Padova. Una storia scabrosa e vincente
Un quartiere disegnato, dalle istituzioni e dai media, come un ghetto destinato a minacciare la comunità. L’intervento dei comitati e delle associazioni per liberare via Anelli, a Padova. Lo racconta un graphic novel e ne scrive Gianfranco Bettin
A un certo punto, il complesso residenziale «Serenissima» di via Anelli a Padova (sei palazzine realizzate da privati negli anni Settanta poi acquisite dal Comune che infine ha provveduto ad abbatterle, demolizione conclusa nel 2020) sembrò rappresentare, nell’opinione pubblica non solo locale, il simbolo di un particolare tipo di «ghetto»: una realtà interna alla città ma ostile a essa e, da essa, ostracizzata, da cui partivano attacchi al resto della comunità e in cui i responsabili di tali aggressioni trovavano rifugio. Un’entità aliena ma incistata nel corpo urbano.
Lo sviluppo di una tale, diffusa, percezione ha avuto poco di casuale. Se era ovvio che singoli episodi che vi avvenivano impressionassero chi vi assisteva da vicino, come i residenti nella zona attigua, o chi altrove ne veniva a conoscenza attraverso i media, va decostruito il modo in cui il racconto di quegli episodi e del luogo da cui prendevano le mosse produceva un sovrappiù di emotività, di alone sporco e pericoloso intorno all’intero quartiere (un’area piuttosto circoscritta, in effetti, non certo delle dimensioni di un «Bronx», come – al solito, con poca fantasia e ancor meno conoscenza – il piccolo rione padovano veniva spesso epitetato).
Soprattutto, si perdeva di vista spesso, nel racconto pubblico, l’origine di questa storia, cioè la trasformazione di una ristretta zona residenziale destinata a ospitare prevalentemente studenti fuori sede, come accadde tra gli anni Settanta e Ottanta, in un coacervo di situazioni problematiche e di esclusione sociale, tra sofferenze e conflittualità, nonché di progressiva fatiscenza della qualità materiale e urbana. Emblematico di tutto ciò, insieme ai posti di blocco spesso collocati all’ingresso del complesso residenziale e alla presenza di forze dell’ordine all’interno, è stato il cosiddetto «muro», in realtà una recinzione metallica eretta dal Comune nel 2006 a separare dai vicini i condominii «scabrosi» (alla Slavoj Žižek, si potrebbe dire, anche se qui ha prevalso un approccio assai più sbrigativo).
Eppure, non mancavano nel microcosmo di via Anelli forme comunitarie vitali, persone e famiglie che vi cercavano un destino onesto. Anzi, erano la stragrande maggioranza. Non c’era solo il «ghetto alieno» costruito nell’immaginario pubblico dal racconto prevalente nei media e dalla narrazione politica più diffusa, frutto dell’intervento di partiti e formazioni soprattutto della destra e dell’estrema destra, oltre che della Lega nord, o di comitati territoriali molto permeabili da questi discorsi, con una trasversalità che, però, ha spesso coinvolto anche settori politici della sinistra e dell’opinione pubblica a essa vicini. C’era molto altro.
Lo sapeva bene l’associazione Razzismo Stop che, rifiutando il banale ma velenoso stigma che veniva impresso sulla comunità di via Anelli, decise di intervenirvi direttamente. Razzismo Stop stava già collaborando, con la cooperativa Caracol, con il Comune di Venezia per superare la concentrazione di profughi delle guerre balcaniche presenti in due campi di accoglienza a Mestre, nella frazione di Zelarino (un campo aperto già nel 1992, con lo scoppio della prima guerra balcanica) e a San Giuliano (aperto successivamente, per decongestionare il primo ma poi affollatosi con gli arrivi susseguitisi e accentuatisi con lo scoppio dei conflitti etnici e poi della guerra del Kosovo, nella seconda metà degli anni Novanta). Si trattava di centinaia di persone che, per quanto le strutture fossero costantemente risistemate, data la rapida obsolescenza, e per quanto vi fossero garantiti i servizi essenziali (assistenza medica e igienica, scolarizzazione, trasporti ecc.), si trovavano in condizioni precarie e, alla lunga, insostenibili.
Il Comune di Venezia affidò quindi a Razzismo Stop e alla Caracol il compito di superare questa situazione. Nel giro di circa tre anni, si riuscì così a trovare a circa 350 persone alloggi adeguati (affittati o acquistati con mutui dai profughi, accompagnati da operatori che li avevano anche aiutati a trovare lavoro), ridistribuendone, sempre consensualmente, la presenza in un territorio molto vasto della regione, evitando concentrazioni e favorendone l’inserimento nelle comunità di cui andavano a far parte (spesso realtà piccole, poco abitate, a cui conferivano nuova vitalità sociodemografica). In diversi casi, terminate ormai le guerre balcaniche, fu possibile, in base alla scelta di nuclei familiari o di singole persone, anche favorirne il rientro in patria. Un’esperienza che andrebbe assunta come modello, forse ancora troppo poco nota.
Anche grazie a tale esperienza, Razzismo Stop immaginò e progettò l’intervento in via Anelli. Approfondì la condizione reale dei residenti. Fece inchiesta, analisi sociale: scoprì che, in oltre 400 appartamenti, vivevano circa 1.500 persone (tra cui una settantina di bambini di età tra 0 e 12 anni), di una quindicina di origini diverse (soprattutto Marocco e Nigeria, ma anche Tunisia, Senegal, Moldavia, Romania, Macedonia, Benin, Somalia, Sri Lanka, Pakistan, Togo, Costa d’Avorio, Sierra Leone), spesso in alloggi sovraffollati, data la difficoltà di accedere ad alloggi pubblici o comunque alla portata del loro reddito. Appartamenti a volte antigienici, troppo piccoli, oppure con i servizi fondamentali malfunzionanti o interrotti.
Si trattava di un microcosmo difficile, dunque, ma che, analizzato più profondamente, si rivelava parte di una nuova composizione sociale. Sarebbe emerso con più chiarezza e vastità negli anni successivi, ma già in quello scorcio a cavallo tra i due secoli, si capiva che in via Anelli c’era un pezzo del nuovo mondo del lavoro, quello più sfruttato e senza diritti ma tuttavia – o forse proprio per questo – ben integrato nelle nuove catene di produzione e di servizi: le filiere della logistica, delle pulizie, dell’assistenza alla persona, delle prestazioni interinali.
Gente che c’entrava poco con chi utilizzava lo snodo di Via Anelli, e certi suoi «anfratti», per le attività illegali, spaccio in primis (con diramazioni che andavano ben oltre il rione e la stessa Padova). Gente, i residenti, altrettanto vittima di costoro quanto il resto della città. Gente a cui, per la prima volta, Razzismo Stop diede un punto di riferimento stabile, dapprima collocandovi un container e poi comprandovi un alloggio con un mutuo concesso da Banca Etica. Dopo un’assemblea popolare partecipata da centinaia di inquilini, quell’appartamento diventerà la base del neonato Comitato per il superamento del ghetto di via Anelli, organismo misto di residenti e associazioni antirazziste e solidali, e in una sorta di «centro servizi» per assistenza legale sul lavoro, l’assistenza medica, l’orientamento. Oltre che per promuovere iniziative sociali, sportive, ricreative, culturali e politiche.
«Superare il ghetto», apparve ben presto chiaro, significava lo smantellamento del rione e la ridistribuzione, in situazioni degne, dei residenti nella città. L’amministrazione comunale, infine, con la giunta Zanonato, si convinse che era la strada giusta e si mosse in questa direzione. Il percorso, partito dal basso, si trasformò in un progetto definito, infine condiviso anche dalle istituzioni locali. Le quali, tuttavia, rischiarono a un certo punto di oscurare questa scelta quando decisero di realizzare la barriera metallica che separava intanto il rione dal resto della città. L’immagine del «muro di via Anelli» oscurò, così, il progetto in corso, ben più radicale e lungimirante, per risolvere i problemi alla base, rischiando, come ebbe a commentare uno degli attivisti di Razzismo Stop, Gianni Boetto, «di compromettere buona parte del lavoro svolto dalle associazioni antirazziste» e «confermando l’assunto che le istituzioni, spesso, quando agiscono da sole e senza il doveroso confronto con le realtà che stanno sul campo rischiano di fare danni».
Sempre, infatti, queste situazioni «scabrose» sono influenzate dal modo in cui vi interviene la pubblica amministrazione, dalle priorità e dai tempi che essa sceglie di darsi, dal peso che vi rivestono il racconto pubblico, l’influenza dei media e della narrazione politica. Per questo, il tema della rappresentazione e del fare storia, del collocare in una prospettiva e in una interpretazione, i fatti, le persone, le dinamiche, è sempre determinante nella valutazione politica e, spesso, nelle decisioni istituzionali e amministrative riguardanti vicende che si impongono all’attenzione nevralgica della città. Vale per le vicende ancora in corso ma vale anche per la loro rivisitazione in sede storica, o narrativa, come si fa in questo volume.
La forza illustrativa, unita alla capacità esplicativa dei testi di Giuseppe Zambon – ma, qui, in un certo senso, la qualità del disegno di Paolo De Marchi è in sé eloquente, per capacità suggestiva e icastica, precisa, reinterpretazione grafica – restituiscono la complessità e la radicalità di questa storia, che ritroviamo come storia politica e come storia di persone, di destini, molti dei quali forse dispersi, oggi, altri di cui possiamo intuire i percorsi. Una storia a suo modo vincente, da cui trarre lezione, almeno quanto ci si appassiona a seguirla, tra tavole e parole, in questo libro.
Gianfranco Bettin è narratore e saggista. Attivista ecologista, è stato deputato e prosindaco di Venezia, dove è consigliere comunale. Ha pubblicato, tra gli altri, Il clima è fuori dai gangheri (Nottetempo, 2004) e il romanzo Cracking (Mondadori, 2019). Con Marco Paolini è autore del testo teatrale Le avventure di Numero Primo e il romanzo omonimo (Einaudi, 2018). Nel 2023 ha scritto con Maurizio Dianese La tigre e i gelidi mostri. Una verità d’insieme sulle stragi politiche in Italia (Feltrinelli). È coautore, con Luca Casarini, de La cospirazione del bene (Feltrinelli, 2024). Il testo che pubblichiamo in questa pagina compare in Il muro di Via Anelli. Frammenti di vita e di lotta per la casa, di Bepi Zambon e Paolo De Marchi (Becco Giallo, 2024).
30/12/2024 https://jacobinitalia.it/
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