Un’estate al cinema
Come è noto in Italia le sale cinematografiche nella stagione estiva corrono costantemente il rischio di rimanere deserte. Dal momento che non è mai possibile separare in modo netto nella realtà la causa dall’effetto (in quanto si tratta di astrazioni dell’intelletto), possiamo sostenere che causa e al contempo effetto di tale panorama sconsolante è che le sale cinematografiche nella stagione estiva tendono a riproporre i principali successi della precedente stagione o proiettano film minori, che negli altri momenti dell’anno rischierebbero di passare del tutto inosservati. Dal momento che è un luogo comune privo essenzialmente di fondamento che l’eccezione possa confermare la regola, anche quest’anno i film passati nelle sale nel corso dell’estate hanno lasciato al quanto a desiderare. In particolar modo per chi, come me, tende ad andare regolarmente al cinema nel corso dell’anno e, quindi, non gli sfugge niente di sostanziale da recuperare nel corso della stagione estiva. Per cui si finisce per vedere quei film che si erano consapevolmente tralasciati nel corso della stagione precedente, essendo presenti nella sala opere degne di maggior rilievo o si finisce per vedere ciò che appare meno peggio nella mediocre offerta degli esercenti. Perciò piuttosto che approfondire, come di consueto, un film in particolare, mi limiterò a recensire brevemente alcune delle pellicole meno scadenti visionate nel corso della stagione estiva, selezionando quelle che ci consentiranno di sviluppare un ragionamento, per quanto possibile, unitario, per non limitarci a una analisi puramente fenomenologica di singoli casi particolari, in quanto tali inessenziali e non significativi.
Unsane di Steven Soderbergh, Usa 2018, voto: 4,5
Uscito a brevissima distanza in Italia dal precedente buon film del medesimo regista, La Truffa dei Logan (Usa 2017, voto: 6,5), Unsane si presenta altrettanto interessante, tanto da poter apparire come la “mitica” eccezione che dovrebbe, non si sa come, confermare la regola che nella stagione estiva in Italia escono essenzialmente pellicole mediocri. Il film appare, infatti, intrigante tanto dal punto di vista del contenuto quanto dal punto di vista della forma. Per quanto riguarda il plot si tratta di un apparentemente solido thriller psicologico, con una protagonista rinchiusa contro la propria volontà in un istituto di cura per malati di mente sulla base dell’ossessione che la porta a immaginare o a ritrovare effettivamente nello stesso istituto lo stalker che la perseguita. L’ambiguità di fondo della trama – che rende difficile distinguere la verità oggettiva dai detour soggettivi distorti dalla mania di persecuzione che affligge la protagonista – è amplificata dalla peculiare modalità di ripresa del film, operata mediante uno smartphone.
L’intrigante ambiguità fra realtà e apparenza, prospettiva soggettiva e realtà oggettiva, sembra dapprima risolversi in maniera al quanto deludente con il dare credito ai gestori della struttura sanitaria che reclude la protagonista contro la sua volontà. Il che sembra risolvere nel modo più reazionario l’apparente complessità della vicenda, un po’ come nel pessimo film di Martin Scorsese Shutter Island del 2010, in cui tutte gli intriganti retroscena sugli internamenti in manicomi criminali degli oppositori interni all’imperialismo statunitense si risolvono come mere paranoie di folli complottisti. Anche in tal caso, all’intrigante dramma soggettivo della protagonista, che rivendica la propria sanità mentale dinanzi a un sistema che tende a considerarla malata mentale per i suoi stessi equivocabili comportamenti oggettivi, si incrocia con una altrettanto avvincente dramma sociale, per cui cittadini sani di mente vengono forzatamente rinchiusi in strutture sanitarie private, che tendono a tenerli ivi prigionieri, finendo per renderli oggettivamente malati di mente, sino a quando possono intascare i premi offerti dalle assicurazioni, che sole consentono, in un sistema sanitario totalmente privatizzato, di curarsi anche ai membri del ceto medio.
Dunque, dopo aver suscitato aspettative su tale avvincente scenario dei danni e delle aberrazioni che l’ideologia dominante liberista e neoliberista produce, tutto pare risolversi nella paranoia della protagonista, che finisce per convincersi di essere realmente malata. A questo punto avviene il colpo di scena, che non può che apparire come un colpo basso del regista nei confronti dello spettatore al quale aveva prima mostrato, in modo al quanto inequivocabile, che la protagonista soffre di manie di persecuzione. Anzi la realtà si dimostra ancora più irrealisticamente tragica di quanto la protagonista, ossessionata dal suo stalker, poteva immaginare e di quanto la sua interpretazione apparentemente complottista lasciava intendere.
Ciò porta a un apparentemente indolore scioglimento della vicenda che, tradendo il precedente andamento tragico, sembra risolversi nel tranquillizzante e conservatore lieto fine della commedia moderna, hollywoodiana. Lo stalker si rivela ancora più irrealisticamente diabolico di quanto la stessa protagonista ossessionata potesse immaginare e la struttura sanitaria si rivela un’associazione a delinquere in modo ancora più inverosimilmente esplicito di quanto anche la concezione più complottista potrebbe immaginare. In tal modo, però, la dialettica fra apparenza e realtà, fra soggetto e oggetto si rivela puramente parvente e la denuncia sociale perde di credibilità in quanto, rivelandosi la struttura ospedaliera una pura e semplice associazione a delinquere, essa perde ogni tratto tipico per apparire come la classica mela marcia che si può facilmente isolare ed eliminare salvando tutte le altre essenzialmente sane dal potenziale disagio.
Ancora più forzato e del tutto inverosimile appare il colpo di scena finale, in cui la vittima sociale diviene inspiegabilmente carnefice e in preda alla paranoia ossessiva del complesso di persecuzione, da cui era stata in precedenza completamente assolta, sino ad arrivare quasi ad assassinare un malcapitato innocente.
Thelma di Joachim Trier, Norvegia 2017, voto: 4,5
Il film appare il classico horror estivo inspiegabilmente osannato da una critica malata di cinefilia che finisce, facendo di necessità virtù, per considerare esemplare un prodotto piuttosto anonimo di un genereessenzialmente reazionario. Anche in questo caso il film riesce a reggere – come accade ormai abitualmente per i prodotti di questo genere particolarmente abusato nella stagione estiva – sino a che gioca sull’ambiguità fra ipoteri paranormali della protagonista e la possibilità di trovarne una spiegazione razionale. Spiegazione che finisce, al solito, con il divenire sempre più forzata e irrealistica tanto da lasciare campo libero alla spiegazione paranormale e irrazionale.
In tal modo, abbiamo la ormai classica e piuttosto scontata e smaccata restaurazione delle spiegazionimitologico religiose della realtà che finirebbero per essere maggiormente credibili e verosimili delle spiegazioni moderne, filosofico-scientifiche. In tal modo anche Thelma sembra ripercorrere le sempre più disgustose orme dei film di questo genere, che finiscono per riabilitare anche i peggiori delitti compiuti nel passato dalla visione mitologico religiosa. Arriviamo così all’ormai scontato cliché reazionario per cui la caccia alle streghe sarebbe stata solo apparentemente il prodotto di un fanatismo religioso strumentalizzato e reso funzionale al mantenimento di un ormai irrazionale ordine costituito, in quanto tali esseri demoniaciesisterebbero realmente e andrebbero, in qualche modo, posti in condizione di non nuocere. Il film però, per riabilitarsi come politically correct, dopo aver sostenuto apertamente la tesi ultra maschilista secondo cui la violenza degli uomini dinanzi alle donne, che mettono in discussione la schiavitù domestica, sarebbe giustificata dalla loro natura demoniaca prova a salvarsi in corner facendo propria la prospettiva della strega. Le sue stregonerie che hanno costretto una sua coetanea a invaghirsi di lei, per superare la solitudine prodotta dalla sua natura insocievole, e lo stesso parricidio che ripercorre un analogo delitto compiuto dalla nonna, lasciando intendere che la stregoneria si trasmetterebbe geneticamente, finiscono con il venir giustificati sulla base dell’emancipazione sessuale, in modo acritico rappresentata come l’unica effettiva e compiuta forma di emancipazione umana. Tanto che questo sublime fine giustificherebbe qualsiasi mezzo, anche il più criminoso, pur di essere realizzato.
Tito e gli alieni di Paola Randi Italia 2017, voto 4,5
Questo film, che ha come protagonista un interprete d’eccezione come Valerio Mastrandrea, dopo aver costruito il proprio plot su una tesi irrazionalistica e mitologico religiosa di valore bassissimo – per cui gli alieni non solo esisterebbero, ma sarebbero in grado di risolvere anche il fondamento tragico dell’esistenzialismo individualistico, incapace di andare al di là del proprio essere per la morte – con un maldestro colpo di scena finale, svela che tutto quanto ci era stato mostrato era inevitabilmente falso e prodotto dall’incapacità dell’essere umano di accettare il proprio tragico destino di essere finito e, quindi, destinato all’essere per il cadavere. Dinanzi a tale banale costatazione ogni tentativo di emanciparsi dalla dimensione inevitabilmente tragica del destino individualistico appare come una vana e insana utopia. Per cui i protagonisti finiscono per riconciliarsi non con un reale che si scopre, dinanzi al vano dover essere dell’individuo, al contempo razionale, ma con ilmero esistente in tutta la sua conclamata banalità.
In tal modo la denuncia della vana fuga dalla realtà offerta dalle concezioni mitologico religiose si realizza in nome di una altrettanto reazionaria restaurazione di ciò che è meramente positivo in quanto esistente. Per cui l’unico orizzonte per l’essere umano sarebbe quello di accontentarsi della tenebra del quotidiano, in quanto non solo lo spirito dell’utopia, ma lo stesso principio speranza non sarebbero altro che una vana fuga dalla realtà. La soluzione indicata, di contro alla ritirata nei paradisi artificiali di un impossibile ritorno alla ormai storicamente superata prospettiva mitologico-religiosa, è talmente filistea da far apparire come decisamente piùaffascinante la soluzione irrazionalistica. Del resto, come insegna Marx, l’oppio dei popoli resterà necessarionel mondo senza cuore, biecamente materialistico, che ci offre il capitalismo.
Tuo, Simon di Greg Berlanti Usa 2018, voto 5
Il film è indubbiamente significativo quale denuncia di come i pregiudizi omofobi siano ancora profondamente presenti anche nelle società contemporanee più apparentemente gay-friendly, come quella dei college statunitensi. D’altra parte, anche in questo caso la significativa contraddizione tragica sfiorata dal film si risolve in una del tutto insoddisfacente soluzione comica moderna, banalmente hollywoodiana. Tutti i personaggi apparentemente emancipati, ma in realtà profondamente condizionati da pregiudizi per quantoinconsapevoli – portato di una società che strumentalizza ai propri fini la stessa struttura patriarcaledominante nelle società precedenti – si mostrano alla fine disponibili a riconoscere la propria colpa nella prospettiva, palesemente fittizia, per cui la liberazione della sessualità corrisponderebbe alla reale ed effettiva emancipazione dell’uomo, facendo apparire inessenziale la rivendicazione di una emancipazione anche sul piano sociale ed economico.
Renato caputo
11/08/2018 www.lacittafutura.it
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