Ungheria: Il governo Orbán e il Codice del Lavoro
Chi conosce l’uomo politico Viktor Orbán sa che il suo sistema non è mai stato particolarmente rispettoso dei diritti dei lavoratori, né tanto meno aperto al mondo sindacale. Chi lo conosce non si stupirà poi così tanto di apprendere che il governo da lui presieduto ha approvato, nel corso dell’emergenza sanitaria dovuta al Covid-19, delle disposizioni capaci di peggiorare notevolmente la vita dei lavoratori dipendenti ungheresi. Ci riferiamo a misure che, da marzo-aprile, hanno portato alla sospensione del Codice del Lavoro e soppresso gli accordi collettivi col pretesto della necessità di far ricorso a un’economia di crisi, data la situazione pandemica.
Di fatto, questi provvedimenti agiscono in un contesto già da tempo precario, quale quello del mondo del lavoro ungherese, caratterizzato peraltro da scarsi margini di manovra lasciati alle organizzazioni sindacali. Il sistema guidato da Orbán si è sempre vantato di aver diminuito considerevolmente il tasso di disoccupazione ma i sindacati sostengono che, andando oltre la superficie delle cose, si scopre una realtà molto meno rosea, caratterizzata tra l’altro da meccanismi che vedono il Paese agli ultimi posti nell’Ue per il livello dei salari.
Quanto ai tassi di disoccupazione, peraltro ultimamente cresciuti a causa della crisi, i sindacati facevano notare che le statistiche rese note negli ultimi anni, come minimo influenzate dal governo e comunque parte della sua propaganda, tenevano conto dei precari impiegati nei lavori socialmente utili e degli ungheresi che lavorano all’estero. I primi sono inquadrati in un sistema che non rappresenta un investimento duraturo nel mondo del lavoro, i secondi sono espatriati lasciando nel paese dei vuoti considerevoli di manodopera specializzata. Vuoti esistenti in diversi settori: dalla sanità all’industria turistica, passando per quella automobilistica che vede attivi diversi marchi noti nello Stato danubiano: parliamo di Audi, Mercedes e Opel. In pratica le nuove disposizioni sono un regalo a questi soggetti, non certo ai lavoratori che hanno così visto peggiorare ulteriormente la loro situazione in un modo che, secondo diversi osservatori, non ha riscontro nei sistemi democratici europei.
La sospensione del Codice del Lavoro non ha certo creato perplessità all’interno dei grandi gruppi che investono in Ungheria, tra essi quelli rappresentati dalla Camera di Commercio Statunitense. La scusa è, come già precisato, quella della pandemia; i sacrifici maggiori sono imposti ai lavoratori che risultano essere legati alle aziende, di cui sono dipendenti, da contratti individuali non negoziabili dai sindacati. Così ai datori di lavoro viene dato il potere di fissare in modo unilaterale un regime orario di ventiquattro mesi per ogni dipendente. Se poi la produzione rallenta a causa delle difficoltà dovute alla pandemia, il lavoratore deve recuperare le ore perse. Se il dipendente decide di licenziarsi prima di aver esaurito le ore di lavoro previste dall’azienda deve versare a quest’ultima una somma pari al salario che avrebbe ricevuto una volta completato il programma orario. Per i sindacati si tratta di un sistema schiavile, per lo meno ricattatorio che lascia al dipendente ben poche possibilità di scelta e nessuna di far valere i suoi sacrosanti diritti.
Ma non si tratta di meccanismi nuovi nel paese guidato da Orbán verso derive antidemocratiche e antisociali: è infatti della fine del 2018 la cosiddetta “legge schiavista” o “legge schiavitù”, come definita dai sindacati, che aveva modificato il Codice del Lavoro portando a 400 il numero annuale delle ore di straordinario nelle aziende e che aveva provocato un’ondata di proteste che per un periodo si erano susseguite a ritmo pressoché giornaliero. Questa legge veniva descritta dal governo come uno strumento concepito per fare gli interessi dell’economia ungherese. L’esecutivo sosteneva e sostiene tuttora la flessibilità del lavoro e la considera necessaria per venire incontro alle esigenze di imprenditori, investitori e grandi aziende straniere, come quelle prima menzionate, che concorrono in modo significativo alla crescita economica del paese. Per i sindacati, provvedimenti di questo genere sono un cappio al collo dei lavoratori. Il sistema degli straordinari non era stato presentato come avente carattere obbligatorio, ma quanti lavoratori erano entrati nell’ordine di idee di rispondere negativamente alle richieste dei loro rispettivi datori sapendo di rischiare il posto?
Per i sindacati, in realtà, questa legge era una risposta alla sempre più evidente carenza di manodopera in Ungheria, problema dovuto all’emigrazione. Fenomeno che, secondo stime dell’OCSE, tra il 2008 e il 2018 ha interessato circa un milione di ungheresi andati all’estero per trovare migliori condizioni di vita e di lavoro. Quelle esistenti in Ungheria, come abbiamo visto, sono peggiorate notevolmente con meccanismi che tengono in ostaggio la manodopera dipendente e marginalizzano ancora di più i sindacati. Il tutto sotto un sistema che sostiene di voler tutelare i diritti della sua gente.
Le cose sono peggiorate con il Covid-19 e questo non riguarda solo l’Ungheria dove, la scorsa primavera, la disoccupazione è salita al 6%, percentuale che i calcoli ufficiali non ottenevano dal 2016, ma i provvedimenti presi dal governo Orbán non sostengono i lavoratori o le fasce sociali più deboli che più di tutti gli altri stanno pagando il prezzo di una crisi grave, tra le peggiori dal dopoguerra, ma soprattutto della sua gestione antidemocratica e antisociale.
Massimo Congiu
24/1/2021 http://www.rifondazione.it
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