Un’altra economia ci salverebbe
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Andrea Di Stefano è giornalista professionista, autore radiofonico e comunicatore. Ha iniziato a Radio Popolare nel 1986. Per dieci anni redattore economico finanziario dei quotidiani locali del Gruppo Espresso e di “Repubblica”. Dal 2004 è stato direttore responsabile di “Valori”. Insignito, insieme al coautore, del Premio Città Sasso Marconi per la trasmissione radiofonica di informazione economicofinanziaria più innovativa. Ogni venerdì su Radio Popolare conduce con Gianmarco Bachi “Il giorno delle locuste”, una seguitissima trasmissione di informazione sui temi dell’economia e della finanza.
Alberto Deambrogio: Le cause della grande recessione, quella che ha avuto inizio nel 2008 e di cui non si vede ancora la fine, sono ancora ben presenti e largamente ad oggi irrisolte. Alcuni osservatori sostengono che non solo larga parte del capitale fittizio, ma anche parte significativa del capitale “reale” andrebbe distrutto per recuperare la redditività che molti attori richiedono, mentre non sono alle viste cambiamenti significativi per le regole che hanno aperto alla speculazione senza freni. Come valuti ad inizio 2022 lo stato dell’economia globale? Vedi la possibilità di nuove bolle e crisi finanziarie?
Andrea Di Stefano: Purtroppo lo stato dell’economia a livello globale è molto critico. La mutazione in corso del capitalismo finanziario-tecnologico globale sta creando una forte criticità sia a livello congiunturale sia a livello strategico e l’incapacità (o la non volontà) di intervenire in modo prospettico per ridurre i rischi speculativi e distorsivi determina un quadro estremamente incerto. Le bolle sono numerose e quasi tutte riconducibili ai gravi fallimenti di mercato prodotti in parte dall’assenza del regolatore e in parte dalla totale contrarietà del decisore pubblico a svolgere il ruolo di programmatore. Emblematici sono i casi dell’automotive e dei sistemi energetici per i quali le ricette sono note da tempo ma le rendite di posizione degli attori economici ultra profittevoli sta impendendo da decenni quel governo della transizione indispensabile.
A.D.: Negli ultimi mesi l’Unione Europea ha mostrato la sua mano visibile nel mercato, modificando le sue scelte in funzione delle esigenze delle imprese e della loro competitività. Non si è reagito solo nei confronti della pandemia, ma anche per sostenere e indirizzare con politiche dell’offerta, le imprese verso un nuovo paradigma produttivo. Che idea ti sei fatto di questo adattamento? Quali sono le sue possibili contraddizioni, anche a seguito dell’avvicendamento di leadership in Germania?
A.D.S.: Sinora l’Unione Europea ha solo parzialmente cambiato la propria strategia economica. Nulla è stato sinora fatto per cambiare alcuni paradigmi ispirati all’ideologia neoliberista, in particolare in riferimento ad alcuni comparti economici privatizzati negli ultimi cinquant’anni con esiti sinora fallimentari. Mi riferisco alle telecomunicazioni, trasporti, energia, gestione dei servizi pubblici locali, cioè a quei settori dove le reti infrastrutturali realizzati dagli Stati sono stati sottoposti a processi di presunta liberalizzazione che, in realtà, si è dimostrata soprattutto una “svendita” di beni comuni. I monopoli naturali sono situazioni nelle quali, a causa della natura stessa del mercato, la concorrenza non è socialmente efficiente. I casi più noti di monopolio naturale sono quelli in cui la presenza di una rilevante infrastruttura di rete determina costi fissi elevati – che rappresentano una barriera all’entrata nel mercato – e costi medi decrescenti all’aumento del tasso di utilizzo della rete, ovvero economie di scala. Per queste ragioni, i mercati del gas, dell’energia, dell’acqua e dei trasporti sono dei monopoli naturali, ovvero mercati dove è ragionevole che operi un solo soggetto, o un numero limitato di essi. In questi casi – fino agli anni Ottanta dello scorso secolo – la risposta prevalente in termini di policy consisteva nella creazione di un’impresa pubblica a cui veniva affidata contemporaneamente la gestione e l’utilizzo monopolistico di queste reti. L’idea di fondo era molto semplice: laddove si lasciasse operare un monopolista privato, guidato dalla massimizzazione del profitto, questi utilizzerebbe la rete per eliminare ogni concorrente e praticare prezzi elevati. Si ridurrebbe il surplus sociale, i consumatori pagherebbero prezzi alti e il monopolista privato massimizzerebbe il proprio profitto. Se, invece, l’obiettivo dell’impresa pubblica non è la massimizzazione del profitto, essa utilizzerà il potere monopolistico non per ridurre le quantità e aumentare i prezzi, ma invece per ridurre i prezzi – sfruttando le economie di scala – fino al minimo livello compatibile con la copertura dei costi. Questa logica è per esempio riflessa nell’articolo 43 della nostra Costituzione a cui si ispirò la nazionalizzazione del l’Enel nel 1962. Questa logica è stata superata alla fine del secolo scorso per due ragioni, entrambe discutibili. La prima, di carattere teorico, legata all’idea che le imprese pubbliche siano per loro natura inefficienti. Ciò farebbe aumentare i costi operativi di queste imprese e, se anche i prezzi vengono calcolati in misura appena sufficiente a coprire questi costi, essi risultano comunque più elevati di quelli che verrebbero praticati da un soggetto privato sottoposto a regolamentazione da parte delle autorità pubbliche. Le autorità di regolazione, infatti, sarebbero in grado di impedire, da un lato, la fissazione di prezzi monopolistici a cui si arriverebbe nel caso di monopolio privato non regolato e, dall’altro lato, gli sprechi e le inefficienze dell’impresa pubblica. La teoria della regolazione pubblica efficiente, quindi, si fonde con la teoria dell’inefficienza gestionale delle imprese pubbliche creando il sostrato teorico delle privatizzazioni degli anni Novanta. Ma queste teorie sono tuttavia passibili di critica.
La seconda ragione che ha spinto molti Paesi a privatizzare e deregolare molti monopoli naturali è la necessità di reperire risorse per ridurre il deficit e il debito pubblico nell’ambito dei processi di consolidamento della finanza pubblica degli anni Novanta. Questo elemento ha avuto un particolare peso per l’Italia e per gli altri Paesi europei coinvolti nell’adozione della moneta unica.
L’Italia negli anni Novanta è stata caratterizzata da un processo di privatizzazione e regolamentazione dei settori di pubblica utilità di eccezionali dimensioni e rapidità, per un valore complessivo, tra il 1992 e il 2000, di circa 190 miliardi di euro (circa il 15% del valore medio del Pil del periodo), di cui 100miliardi da cessione di azioni senza perdita del controllo pubblico e 90 miliardi da vere e proprie privatizzazioni.
La regolamentazione è consistita, a sua volta, in un’operazione di disintegrazione verticale dei mercati, con la separazione – ove possibile – tra proprietà delle reti – detenute da un unico soggetto – e utilizzo delle reti da parte di operatori di mercato tra loro in concorrenza. Entrambi questi segmenti di mercato e i relativi prezzi – quello di accesso alla rete e quello praticato ai consumatori dei beni o servizi – sono poi oggetto di regolamentazione da parte di specifiche authorities. Se queste privatizzazioni e regolamentazioni fossero state rispondenti agli obiettivi, a circa trent’anni di distanza le imprese che operano nei monopoli naturali dovrebbero applicare bassi prezzi, ovvero prezzi compatibili con il minimo costo medio, a sua volta variabile sulla base dell’evoluzione tecnologica ma tendenzialmente decrescente, e, conseguentemente, dovrebbero ottenere bassi profitti, ovvero profitti inferiori a quelli conseguibili in un monopolio non regolamentato.
In Germania, dove i processi di privatizzazione dei monopoli naturali sono stati sinora molto parziali (come d’altra parte in Francia) il sistema è andato incontro ad un progressivo declino. La rete di strade, ponti e ferrovie, un tempo tanto invidiata, è in decadenza a causa di decenni di spesa insufficiente. La Germania è al 15° posto per qualità delle strade, dietro all’Oman e al Portogallo, secondo la classifica della competitività del World Economic Forum. Oltre al rischio per le vite umane, l’economia tedesca dipende dal buon funzionamento della rete dei trasporti per la distribuzione delle merci. Secondo Michael Schreckenberg, ricercatore dell’Università di Duisburg-Essen, gli ingorghi del traffico nel periodo pre-pandemico avrebbero causato oltre 60 miliardi di euro di danni all’economia del Paese, in termini di ore lavorative perse e ritardi nelle consegne. Recuperare la situazione sarà costoso. Il buco complessivo di investimenti dei Comuni tedeschi, che non include i progetti regionali o nazionali, ammontava a 159 miliardi di euro nel 2017, secondo uno studio della banca nazionale di investimenti KfW. Le infrastrutture stradali contavano per circa un quarto di quella cifra, con circa l’11% dei ponti autostradali tedeschi in condizioni insoddisfacenti secondo il ministero dei Trasporti. Mentre per far fronte alla connettività digitale sono previste spese per 2,4 miliardi di euro per risolvere i problemi di una copertura. In quanto a penetrazione della telefonia mobile la Germania si colloca al 76° posto, dietro ad Algeria, Marocco secondo il World Economic Forum.
A.D.: Anche in Cina si stanno facendo di nuovo investimenti di natura keynesiana. Al di là di questo il paese sembra muoversi per approvvigionare materie prime, implementare e orientare tecnologie, mentre rimane aperta la necessità di trattenere più valore aggiunto dalle produzioni in capo a multinazionali. Tutto questo avviene non senza conflitti distributivi, episodi di lotta di classe, di cui da noi si sa poco. Qual è la tua valutazione di queste tendenze dentro il rapporto dialettico con gli U.S.A. in modo particolare?
A.D.S.: Per la Cina la crisi finanziaria del 2009 prima e quella pandemica poi sono state senza dubbio un momento di svolta epocale. Pechino ha risposto alla prima con un enorme programma di investimenti pari a circa il 12% del Pil, probabilmente il più grande stimolo monetario e fiscale mai adottato che ha fatto aumentare la quota degli investimenti lordi sul Pil dal 41% del 2007 al 48% del 2010 ma che ha anche comportato un massiccio aumento del debito, soprattutto per le società non finanziarie. Secondo recenti stime di Goldman Sachs, il debito cinese complessivo risulta essere più che quadruplicato dal 2007, salendo a 317% del Pil. Un valore considerevole di oltre 50 trilioni di dollari, circa 25 volte la dimensione dell’economia italiana. Ad essere estremamente alto è il debito delle imprese che rappresenta attualmente oltre i due terzi del debito totale, attestandosi a circa il 170% del Pil. È molto difficile invece stimare con precisione il debito pubblico totale in Cina. Mentre i dati sul debito del governo centrale sono abbastanza accurati, i conti dei governi provinciali e locali sono infatti noti per essere non trasparenti. La bolla immobiliare, che è di fatto scoppiata con la crisi pandemica, è stata gestita in modo diretto dal governo di Pechino che è riuscita sinora a pilotare il fallimento di Evergrande, l’holding che oltre che nel mattone operava nella mobilità elettrica e in decine di altri settori, evitando che si materializzasse una Lehman Brothers cinese. Il confronto tra Cina e Stati Uniti almeno sulla carta, è segnato dai numeri. L’economia del paese asiatico entro il 2030 sarà senza dubbio la prima a livello mondiale ma le scelte di politica economica dirigista sono oggi in larga parte replicate da Washington come dimostra il mega piano statale da 250 miliardi sui chip che prevede la produzione negli States per il valore strategico del comparto.
A.D.: L’aumento del costo di materie prime e del gas in particolare hanno avuto esiti socialmente pesanti. Nel 2008 il petrolio balzò fino a oltre 150 dollari il barile, alla vigilia della grande crisi, per poi crollare. Allora si parlò di “barili di carta”. E’ possibile rintracciare anche oggi il profilo speculativo come un elemento alla base dei rincari? Cosa potrebbe e dovrebbe fare la politica per intervenire su queste situazioni?
A.D.S.: Certamente. Il profilo speculativo è determinante almeno dall’inizio della deregulation dei
mercati finanziari. Tutte le materie prime, in primis quelle energetiche, sono vittime di un sistema totalmente fuori controllo. Dieci anni fa, dicono i dati della Banca dei regolamenti internazionali, i futures sulle materie prime (oro escluso) valevano 952 miliardi di dollari. All’ultimo aggiornamento il controvalore oltrepassava quota 2 trilioni. La proliferazione dei titoli esalta ovviamente la volatilità dei prezzi dei sottostanti, perché i derivati, ovviamente, servono in primo luogo a piazzare scommesse. Che, per le materie prime alimentari, negli ultimi anni, sono state orientate decisamente al rialzo. Lo evidenzia il Food Price Index della FAO, un paniere che misura il costo delle materie prime alimentari. Negli ultimi 15 anni l’incremento evidenziato dall’indice è stato clamoroso: nel corso del 2008 il dato ha registrato il primo picco storico oltre quota 200 punti (+121% rispetto al valore del 2000) per poi andare incontro a un calo e a una successiva risalita fino all’aggiornamento del primato nel 2011 (229,9 punti, +156% rispetto al dato di inizio millennio).
Sull’esplosione dei prezzi pesano fattori “tipici” di domanda, come la crescita delle economie emergenti all’inizio del XXI secolo o lo sviluppo dei biocarburanti. Ma il fattore derivati ha accelerato i movimenti. Nel giugno del 2008, nell’anno del primo storico picco delle food commodities e del petrolio, l’ammontare dei contratti futures sulle materie prime (metalli preziosi esclusi) aveva raggiunto, secondo l’analisi della Federal Reserve Bank of St. Louis, i 2,13 trilioni di dollari. In base a quanto dichiarato al Congresso degli Stati Uniti dall’hedge fund manager
Michael Masters (fondatore della società Masters Capital Management LLC, di Atlanta, Georgia, un quarto di miliardo di dollari in asset gestiti), nell’aprile del 2008, in corrispondenza con i picchi dei prezzi, i fondi di investimento americani attivi nel settore avevano assunto il controllo del 35% di tutti i contratti futures sul mais presenti nel mercato. Per la soia e il frumento, ricorda un rapporto della Ong britannica World Development Movement (WDM) citando la testimonianza di Masters, le percentuali salivano rispettivamente al 42 e al 64%. Il tutto, ovviamente, senza considerare i contratti over-the-counter, ovvero quelli scambiati nelle piazze finanziarie non regolamentate. Tra il 2010 e il 2012, ha sostenuto il WDM, le speculazioni di questo tipo avrebbero garantito ad appena cinque banche – Goldman Sachs, Barclays, Deutsche Bank, J.P. Morgan e Morgan Stanley – guadagni totali per 2,2 miliardi di sterline (pari a oltre 3 miliardi di dollari).
A.D.: Quando si parla di cambiamento climatico e di possibili strumenti per porvi mano si cita spesso la Finanza Sostenibile (Climate Finanance) come imprescindibile per affrontare il cambiamento necessario. Che giudizio dai di questo indirizzo? Il contributo di ogni cittadino/a, attraverso la scelta di finanziare attività di mitigazione e di adattamento ai cambiamenti climatici, può essere interpretato come un modo per “scaricare” sul singolo le responsabilità dentro una logica di green washing?
A.D.S.: Il terzo rapporto sulla finanza etica e sostenibile in Europa ha mostrato come le banche etiche europee, a parità di attivi, eroghino quasi il doppio di crediti all’economia rispetto al sistema tradizionale. Nel 2018 la concessione di crediti rappresentava infatti per le prime oltre il 76% delle attività totali. mentre si fermava poco sotto il 40% per la media delle banche europee.
La finanza etica e sostenibile potrà svolgere un ruolo di primo piano nel dopo crisi pandemica ma servono interventi normativi per promuovere e incentivare un sistema finanziario in grado di fornire soluzioni efficaci e innovative all’insieme della società.
Un percorso interessante in questo senso è quello sulla finanza sostenibile messo in campo dalle istituzioni europee negli scorsi mesi. Un percorso con luci e ombre. Tra gli aspetti positivi, la creazione di una tassonomia per definire le attività ambientalmente sostenibili e i relativi finanziamenti. Una delle maggiori critiche riguarda però il fatto che al momento la “sostenibilità” è intesa quasi unicamente in chiave ambientale, mentre poco o nulla si dice riguardo gli aspetti sociali e di governance, le altre due gambe della tradizionale analisi sulla responsabilità di impresa. Ancora prima, ed è quasi incredibile se pensiamo al sistema finanziario e ai disastri causati negli ultimi anni, non c’è accenno alla speculazione. Si inquadra la sostenibilità senza mai menzionare crisi, instabilità. logiche di breve periodo, sfruttamento dei paradisi fiscali o altri temi centrali. Il rischio è che criteri troppo deboli possano svuotare la stessa idea di sostenibilità, permettendo operazioni di marketing se non di vero e proprio greenwashing a molte banche tradizionali che riuscirebbero a darsi una patente di sostenibilità senza rimettere in discussione il proprio business.
Senza interventi di natura normativa, sia per disincentivare la finanza speculativa sia per promuovere quella etica e sostenibile, rischia di essere molto difficile indirizzare le risorse di cui abbiamo bisogno per il rilancio dell’economia dove servono veramente e dove producono un impatto positivo per l’ambiente e l’insieme della società.
L’avere bloccato la vendita allo scoperto in Italia nei primi giorni di caduta degli indici di Borsa è stata la dimostrazione che non è una questione di difficoltà tecnica: quando c’è la volontà politica, ci sono gli strumenti per contrastare alcuni degli effetti più deleteri del sistema finanziario.
All’indomani della crisi del 2008 tutte le istituzioni internazionali si erano impegnate a chiudere una volta per tutte il casinò finanziario. A distanza di oltre dieci anni, non solo tali promesse sono state disattese, ma spesso si è andati in direzione opposto a quanto auspicabile. Gli interventi normativi si sono concentrati sulla tradizionale attività di erogazione dei crediti del sistema bancario, mentre molto meno – per non dire nulla – è stato fatto nell’altra direzione. Un paradosso che ha portato a una continua crescita del sistema bancario ombra, quell’insieme di società spesso egistrate in un paradiso fiscale che eseguono operazioni simili a quelli delle banche senza però doverne seguire le regole e senza essere sottoposte ad analoga vigilanza. Oggi il sistema bancario ombra potrebbe avere superato l’incredibile cifra di 51.000 miliardi di dollari, in crescita del 75% negli ultimi dieci anni. Ma è l’insieme della finanza a non essersi minimamente discostata dagli indirizzi di prima della crisi del 2008, come mostrato brevemente nel caso del “petrolio sotto zero”, solo il caso più clamoroso dell’uso spregiudicato che viene fatto dei derivati.
Purtroppo ad oggi le istituzioni non sono riuscite ad approvare nemmeno le regole da loro stesse proposte. Per fare un esempio tra i molti possibili. All’indomani della crisi l’UE domanda a un gruppo di esperti, guidati dal governatore della Banca Centrale finlandese Liikanen quali siano le principali riforme da intraprendere per evitare il ripetersi del recente disastro. Il rapporto mette al primo posto la separazione tra banche commerciali e di investimento, ma la stessa UE che aveva commissionato lo studio non da seguito alle conclusioni esposte.
Lo stesso potrebbe dirsi per una tassa sulle transazioni finanziarie, malgrado il voto favorevole del Parlamento UE e la bozza di Direttiva pubblicata dalla Commissione europea. Parliamo di una tassa di importo estremamente limitato su ogni compravendita di strumenti finanziari. Per chi compra con un’ottica di lungo periodo tale imposta minima è trascurabile, e comunque molto inferiore alle commissioni solitamente pagate. Molto diversa è la situazione per chi opera con logiche di brevissimo periodo, acquistando e vendendo anche migliaia di volte in un’ora per guadagnare su minuscole oscillazioni dei prezzi. Migliaia di volte una tassa molto piccola diventa una tassa sufficiente a scoraggiare tali tipi di operazioni. Teniamo conto che su molti mercati, il trading ad alta frequenza (high frequency trading), ovvero scambi che avvengono nell’ordine delle frazioni di secondo, rappresenta più della metà delle transazioni totali.
L’idea è quindi quella di costruire un meccanismo fiscale efficace che si insinui nell’operatività dei mercati, rendendo più costose, quindi meno convenienti, proprio quelle transazioni che fanno male allo sviluppo sociale e ambientale, a partire da derivati e High Frequency Trading. Una tassa che in questo modo freni la speculazione, non tanto per raccogliere gettito da destinare a investimenti green o social, esito che pure non va disdegnato, ma soprattutto per riorientare l’operatività dei mercati, dei loro algoritmi e dei robot che li gestiscono.
Riguardo i paradisi fiscali, complice anche la crisi delle finanze pubbliche, si parla finalmente di interventi quali l’obbligo di rendicontazione Paese per Paese dei dati contabili delle imprese multinazionali (mentre la pubblicazione dei bilanci in forma aggregata non permette di capire quanti si sfruttino giurisdizioni di comodo per ridurre il carico fiscale o per altri motivi) cosi come di una web tax, ancora più attuale nei giorni di chiusura dei negozi con enormi affari per i colossi del web.
Ancora a monte, i paradisi fiscali sono nati e fioriscono grazie all’assenza di controlli sui flussi di capitale, con impatti devastanti in termini di giustizia fiscale e sociale, sviluppo del crimine e della corruzione, concorrenza sleale tra multinazionali che sfruttano scappatoie fiscali e piccole imprese che non possono farlo e altri ancora. In un momento di estrema difficoltà per le finanze pubbliche, è inaccettabile che migliaia di miliardi possano sfuggire al fisco senza alcun controllo.
Di fatto molte di queste tematiche sono direttamente legate alla completa liberalizzazione dei movimenti di capitale. Ancora, è impossibile anche solo parlare di una tassazione patrimoniale o anche solo maggiormente progressiva nel momento in cui chi è in posizione di forza può eludere il fisco. Il problema in linea generale è quello di una distanza sempre maggiore tra capitali senza frontiere e regole e controlli in massima parte fermi all’idea di Stato-nazione. Dalle delocalizzazioni alle diseguaglianze alla speculazione sui debiti pubblici, è quasi impossibile anche solo enumerare gli impatti derivanti dalla completa libertà di movimento dei capitali.
E’ vero che parlare di introdurre dei controlli appare oggi un’utopia. La libera circolazione dei capitali, solo per fare un esempio, è uno dei capisaldi su cui sono costruiti i trattati europei. E’ però altrettanto vero che nelle ultime settimane si è aperto uno spazio di discussione e di riflessione che ha permesso di rimettere in discussione anche assunti che sembravano scolpiti nella pietra. La sospensione del Patto di Stabilità europeo è uno di questi casi.
Se servono quindi delle regole contro un certo tipo di finanza, è altrettanto importante approvarne altre per promuovere la finanza etica e sostenibile, e comunque un sistema finanziario in grado di sostenere l’economia.
Tutti concordano sul fatto che per ripartire dopo la crisi servirà un intervento finanziario straordinario. Se alcune misure dovranno essere messe in campo dalle istituzioni pubbliche, è altrettanto se non più importante avere un sistema finanziario privato che da parte sostanziale del problema diventi finalmente una parte della soluzione.
Questo significa prima di tutto abbandonare le logiche di brevissimo termine di una finanza diventata un fine in sé stesso per fare soldi dai soldi per pensare a una visione di lungo periodo e soprattutto a uno strumento che si interroga sui bisogni ambientali, sociali, economici a cui rispondere, e cerca le modalità migliori per farlo.
In questa direzione, sono diverse le proposte che si potrebbero mettere in campo, sia su scala europea sia nazionale. Una riguarda ad esempio la revisione dei requisiti patrimoniali necessari per erogare un credito. Semplificando, per ogni credito erogato le banche devono tenere da parte una certa percentuale di capitale proprio. Questa percentuale viene però pesata a seconda della rischiosità del credito. Cosi, crediti considerati più rischiosi richiederanno più capitale, e in ultima analisi saranno meno appetibili per le banche. I relativi soggetti verranno erogati meno frequentemente dalle banche e a tassi più alti rispetto a chi richiede un minore assorbimento patrimoniale.
Il rischio oggi dipende da criteri economici e finanziari, ma non ambientali o sociali. Introdurre una pesatura secondo criteri ambientali (green supporting factor) o sociali (social supporting factor), rappresenterebbe invece uno straordinario incentivo per indirizzare il credito bancario verso determinati settori e disincentivarne altri. Pensiamo, per fare un semplice esempio, se si applicasse una percentuale di assorbimento patrimoniale minore per finanziamenti all’energia rinnovabile e all’efficienza energetica, e specularmente maggiori al settore dei fossili.
Tale rischio segue anche motivazioni concrete: sempre più le fossili portano con sé un rischio (dai disastri ambientali a quello reputazionale ad altri). Non da ultimo, in un momento di grande difficoltà per le finanze pubbliche, un tale intervento sarebbe a costo zero per lo Stato. Parliamo infatti di una diversa allocazione del credito bancario e di uno straordinario incentivo per la riconversione ecologica dell’economia che non prevede interventi del pubblico.
Alberto Deambrogio
Collaboratore redazionale di Lavoro e Salute
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