Una scuola senza scuola
Nei giorni del lockdown una pessima raffigurazione retorica dipingeva la società in emergenza pandemica suddividendola in due schiere che si descrivevano l’un l’altra come liberal con tendenze negazioniste, difensori dei diritti individuali di correre e portare a spasso il cane, contrapposti ai comunitari afferenti al partito Netflix-bene comune. Una descrizione caricaturale, non unica fra quelle che tagliavano il nodo della pandemia con coppie fasulle e lessicalmente deprecabili (pessimisti Vs ottimisti, aperturisti Vs clausuristi, cenobiti apocalittici Vs integrati filogovernativi), che lasciava fuori i milioni di lavoratrici e lavoratori che uscivano di casa per andare a lavorare – dal comparto logistico ai riders, fino ai distretti produttivi e agli uffici; e i milioni che a casa ci stavano non per sfondarsi di serie tv, ma per lavorare da remoto, in modalità smart. Fra questi, le/gli insegnanti costretti dall’emergenza a esperire la didattica a distanza in una scuola senza scuola: come Giuseppe Caliceti, maestro nel reggiano e attivista della scuola di lunga data, che da questa esperienza ha tratto il prezioso diario in progress La scuola senza andare a scuola. Diario di un maestro a distanza (Manni editore, Lecce 2020, pp. 158, € 14). Un diario nel quale si intersecano le riflessioni sul fare scuola in una scuola che tale non è, perché privata dell’unità costante di tempo e luogo e delle quotidiane relazioni fra le diverse soggettività, con questioni che per un maestro sono pane quotidiano: l’invadenza delle valutazioni, il rapporto con bambine e bambini in situazione problematica, il progressivo smantellamento della scuola pubblica, un pezzo dopo l’altro. Caliceti insegna in Val d’Enza, sommersa da una montagna di fango a seguito dell’inchiesta “Angeli e demoni”, poi conclusasi con l’individuazione di pochi casi individuali e il riconoscimento che “il sistema Bibbiano non era né corrotto né malato”; passato il clamore propagandistico (c’erano le elezioni regionali di mezzo), ciò che è rimasto è lo smantellamento della rete di servizi sociali della Val d’Enza, e l’affidamento dei suoi minori alla rete di Reggio Emilia. Nel mezzo, le bambine e bambini – perché “non esistono famiglie perfette. Alcune versano in situazioni difficili, a volte tragiche. E in esse possono esserci bambini e ragazzi che soffrono” –, la cui competenza non era più degli assistenti sociali della Val d’Enza, ma neanche di quelli di Reggio Emilia che sostenevano si trattasse di una situazione temporanea; e poi, dopo un avvio d’anno senza assistenti sociali, il covid-19: “Noi docenti siamo stati di nuovo lasciati soli con i bambini. E la scuola a distanza ha fatto quello che sa fare meglio: tenerli a distanza”. Non così il maestro reggiano, che si è preso cura – l’insegnamento, Caliceti non lo dice esplicitamente ma lo fa trapelare in ogni pagina, è lavoro di cura – dei tenuti a distanza, anche di quelli confinati nei campi nomadi, per non interrompere il processo di apprendimento avviato nei primi mesi (Caliceti insegna in una prima classe primaria).
Sono pagine molto belle, quelle del maestro che si avventura nel campo per incontrare la sua alunna; così come molto belle sono le pagine costituite dalla ridda di voci delle bambine e bambini: voci che descrivono trame che si intessono fra un dire e un detto, a formare un disegno di soggettività camune che resiste, nonostante tutto, alla smaterializzazione delle relazioni e alla privazione del rapporto fisico “in presenza”.
Così come molto belle (forse le migliori) sono le pagine in cui Caliceti riflette sui voti, sullo spasmodico bisogno di valutazione a ogni costo, in un anno contrassegnato anche da una buona notizia: l’abolizione dei voti nella scuola primaria. “Nel caos che caratterizzerà il prossimo anno scolastico, almeno ci sarà un delirio in meno da ingoiare”: segno che a volte la lotta comune e di lunga durata paga. I voti, scrive Caliceti in un crescendo, sono “bombe a orologeria che in un attimo possono disintegrare un gruppo classe costruito in anni di duro lavoro”. I voti “trasformano i bambini nell’errore che hanno commesso. I voti non sono né esatti né giusti: non sono mai sinceri”. I voti “non si meritano perché nessun bambino, nessun ragazzo si merita di essere ridotto a un numero”. Nei voti si incarna e attecchisce “un’idea sbagliata, forcaiola, pericolosa, ingiusta, aziendalistica, antidemocratica di scuola pubblica. Legata alla falsa meritocrazia che pretende di dividere, a partire dai sei anni, i migliori dai peggiori”. Una meritocrazia difesa a spada tratta dal “vescovo Ernesto”, che “dall’alto della sua cattedra di pedagogo, santo, poeta e navigatore di lungo corso” pontificava che, piuttosto che concludere un anno di scuola che scuola non è stata senza selezione, meglio sarebbe stato riprendere la scuola al 25 agosto, riassumere in 50 giorni un intero trimestre, e al 30 ottobre valutare e misurare e giudicare e dividere studentesse e studenti “tra buoni e cattivi, meritevoli e immeritevoli, virili e non virili, salvi e dannati, capaci di sacrificarsi e incapaci, dirigenti e operai, nobili e plebei, ignoranti e gente per bene come lui”, Ernesto Galli della Loggia.
Caliceti ha il dono della penna leggera e della parola chiara e semplice, da bravo maestro; e così riesce ad esprimere in poche, chiare parole riflessioni di alto livello: apri il capitoletto “Nessuno si salva da solo”, e senti la sua voce spiegare a bambine e bambini, ma anche ad giovani e adulti, perché il virus è la malattia della globalizzazione che incarna “l’ideologia neoliberista dove tutti sono in guerra contro tutti”, e come già prima del virus la nostra esistenza ci veniva narrata come una guerra feroce nella quale “l’Altro era già un concorrente, quindi un potenziale nemico”. Prima della pandemia “lo straniero era il diverso da noi, arrivava da lontano. Ora siamo tutti stranieri l’uno all’altro”: e senti l’eco di Camus, ma anche la stessa riflessione che su altri registri ha fatto Donatella Di Cesare in Virus sovrano?.
Questa leggerezza gli consente di dire in poche e chiare parole l’essenziale anche sulla didattica digitale o a distanza o smart che la si voglia chiamare. Intendiamoci: sul rapporto fra educazione e didattica esiste un’ampia letteratura internazionale che, in tempi non sospetti (si veda, a titolo riassuntivo, il libro del 2019 di Marco Gui Il digitale a scuola, che ne fa un’agile ma vasta rassegna), ha evidenziato come l’ordine del discorso digitale non sia suffragato da alcuna evidenza empirica che ne attesti l’utilità, se non quella di applicare anche alla scuola le regole del mercato – del capitalismo delle piattaforme, per essere precisi – secondo i dettami neoliberisti del New Public Management. Ma questa letteratura, chi pratica la fatica quotidiana del lavoro didattico la conosce nei fatti, indipendentemente dal bagaglio teorico di riferimento; che la DaD abbia fatto esplodere le differenze di classe che con molta difficoltà nell’aula “fisica” si possono gestire e stemperare non dovrebbe stupire; che il correlato della scuola a distanza, e cioè la valutazione a distanza, si sia rivelata “approssimativa, sfocata, sbagliata, fantasiosa”, era nell’ordine delle cose: epperò pur di non rinunciare a quei voti, pur di non lasciare caselle vuote, i docenti sono stati costretti a inventarsi indicatori, e il più improbabile e ingiusto degli esami di Stato si è comunque svolto. Insomma, che la didattica digitale sia “una foglia di fico per nascondere le vergogne di una scuola pubblica saccheggiata da decenni peggio della sanità pubblica, poi azzoppata dalla pandemia, che ha accelerato il processo di privatizzazione già in atto da tempo, su cui in tanti si stanno gettando come iene fameliche”, è una solo apparente ovvietà, che ovvia non è. Il che non contraddice il fatto che sia anche una verità di fatto, oltre che di ragione. Riuscire a dire cose profonde senza cadere nell’ovvio fa parte di quella tradizione pedagogica richiamata da Caliceti: Gianni Rodari, Loris Malaguzzi, don Milani, Mario Lodi. Non c’è bisogno di evocare le tautologie di Catalano per dire che la presenza è meglio dell’assenza: basta avere buone letture e buone pratiche didattiche.
In conclusione, Caliceti ci rimanda al dovere di immaginare un’altra scuola: “se non saranno docenti e genitori [e studenti, aggiungo] a immaginarsi la scuola a settembre, io penso che qualcuno la immaginerà per loro: e sarà al ribasso”. Del resto, viviamo in tempi in cui una stupida polemica contro una tutto sommato innocua canzone di John Lennon attesta quanto i cani del capitale abbiamo paura della semplice parola “immaginare”. Sono tempi bui: possiamo convenire con Caliceti. Che però ricorda le parole di Rodari: “Nei rapporti fra padri e figli, come in quelli tra la scuola e i giovani, niente di buono può nascere dall’autorità: tutto dalla solidarietà”. E conclude: col coraggio di immaginare un mondo e una scuola migliori, si insegna la forza del coraggio e dell’immaginazione alle generazioni a venire. È un primo passo; resta poi da compiere quello più impegnativo: realizzarlo, questo nuovo mondo. A partire dalla constatazione del poco che abbiamo da perdere, e del molto – un mondo intero – che c’è da guadagnare.
Facciamo il primo passo, e prepariamo il secondo.
Girolamo De Michele
http://www.euronomade.info8/8/2020
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