 ospedali e 4 consultori secondo la ricerca «Mai dati» condotta nel 2021) in cui il 100% del personale è obiettore e perciò non si praticano interruzioni – e in questi casi si parla di obiezione di struttura. Infine, come già accennato, attraverso l’articolo 2, le associazioni antiabortiste sono legittimate a essere presenti in consultori e ospedali, sotto le spoglie di «associazioni del   volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita» ma il loro ruolo è da sempre cercare di dissuadere e stigmatizzare chi sceglie l’aborto. All’indomani dell’approvazione della legge 194 il Movimento per la vita creò iCentri di aiuto alla vitache ancora esistono e spesso hanno sede all’interno di strutture pubbliche. Questo tipo di associazioni nel corso dell’ultimo decennio hanno avuto sempre maggiori sostegni istituzionali, fino a beneficiare di finanziamenti pubblici. Il caso più recente e eclatante ha coinvolto la regione Piemonte che, nel 2022, ha istituito un «Fondo vita nascente» da 400.000 euro, confermato e addirittura portato a un milione di euro l’anno successivo, gestito dalle associazioni antiabortiste per collaborare con i consultori pubblici. 

Non toccate i consultori!

L’emendamento si inserisce in tale quadro e si somma al generale disinvestimento nel sistema sanitario pubblico, che ha portato, tra le altre cose, al definanziamento e alla chiusura di molti consultori pubblici, fondamentali presidi territoriali la cui storia, è inestricabilmente legata a quella del movimento femminista, e che, oggi più che mai, dobbiamo difendere. La legge 34/1996 prevederebbe un consultorio ogni 20.000 abitanti (10.000 nelle zone rurali e semi-urbane), ma secondo i più recenti dati a disposizione, pubblicati dall’istituto Superiore di Sanità nell’Indagine sui consultori familiari 2018-2019, ne sono presenti 1.800, il 60% in meno dello standard minimo previsto per legge. 

I consultori pubblici svolgono un ruolo fondamentale per l’accesso a servizi essenziali per la salute sessuale e riproduttiva: secondo l’ultima Relazione ministeriale sull’applicazione della 194, con dati relativi al 2021, «i consultori familiari hanno raddoppiato la frequenza di rilascio della documentazione per l’Ivg con un incremento costante, passando dal 24,2% del 1983 al 42,8% del 2021». A ricorrere maggiormente al consultorio per chiedere il certificato sono le persone straniere (53,4% contro il 38,8% delle italiane), a testimonianza, per ammissione della stessa relazione, dell’importanza di servizi a bassa soglia che dispongono di figure professionali multidisciplinari (quando adeguatamente finanziati). Permettendo alla variegata costellazione antiabortista di entrare nei consultori pubblici, il governo conferma con chiarezza la sua posizione contraria non solo all’aborto e a tutte le soggettività che potrebbero ricorrervi, ma alla cittadinanza tutta. Il depotenziamento dei consultori, della salute pubblica e laica, è la perdita di un’enorme conquista collettiva – certo perfettibile – di cui sentiamo già i primi effetti, ben visibili in un sistema sanitario affaticato e sempre più privatizzato. Appare evidente il carattere squisitamente politico della proposta di legge attuale, che conferma e consolida una situazione già presente. 

Come dimostrano le molte testimonianze raccolte dalla mappatura di Obiezione Respinta nelle strutture dove sono presenti le associazioni antiabortiste si applicano spesso varie strategie di vessazione nei confronti di chi cerca di intraprendere un percorso di Ivg: si cerca di instillare il senso di colpa e si fanno pressioni psicologiche; si costringono le pazienti ad ascoltare il battito fetale; si sottopongono le persone a colloqui indesiderati e invadenti spesso senza dichiarare sin da subito che chi pone queste domande inopportune non è uno psicologo o una figura prevista dalla procedura ma semplicemente un militante dei ProVita; si forniscono informazioni fuorvianti sulle procedure e i certificati per spingere le persone oltre il limite consentito dalla legge; si fissano gli appuntamenti molto vicini al limite perché «noi confidiamo che lei possa cambiare idea e tenere il bambino»; si diffondonofalse informazioni scientifiche sulla presunta pericolosità dell’aborto e sulla falsa correlazione tra aborto e cancro al seno. Del resto, come ha dichiarato la stessa Maria Rachele Ruiu di ProVita e Famiglia, la loro presenza nei consultori è volta a informare le donne su «i rischi che l’aborto comporta per la salute fisica e psichica», rischi nei quali Ruiu include il cancro al seno, la depressione e il suicidio, tutte però correlazioni smentite più volte dagli studi scientifici.

Verso un maggio transfemminista e oltre

Il movimento Non Una di Meno ha risposto il giorno stesso e la settimana seguente alla votazione favorevole alla camera: decine di presidi, conferenze stampa, cortei e assemblee in cui tantissime persone si sono ritrovate, con rabbia, a difendere i consultori come luoghi di informazione, di accesso alla salute e di autodeterminazione. Sarà un «maggio transfemminista» quello che il governo si troverà davanti, che culminerà con la data del 25, giornata di mobilitazione nazionale indetta da Non Una di Meno e dalla Rete nazionale dei Consultori e delle Consultorie. Questa repentina votazione, che in 72 ore ha messo a soqquadro un intero sistema di servizi alla salute sessuale e riproduttiva, ha sicuramente colto molte persone di sorpresa ma non ha trovato la marea femminista impreparata: negli scorsi otto anni il movimento transfemminista ha intessuto una fitta trama di alleanze tra professioniste sanitarie, utenti dei consultori e attiviste. Sono sorte nuove consultorie, reti di accompagnamento all’aborto, progetti di mappatura e inchiesta sull’accesso all’Ivg. Oggi più che mai sarà necessario presidiare i consultori, le politiche regionali e ogni spazio mediatico perché la persecuzione da parte degli antiabortisti nei confronti delle donne e delle  persone che scelgono l’Ivg si muove a più livelli, ma può e deve essere contrastata. Perché oggi e sempre, che gli antiabortisti siano d’accordo o meno, la maternità sarà desiderata o non sarà.

Olimpia Capitano

Martina Facincani

Marina Sportelli

Eleonora Mizzoni

*Olimpia Capitano è dottoranda in studi storici all’università di Teramo e autrice del libro Livorno 1921. Dentro e oltre la Classe operaia. Si occupa di studi intersezionali e storia sociale del lavoro, con particolare attenzione alla storicizzazione del concetto di classe e alla storia del lavoro domestico. È attivista della piattaforma Obres.Martina Facincani è dottoranda in Gender Studies all’Università degli Studi di Bari Aldo Moro e attivista della piattaforma Obres.Eleonora Mizzoni è una delle fondatrici di Obiezione Respinta. È attivista di Non Una di Meno e collabora con Women on Web.Marina Sportelliè laureata in studi di genere all’università di Utrecht e in filosofia all’università di Tolosa. Si occupa delle intersezioni tra la tradizione materialista e quella femminista. È attivista della piattaforma Obres.

10/5/2024 https://jacobinitalia.it

























































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