Uprising, come si ribella un continente
In questo lungo anno di pandemia sono stati pochi i media italiani che hanno allargato con continuità e in profondità lo sguardo al resto del mondo, nonostante la crisi sanitaria sia una crisi globale. La scorsa settimana ricordavamo che fin qui solo lo 0,8% dei vaccini distribuiti è andato ai Paesi a basso reddito, mentre a quelli di fascia medio-alta è andato l’80%.
A nulla è valsa la richiesta avanzata più volte presso il Wto da India e Sud Africa di sospendere i brevetti su vaccini, cure, trattamenti e tecnologie finché il Covid-19 non sarà reso innocuo. Con l’avallo di Unione europea, Stati Uniti, Gran Bretagna, Svizzera, Australia, Giappone, Brasile e altri “big” si sta consumando una grave ingiustizia umana e sociale a livello globale. Che ci riguarda e ci colpisce tutti.
Perché finché non viene raggiunta l’immunità di gregge mondiale, il virus continuerà a circolare sviluppando pericolose varianti come quelle che in Italia ci hanno costretto a un altro mese di lockdown.
Per farsi un’idea, un nuovo studio pre-print sulla variante inglese ha stimato che questa aumenta la contagiosità del 55% rispetto al ceppo virale affrontato nei primi mesi; inoltre mentre aumentano i paper che dimostrano come il vaccino prevenga la trasmissibilità, altri hanno accertato che il vaccino Pfizer è efficace contro la variante sudafricana B.1.1351 trovata anche in Brasile (il Paese al momento più colpito al mondo da nuove morti e nuovi casi) e di cui la cd. variante giapponese, che tanto fa parlare in questi giorni, è un ceppo.
Di contro, i vaccini Novavax e J&J sono meno efficaci (ma il primo lo sarebbe comunque al 60%). Tuttavia ovunque si sta già lavorando per aggiornare i vaccini nel modo più veloce possibile. Ma tutto sarà vano se non troveranno applicazione concreta azioni come quella di India e Sud Africa, oppure come l’Iniziativa dei cittadini europei “NoProfitOnPandemic”, a noi ancora più vicina, che consiste nella raccolta di almeno un milione di firme tra i cittadini dei 27 Paesi per fare pressione su Bruxelles affinché sospenda i brevetti sui vaccini e se ne faccia promotrice presso il Wto (si può firmare qui: noprofitonpandemic.eu/it).
Veniamo al titolo della copertina “Primavere africane”. A qualche mese dal numero speciale “Mama Africa”, abbiamo sentito l’esigenza di tornare sulle rotte di questo continente scarsamente indagate dai media che accendono i loro deboli radar solo in occasione di sciagure nel Mediterraneo, conflitti tra le cui vittime ci sono dei cristiani o atti di terrorismo jihadista.
Come se fosse questa la realtà di un continente composto da 55 Paesi e con una popolazione complessiva di circa un miliardo e 300 milioni di persone (che a detta di alcuni nostri acutissimi leader politici sarebbero tutte intenzionate a trasferirsi in Europa passando per l’Italia). La realtà invece è che l’Africa sta ritrovando una sua centralità nelle dinamiche geopolitiche internazionali non più come mero “terreno di conquista” di potenze colonizzatrici ma come continente attraversato da Nord a Sud da grandi processi di trasformazione politici, sociali e culturali.
E guarda a futuri scenari economici che portano con sé la pacifica ma inflessibile pretesa di democrazia e diritti da parte delle giovani generazioni. Tutto questo però deve fare i conti con l’impatto della pandemia.
Data l’età media molto giovane della popolazione africana si pensa che questo continente sia stato il meno colpito dal Covid-19. La verità è che non abbiamo dati precisi sull’andamento africano della pandemia, come racconta qui Francesco Strazzari, politologo della Scuola Sant’Anna di Pisa e studioso di Africa, che ci aiuta a fare il quadro sui pesanti effetti della crisi sanitaria sull’economia di un continente che per anni è stata in continua crescita.
Poi a marzo 2020 anche qui tutto è cambiato. Ma non tutto si è fermato. E Strazzari appunto ci parla degli interessanti e importanti processi di cambiamento socio-politici e culturali in atto ma anche dei conflitti, alcuni vecchi altri nuovi, che stanno attraversando questo vastissimo territorio. In molti Paesi che hanno governi autoritari e corrotti stanno crescendo movimenti di protesta pacifica dal basso, sul modello di quello che è accaduto nelle primavere arabe e in Sudan.
Anche se non sempre la lotta per la democrazia prende il sopravvento. Basta pensare al caso dell’Uganda dove l’opposizione giovanile ha sostenuto la candidatura del cantante Bobi Wine alle presidenziali dello scorso 14 gennaio. Per quanto la sfida all’inamovibile Museveni sia stata fermata con un arresto illegale, qui il fermento sociale continua.
Ma sono molti i Paesi africani in cui la società civile alza la testa, le giovani generazioni aspirano a studiare, a realizzare le proprie possibilità e ad una migliore qualità della vita. Un’onda che sta diventando irrefrenabile e che presto riuscirà a cambiare il volto del continente, pur minacciato dai cambiamenti climatici e dell’esplodere di nuovi conflitti.
Se ne sono accorte anche le grandi potenze occidentali, che dopo aver colonizzato per secoli, sfruttato e depredato l’Africa delle sue preziose risorse (ma il land grabbing continua ancora oggi) ora tentano la strada di una egemonizzazione attraverso la costruzione di infrastrutture e attraverso la diplomazia dei vaccini (su questa strada si muovono soprattutto la Cina e la Russia).
Intanto a inizio gennaio ha mosso i primi passi il Trattato di libero scambio che permette ai Paesi africani di abbattere i costi doganali. E si comincia a parlare di «una volontà politica continentale» ci ricorda Giovanni Faleg, curatore del dossier African futures 2030 realizzato per l’Istituto dell’Ue per gli studi sulla sicurezza.
Anche se il reale processo di integrazione sarà ancora lungo e accidentato il Trattato di libero scambio sicuramente rappresenta un passo storico in un continente da secoli frammentato e diviso, segnato da confini nazionali imposti dalle potenze coloniali di altri continenti.
Ma c’è anche un altro fenomeno da registrare. In questo anno di pandemia che ha bloccato il flusso migratorio verso l’Europa sono aumentate le migrazioni interne all’Africa. Il rapporto Eurostat sui richiedenti asilo in Europa, passato anche questo inosservato dai media nostrani, ha rilevato un crollo globale del 34% delle istanze presentate nel 2020. Tra l’altro quelle presentate da cittadini africani sono sole poche decine di migliaia distribuite in diversi Paesi Ue.
Più in generale dei gravi danni provocati in prospettiva dal blocco migratorio allo sviluppo dell’Africa e dell’Europa ci aveva già parlato il demografo Livi Bacci. In questo numero Stefano Galieni, sulla base di dati dell’Africa center for strategic studies, traccia il quadro articolato e complesso degli spostamenti di grandi masse di cittadini africani: quelli all’interno dell’Africa ormai costituiscono l’80% del totale.
Spinte da motivi economici e di lavoro ma anche dai cambiamenti climatici, da nuovi conflitti, dal terrorismo fondamentalista religioso, nel 2020 oltre 1,5mln di persone si sono fermate nei Paesi del Nord Africa. Verso l’Europa invece lo scorso anno si sono mosse dalle coste del grande continente poco più di 40mila persone, un numero davvero irrisorio che smaschera le fake news dei politici xenofobi che si ostinano a parlare di “rischio invasione” e di “difesa dei confini”.
Ma sono soprattutto gli spaccati di vita raccontati nei loro reportage da Giacomo Zandonini dal Niger, da Valerio Giacoia dal Kenya e da Yuri Delmar da Luanda a darci il polso della situazione. Il massiccio processo di inurbamento che si regista nella metropoli angolana sta cambiando il volto della città di cui negli anni passati si parlava come della Dubai africana: crescono le disuguaglianze ma anche i conflitti positivi e le proteste di cittadini che reclamano una svolta politica con più diritti, equità e democrazia.
Un cambiamento apparente è invece quello che è avvenuto in Niger con l’elezione dell’ex ministro Bazoum a presidente, in perfetta continuità con il regime precedente mentre la società civile, dopo i sommovimenti del 2018 e 2019 «appare silente e silenziata», come scrive Zandonini ed è sempre più pervasiva la presenza turca.
Il Paese di Erdogan infatti è il terzo attore, insieme a Cina e Russia, impegnato nel tentativo di espandere la sua influenza e mettere le mani sull’Africa mentre l’Occidente è distratto e ripiegato su se stesso.
Federico Tulli
9/4/2021 https://left.it
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