Una “storia semplice” nel carcere di Salerno
Il magistrato scoppiò a ridere. «L’italiano.
Ero piuttosto debole in italiano.
Ma, come vede, non è poi stato un gran guaio:
sono qui, procuratore della Repubblica…».
«L’italiano non è l’italiano: è il ragionare», disse il professore.
«Con meno italiano, lei sarebbe forse ancora più in alto».
La battuta era feroce. Il magistrato impallidì.
E passò ad un duro interrogatorio.
Leonardo Sciascia
NOMI E “COSE”
La sezione “promiscui protetti” della casa circondariale Antonio Caputo di Fuorni (Salerno) è uno spazio tipico degli attuali istituti di pena. Per capirne il funzionamento bisogna immergersi nelle prassi che animano questo tipo di padiglioni. Il nome che definisce il “circuito” non nasconde l’obiettivo di fortificare un ghetto: luoghi strani che raccolgono una specie curiosa di umani, i promiscui, che sono affiancati da esseri altrettanto eccentrici o comunque non capaci di resistere alla natura ostile del penitenziario, i protetti. Anche se il dato normativo serve a poco, la circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria n. 500422 del 2001 tenta di organizzare questo inferno disordinato con dei parametri identificativi: “Le sezioni ‘protette’ sono destinate al contenimento di soggetti che abbiano il divieto di incontro con la restante popolazione detenuta per condizioni personali ovvero per ragioni detentive e/o processuali” e “le sezioni in argomento possono contenere promiscuamente soggetti con problemi di tutela di natura diversa”.
Lo sforzo degli “architetti giuristi” del ministero è stato evidentemente inutile, quelle parole sono tutt’altro che ordinanti perché inseguendosi tra loro definiscono il nulla. In quelle stanze confluisce di tutto: persone scelte in base all’orientamento sessuale, sofferenti psichici non presi in carico adeguatamente dall’area medica, detenuti che preferiscono stare in isolamento continuo, collaboratori di giustizia, “sex offenders”, giudicabili o definitivi, soggetti dipendenti da sostante stupefacenti o psicotrope. Anni fa con l’Osservatorio di Antigone, in uno di questi segmenti penitenziari, incontrai un detenuto che cospargeva le mura della cella di feci e non parlava con nessuno, non ricordo se il comandante lo identificò come promiscuo o come protetto. «Non sappiamo dove metterlo», disse. Quelle parole restituiscono esattamente la funzione di questi spazi ibridi, contenitori di scarti.
“DECESSO PER CAUSE NATURALI”
Il 10 maggio 2022 all’interno di questa sezione del carcere di Salerno, Vittorio muore. Era entrato in quell’istituto nel settembre 2019 e per le sue particolari condizioni di salute era stato sottoposto prima a “grande sorveglianza”, poi a “grandissima sorveglianza” perché si temeva potesse compiere gesti estremi. La scheda degli “eventi critici” che lo hanno coinvolto tratteggia un animo irrequieto, riottoso: danneggiamenti, violenze, incendi, aggressioni al personale… Tuttavia, su una delle relazioni, l’occhio attento del garante dei detenuti, Mauro Palma, evidenziò una contraddizione poi rappresentata alla direzione dell’istituto. La Relazione di servizio relativa all’evento avvenuto il 29 marzo 2022 e registrato il 30 marzo 2022 come atto di “autolesionismo” si contraddiceva con il certificato medico redatto il 29 marzo 2022 “riportante una valutazione di non compatibilità delle lesioni rilevate con il trauma riferito dal sig. Vittorio…”, quindi non erano ferite auto-inferte ma frutto di una lite. Insomma, Vittorio, classe 1986, era un osso duro, un corpo poco disciplinato, tutt’altro che docile e la sofferenza che portava dentro sé fungeva da detonatore di esplosioni imprevedibili.
La storia del decesso si porta dietro le tracce di questa vita scomposta. Nessuno sapeva bene cosa fare con Vittorio e spesso l’unica soluzione era tenerlo segregato. Si riscontra nella sua cartella che nel 2021 è stato in “isolamento sanitario” per un tempo continuativo di oltre sei mesi. Quali eventi hanno determinato un’esclusione così prolungata? Si legge nella relazione della Commissione ispettiva istituita dal provveditorato dopo il decesso del ragazzo: “Il comportamento ostile del Vittorio ha indotto a un atteggiamento di resa gli operatori del settore pedagogico e sanitario, che in tre mesi non si sono mai recati presso la VI sezione per un colloquio di iniziativa con lo stesso. Di fatto, il detenuto Vittorio viveva al di fuori di qualsivoglia relazione umana. Nessun compagno di cella, nessuna attività trattamentale, nessun colloquio con operatori, scarsissimi colloqui con la madre, nessuna terapia psicologica, e a quanto riferito dal detenuto Costantino, nessuna terapia farmacologica, in quanto il Vittorio la rifiutava puntualmente, tanto che negli ultimi tempi l’infermiere non gliela proponeva neanche più”. Nella relazione conclusiva dell’ispezione anche il provveditorato rilevò un uso spropositato dell’isolamento precauzionale e l’assoluta assenza di un confronto multidisciplinare con l’area sanitaria e l’articolazione di salute mentale presente nell’istituto per l’eventuale presa in carico. Infatti, l’istituto salernitano soffre da anni la rottura tra l’area sicurezza e quella sanitaria, frattura difficilmente ricomponibile a causa dell’indipendenza delle catene di comando. Ancora, la frammentazione coinvolge gli stessi operatori penitenziari che si coagulano in fazioni con interessi contrapposti.
In questo fragile e disordinato equilibrio anche le carte sembrano naufragare nella confusione. Gli atti ufficiali che registrarono parte di quanto accaduto il 10 maggio seguono un iter strano. L’annotazione del decesso non desta contraddizioni, invece la relazione che incamera il dato dell’“aggressione al personale” che Vittorio avrebbe commesso sempre il 10 maggio ai danni degli agenti intervenuti è del giorno successivo. I pubblici ufficiali nell’atto affermano che soltanto allora ne avrebbero preso conoscenza… perché scrivere dell’aggressione il giorno dopo quando gli apici del comando già conoscevano i fatti molte ore prima? A qualcuno sarà passato di mente o forse le carte si sono maldestramente ingarbugliate.
UNA NOTTE DI FUOCO
Questo abisso comincia con un contrasto tra Costantino e Vittorio. I due detenuti da pochi giorni condividevano la stessa cella e la tarda sera del 9 maggio litigarono per una questione futile. Vittorio rispose in modo violento forse soltanto con un morso e con un pugno e tale reazione aveva indotto Costantino a chiedere di essere spostato di cella. Venne trasferito ma il giorno successivo accadde qualcosa di strano. Costantino chiese di riavere i propri effetti personali e due agenti di turno ordinano allo stesso di seguirli per recarsi nella cella condivisa. Questa scelta gli sembrò un azzardo per motivi di sicurezza perché sarebbe potuto scoppiare un altro litigio, ma alla fine Costantino rimase fuori dalla cella e appena entrarono gli agenti sentì uno schiaffo. Non sa chi fece partire il colpo, ma sentì una discussione. Si sentì un dialogo acceso tra i pubblici ufficiali e Vittorio, lo avvertirono che stava creando troppi problemi e lui rispose che voleva stare solo. Subito dopo sentì una serie di rumori forti, insomma, quelli di una colluttazione. Costantino vide gli agenti che con calci progressivi allontanavano un coltellino trovato nella cella, si sentì chiamare da quelli e quando entrò vide che uno di loro tratteneva Vittorio spalle al muro con il gomito sula gola. Gli agenti lo richiamarono una seconda volta per chiedergli di suonare l’allarme antincendio. Costantino si recò all’interno ancora un’altra volta e vide un agente steso a terra che tratteneva Vittorio sopra di lui con una presa al collo mentre l’altro collega cercava di tenerlo fermo. In quel momento gli agenti chiesero a Costantino un aiuto per spostarlo; quando si avvicinò al ragazzo Costantino si accorse che perdeva sangue dalla testa, dalla bocca fuoriusciva saliva e aveva gli occhi fuori dalle orbite. Secondo l’amico, Vittorio era ancora vivo, stava resistendo con ogni forza. Si impressionò e uscì fuori con le mani macchiate di sangue. La cella era sottosopra, la resistenza cessò e Vittorio gradualmente lasciò andare la vita.
Gli esposti dei familiari della vittima, del garante nazionale, Mauro Palma e di Antigone, hanno interrogato la procura della Repubblica competente per accertare le cause di questo decesso.
IL PM, LE PARTI E IL GIUDICE
I dubbi su questa morte hanno colpito quasi tutti, alcuni rimangono ingombranti. Tuttavia, all’esito delle indagini l’Ufficio di Procura ha chiesto l’archiviazione del procedimento. La ricostruzione del pubblico ministero mette su carta diversi scenari per chiudersi con le conclusioni del proprio medico legale. Non nega che il 10 maggio vi sia stata una colluttazione tra gli agenti e Vittorio, i segni erano evidenti sul cadavere anche se è probabile che alcuni di questi potessero riferirsi al litigio della sera precedente o addirittura ad altre battaglie recenti. A ogni modo sul corpo di Vittorio c’erano segni di guerre evidenti, alcune di queste consumate qualche ora prima della morte. La notizia di reato fu iscritta come “omicidio preterintenzionale”, ma vi era effettivamente un dubbio per perseguire questa strada anche nelle successive fasi del dibattimento. Vittorio aveva lottato contro gli agenti, difficile dire a chi appartenesse la responsabilità dell’innesco della colluttazione (chi avesse fatto partire il primo schiaffo), tuttavia Costantino vide chiaramente che Vittorio fu immobilizzato e subì più volte una pressione alla gola. Un sospetto soffocamento? Per il medico legale non furono quelle pressioni in aggiunta alle ferite “violente” inferte durante la lotta a causarne la morte. L’accademico specifica che “in particolare, lo sforzo fisico (soprattutto in caso di soggetti che non sono normalmente attivi), lo stress emotivo, la rabbia e l’eccitazione estrema (anche con il concorso di disturbi mentali o patologie psichiatriche sottostanti), possono scatenare eventi cardiaci acuti e morte cardiaca improvvisa in soggetti predisposti. Non esistono tuttavia misurazioni oggettive per l’intensità dello stress, in quanto non esistono predittori significativi della gravità della risposta fisiologica dell’individuo a un fattore di stress”. Insomma, Vittorio mentre veniva immobilizzato, strattonato, capovolto, soffocato, si era tremendamente emozionato e questo scatenò il collasso del cuore. L’organo centrale non resse lo spavento. Secondo il magistrato, in accordo con il medico, il soffocamento era “successivo a una crisi cardiaca, concomitante, anzi antecedente, causata dallo stress, dal picco emotivo del momento”.
Quindi la procura ha ritenuto di non dover chiedere ulteriori approfondimenti dibattimentali, già in fase di indagine secondo le impressioni del pubblico ministero era chiaro che non vi fosse “ragionevole previsione di condanna”. Eppure, nelle opposizioni delle parti alla richiesta di archiviazione sono stati evidenziati alcuni punti trascurati dal magistrato inquirente. Antigone ha sottolineato tutte le lesioni (anche gravi) riscontrate sul corpo di Vittorio, elencandole dalla lettera a) alla lettera u), argomentando sulla evidente connessione causale tra le mazzate e il collasso degli organi, come concause che hanno prodotto l’evento morte. Inoltre, il principio della colluttazione è osservato da altra prospettiva. Lo schiaffo dovrebbe attribuirsi agli agenti perché nelle loro dichiarazioni e nella annotazione congiunta non ve n’è traccia. Emergono la ricostruzione degli insulti e l’atteggiamento aggressivo di Vittorio ma dello schiaffo nessuna presenza. Perché non annotarlo? Sulla stessa linea si attesta l’opposizione all’archiviazione del Garante nazionale. Riprendendo la ricostruzione del pubblico ministero riguardo all’“accesa colluttazione”, il legale attribuisce la paternità dello schiaffo agli agenti e riporta anche quanto sentito dagli altri detenuti in sezione: “Mi stai uccidendo, la vuoi finire”, dichiarazioni che convergono rispetto all’efferatezza dell’intervento. Il piano, inoltre, viene rovesciato completamente con il deposito di un’ulteriore consulenza medica. Questa volta gli specialisti hanno perimetrato la forza lesiva dei colpi (tale da procurare anche “fratture in più porzioni e frammenti al naso”), alcune tra queste – come le lesioni interne al labbro – raccontano di una costrizione alla bocca. La relazione del medico legale, coadiuvato dal parere esperto di un cardiologo, ha sgombrato il campo da ogni dubbio: il ragazzo non è morto per “cause naturali”, la colluttazione ha generato un edema polmonare che non è stato tempestivamente trattato – non si sono fermati quando boccheggiava –, da cui è insorto il collasso improvviso del cuore.
Tuttavia, queste valutazioni non hanno scalfito la posizione granitica dell’istituzione, che veniva ripresa e ampliata con l’archiviazione definitiva del giudice. Per il Gip il compendio dichiarativo degli altri detenuti presenti in sezione non era attendibile: “Erano fortemente motivati dal trarre dal tragico evento a cui avevano assistito e dalle dichiarazioni che erano chiamati a rendere, benefici e agevolazioni nel trattamento penitenziario”. Versioni artefatte, quindi inaffidabili. Il provvedimento demolisce anche il racconto di Costantino, l’unico testimone oculare. Lo stesso aveva interloquito con le autorità più di una volta, disegnando una progressione accusatoria nei confronti degli agenti. Le osservazioni del giudice in alcuni punti appaiono contraddittorie, perché le dichiarazioni di Costantino (almeno nelle prime versioni) sono valutate coerenti quando ripercorrono l’iter del litigio e dei momenti antecedenti all’ingresso in cella, diventando poi inverosimili quando arricchite dagli ulteriori elementi che sembrerebbero in contrasto con quanto asserito dal giudice. Il magistrato di lunga carriera superando anche la ricostruzione del pm ha sostenuto che la colluttazione non ci sia mai stata. Non ci sono le prove, e la rigorosa consulenza medica depositata dalla procura è sufficiente a spiegare il decesso, evitando così il confronto con la “generica opinione” degli altri tecnici di parte.
Il difensore dei parenti della vittima ha deciso di ricorrere alla Corte di Strasburgo per riaprire il procedimento.
NON UN PASSO INDIETRO
L’incapacità di comporre i problemi complessi è la condizione di fondo che conduce a osservazione miope, non consentendo di mettere a fuoco gli oggetti. Accanto a questa valutazione, la vicenda induce a una riflessione ulteriore che riguarda le ritrosie istituzionali a tornare sui propri passi, mettere in discussione le decisioni prese, soprattutto quando incidono su alcuni assetti di forze. La complessa ordinanza del Gip ha il tenore di una sentenza di assoluzione, eppure in quella fase di giudizio bisognerebbe valutare l’eventuale stabilità delle contestazioni ipotizzate proiettando le investigazioni a carico nella successiva verifica dibattimentale.
La morte di Vittorio è contornata da una serie di incertezze incontestabili, per diminuire il perimetro dell’indeterminatezza sarebbe bastata anche una perizia del tribunale per scavallare i pareri medici delle parti. Esaminando ancora le tracce delle ferite sul corpo, si sarebbero potute approfondire le concause del collasso degli organi. In dibattimento si sarebbero potute stressare le testimonianze per tastarne la credibilità, si sarebbero potuti individuare altri elementi di prova. Perché questa determinazione nel chiudere e blindare il procedimento?
Non siamo dell’idea che i processi servano a scoprire la verità, il più delle volte contribuiscono a costruirla, e, soprattutto, il procedimento penale non è il luogo della vendetta, men che meno della giustizia. Ma è chiaro che alcuni dubbi investigativi sorti in certi contesti sociali conducono a una inevitabile “sentenza di colpevolezza”, mentre quando riguardano altri luoghi dell’umano producono previsioni opposte. È il contesto a conferire peso al dubbio e a direzionarlo.
La morte di Vittorio porta con sé delle insufficienze, prima tra tutte il decesso dell’unico testimone oculare, Costantino, che arrivato al carcere di Ariano Irpino si è tolto la vita con una cinta. Anche su questa seconda morte pende un’indagine alla procura di Benevento. Sappiamo di alcune lettere inviate alla procura, al provveditorato, al garante regionale, alle associazioni, in cui il ragazzo raccontava della sua fragilità insorta dopo la morte a suo dire violenta di Vittorio. Era stravolto dalla vicenda, spaventato per la propria posizione, si sentiva costantemente minacciato. Il senso di colpa per la morte di Vittorio lo ha consumato gradualmente e il carcere ha fatto il resto, ma rimane da accertare cosa sia effettivamente successo nell’istituto avellinese.
Attraversando queste storie si individua una specie di istinto animale che percorre gli apparati. Un moto istintuale di sopravvivenza che li porta a irrigidirsi, chiudendosi contro la minaccia di essere contraddetti. Fiutandosi si riconoscono reciprocamente e ristabiliscono un ordine del discorso che difendono fino all’ultima parola. È evidente come questo lavoro richieda un enorme dispendio di energie e stia diventando faticoso, talvolta infruttuoso, a causa dei continui, ripetuti collassi delle istituzioni. (luigi romano)
23/1/2024 https://www.monitor-italia.it/
Immagine: disegno di ottoeffe
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