Usurati e da buttare. In fondo, dovete morire prima…
I media filogovernativi (tutti, di fatto) hanno presentato come una “grande concessione umanitaria” l’idea di non far scattare l’aumento automatico dell’età pensionabile per alcune categorie di lavoratori che sicuramente hanno mansioni più logoranti della media.
Contemporaneamente, viene presentato come “normale” lo stesso aumento automatico – da 66 anni e sette mesi a 67 anni – giustificandolo con un analogo aumento delle aspettative di vita registrato dall’Istat. Cinque mesi in più di vita, dunque cinque mesi in più di lavoro. Come se fosse la stessa cosa vivere e lavorare, o peggio ancora vivere per lavorare.
C’è una logica mortifera sotto questi ragionamenti che abbiamo messo in evidenza molte volte. Ma non abbiamo l’illusione che basti pubblicare un’analisi seria o ironica sulle nostre pagine per smontare una “narrazione” che giustifica un prevedibile sterminio di massa.
Proviamo dunque ad accendere i riflettori su alcuni trucchi statistici piuttosto grossolani, che nessun giornalista mainstream osa neppure menzionare.
I cinque mesi di “aumento dell’aspettativa di vita” sono infatti estrapolati dal raffronto tra il 2013 e il triennio successivo. Da cui risultano per l’appunto mediamente cinque mesi in più. Dov’è il trucco? Nel fatto che il 2016, per esempio, registra invece un calo dell’aspettativa di vita rispetto all’anno precedente, pienamente e drammaticamente confermato dal primo trimestre 2017. In pratica usando i grafici, si vedrebbe che la curva dell’età aumenta fino al 2015 e poi prende ad abbassarsi. Un governo serio – e un consiglio direttivo dell’Istat meno servile – si preoccuperebbero di una così clamorosa inversione di tendenza rispetto alle dinamiche precedenti, che mette in discussione tutta una serie di aspettative sul futuro prossimo.
Ma, come sappiamo, l’imperativo contenuto nelle indicazioni dell’Unione Europea è contenere la spesa pubblica per ridurre il debito, il deficit e raggiungere il pareggio di bilancio (diventato nel frattempo “obbligo costituzionale” senza neppure uno straccio di dibattito parlamentare).
Dunque l’impegno del governo (di tutte le forze “politiche”) e del sistema mediatico è per la giustificazione dell’aumento automatico dell’età pensionabile.
Per non apparire “prevenuti” riportiamo qui di seguito l’articolo pubblicato a ferragosto dal docente di demografia Gian Carlo Blangiardo sul quotidiano “sovversivo” L’Avvenire (organo della Cei, insomma i vescovi italiani).
Oltre ai numeri da lui presentati, ci sembra utile qui chiarire alcune dinamiche che preparano una tagliola mortifera.
L’aspettativa di vita – dipendendo dalle condizioni materiali di vita (lavoro, sicurezza sul lavoro, istruzione, diritti, sanità, frequenza fisiologica di ferie e riposi, ecc) – può infatti anche scendere. E dai dati recentissimi sembra che questo stia già avvenendo. Ma il “meccanismo automatico” previsto dalla legge Fornero, oltre a essere criminale, non prevede retroazioni. Una volta fissata per legge una certa età pensionabile, questa non potrà essere “automaticamente” abbassata. E’ insomma un meccanismo predisposto solo per salire, non viceversa. Ne consegue che ci potremmo trovare nel giro di un decennio o poco più davanti a una situazione in cui l’età pensionabile è vicinissima o superiore alle aspettative di vita!
A quel punto i conti Inps sarebbero perfettamente in ordine, visto che non dovrebbe più erogare pensioni…
Nel frattempo l’età pensionabile delle donne – cui quotidianamente vengono rivolti alti apprezzamenti e propositi di “promozione sociale” – è aumentata di ben 7 anni. Per chi avrà iniziato a lavorare nel 1996 arriverà tranquillamente a 71 anni. Diciamo che è l’unico punto su cui è stata veramente raggiunta la parità di genere…
I giovani – che sono indicati in cima alle priorità in ogni discorso governativo – si trovano invece in una situazione ancora peggiore. Inchiodando gli anziani al lavoro finché morte non li liberi, infatti, ritardano progressivamente l’ingresso nel mondo del lavoro “vero” (diciamo mediamente stabile, nulla di più). Nel frattempo, grazie alla “decontribuzione previdenziale” messa come incentivo all’assunzione, si vedranno drasticamente decurtati i contributi validi ai fini pensionistici futuri, venendo così condannati a pensioni da fame (se ci arriveranno vivi).
Inutile aggiungere che, con la decontribuzione, intanto calano le entrate annue dell’Inps, il cui garrulo presidente potrà così continuare a dire che “non abbiamo i conti a posto” per giustificare altre e più infami modifiche al sistema (senza peraltro lamentarsi troppo delle aziende, che evadono contributi previdenziali per almeno 8 miliardi ogni anno).
Ultimo appunto. Aumentare l’età pensionabile non significa affatto che le persone avranno un lavoro fino a quell’età. Significa soltanto che prima di quell’età non verrà corrisposta loro una pensione. Il Jobs Act, abolendo l’art. 18 (che vietava i licenziamenti “senza giusta causa”), permette alle aziende di licenziare individualmente in qualsiasi momento e per qualsiasi motivo. Dunque è facile prevedere – ma sta già avvenendo – che tenderanno a liberarsi in anticipo di dipendenti così invecchiati da non poter essere abbastanza “produttivi”. E naturalmente questo avviene ed avverrà soprattutto in quelle mansioni più “usuranti”.
Il cerchio si chiude. ”Dovete morire prima”, come ha osato dire il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan…
Alessandro Avvisato
4/11/2017 http://contropiano.org
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Morti in forte aumento e pochi nati: il vero deficit italiano
Gian Carlo Blangiardo – L’Avvenire, 13 agosto 2017
Nel primo trimestre 2017 le morti sono aumentate del 15 per cento, i nati sono in ancora in calo (-2,6%) e Il saldo naturale negativo è a livelli record: 346mila unità.
Parlare di demografia attorno alla metà del mese d’agosto, quando i ritmi della vita rallentano e si vorrebbe assaporare il piacere del meritato riposo, sembra un accanimento che solo Giovanni Sartori, con le sue vivaci (e francamente spesso discutibili) considerazioni sui temi della popolazione, si poteva permettere. Tuttavia, il recente aggiornamento del bilancio demografico della popolazione italiana, fornito dall’Istat per il primo trimestre del 2017, offre spunti che inducono a travalicare gli scrupoli nel proporre una riflessione impegnativa pur in presenza di un clima agostano e vacanziero.
Alla luce dei nuovi dati, ciò su cui conviene innanzitutto soffermarsi non è tanto il prosieguo della tendenza a perdere popolazione – altri 57mila residenti in meno tra il 1° gennaio e il 31 marzo 2017 che si aggiungono agli oltre 200mila persi nel biennio 2015-2016 – quanto le modalità con cui tale risultato è andato concretizzandosi. Ci troviamo infatti in presenza di un quadro statistico che anticipa la prospettiva di un nuovo anno contraddistinto da record negativi su tutti i fronti.
Partiamo dalle nascite.
La loro frequenza nel primo trimestre del 2017, pari a 112mila unità, è inferiore del 2,6% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Anno in cui – è bene ricordarlo – si era già registrato il più basso numero di nati dai tempi dell’Unità Nazionale (1862-1916). Se dovessimo estrapolare su base annua il dato parziale di questo inizio 2017 avremmo un bilancio finale di 461mila nascite. Un valore che, stando ai più recenti scenari previsionali diffusi dall’Istat, ben si concilia con una prospettiva di ulteriore estremo regresso sul piano della vitalità demografica del nostro Paese, lasciando intendere un calo di quasi 3 milioni di abitanti nel prossimo ventennio e una discesa del peso relativo della componente più giovane (i residenti in età 0-14 anni) dall’attuale 13,5% al 10,9%.
Ma il messaggio più impressionante che ci consegnano le statistiche di questo primo scorcio del 2017 è quello relativo alla frequenza dei decessi. Ne sono stati conteggiati 192mila nel trimestre in oggetto: il 14,9% in più rispetto allo stesso periodo del 2016. Con persino una crescita del 2% rispetto ai primi tre mesi del 2015, un anno che – come è ben noto – si era distinto negativamente per una sorprendente impennata della mortalità (a suo tempo messa tempestivamente in luce proprio sulle colonne di “Avvenire”). Siamo dunque in presenza di un nuovo improvviso peggioramento dei livelli di sopravvivenza della popolazione italiana, e soprattutto della sua componente più anziana e fragile?
Attualmente i dati disponibili non consentono ancora adeguati accertamenti sulle cause dei decessi e sulle caratteristiche dei soggetti coinvolti, ma è senz’altro da escludere che un aumento così consistente della frequenza di morti sia unicamente imputabile a cambiamenti quantitativi o strutturali dei residenti. L’invecchiamento della popolazione tra il 1° gennaio 2016 e la stessa data del 2017 potrebbe, infatti, spiegare al più un incremento dei decessi nell’ordine del 3%: non quel quasi 15% di cui si è detto! Per altro va rilevato che se la variazione osservata in questo primo trimestre dovesse valere per l’intero anno ci troveremmo a contabilizzare nel 2017 ben 707mila morti. Occorre risalire al 1944 per trovare un dato simile!
Nel complesso, estrapolando su base annua i primi dati trimestrali su natalità e mortalità avremmo un saldo naturale per il 2017 di segno negativo, più morti che nati, per 346mila unità: un valore quasi equivalente alla somma dei due saldi – già negativi e di dimensione preoccupante – che hanno caratterizzato il precedente biennio 2015-2016.
Che dire davanti a un tale scenario? Per prima cosa si può sperare che, trattandosi di dati ancora parziali, ci sia strada facendo una qualche correzione di rotta.
Tuttavia, affinché un cambiamento sia realisticamente configurabile sarebbe necessaria una strategia condivisa e tempestiva capace di rimettere al centro la famiglia, sia come protagonista delle scelte legate alla genitorialità, sia come rete di supporto ai membri fragili sul piano socio economico e sanitario. Ma quali novità ci sono, se ci sono, su questo fronte? Anche per questo è importante che sia stata confermata la terza Conferenza nazionale sulla famiglia (Roma 28 e 29 settembre 2017) e che essa possa essere, come previsto, l’occasione per discutere una versione aggiornata del ‘Piano nazionale per la famiglia’ e renderne operativi i contenuti.
Non dimentichiamo però che mentre la Seconda Conferenza (Milano, 2010) si interrogava – già allora con toni preoccupati – sul futuro demografico di un’Italia caratterizzata da 562mila nascite e da un saldo naturale negativo per ‘sole’ 25mila unità (dati 2010), l’edizione 2017 sembrerebbe capitare in un anno con circa 100mila nati in meno e con un ipotetico squilibrio naturale di quattordici volte più grande. Ce n’è dunque quanto basta per sottolineare l’urgenza che, sul fronte dei risultati, il nuovo Piano Nazionale sappia essere, diversamente dalla sua precedente versione, ben più che un bel ‘libro dei sogni’.
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