Val Susa: montagne e migranti fra repressione e solidarietà

La neve cade copiosa, avvolgendo Oulx; sembra fermare le attività, la vita stessa, ma non per tutti.  Al Rifugio Fraternità Massi, però, a due passi dalla stazione della cittadina, è tutto in movimento. Silvia, che nella vita insegna francese, si muove rapida nel magazzino organizzato perfettamente dove vengono raccolti e organizzati per taglia e tipologia gli abiti e le scarpe che sono state donate. Davanti a lei, in attesa, due ragazzi. Sono tra coloro che arrivano dalla Balkan Route, dopo un viaggio infinito, preparandosi all’ultimo tratto di un progetto migratorio.

“Questo edificio era un istituto dei Salesiani, che si occupava di ragazzi in difficoltà, poi è stata attrezzata per essere un alloggio per i viaggiatori lungo la via Francigena e, dal 2017, è stata attrezzata per ospitare i migranti”, racconta Silvia, senza smettere di occuparsi degli ospiti, rispondendo contemporaneamente al cellulare. “Con un nuovo progetto arriveremo a circa 60 posti letto potenziali, qui le persone ricevono un tetto per la notte, una cena e una colazione, se ci sono problemi di salute li accompagniamo in collaborazione con la Croce Rossa, soprattutto forniamo scarpe e vestiti utili per la montagna, perché vederli arrivare senza abiti adatti non è solo preoccupante, è anche pericoloso.”

Sul tavolo del magazzino degli abiti ci sono dei volantini che vengono distribuiti alle persone che si apprestano a passare la frontiera con la Francia, a piedi. “Per anni si dirigevano verso il Colle della Scala, ma poteva diventare molto pericoloso. Oggi arrivano qui a Oulx e ripartono in bus verso Claviere, per poi proseguire a piedi dal Monginevro verso Briancon”, spiega Silvia. I volantini multilingua spiegano i pericoli della montagna, segnalano i numeri utili, allertano di non fidarsi dei ‘passeur’. “Ad alcuni hanno venduto dei ‘pacchetti’ fin da Torino, poi le persone arrivano qui e scoprono di essere stati presi in giro, perché questo posto accoglie tutti gratuitamente, non c’è nulla da pagare.” Mentre Silvia e altri volontari si occupano di loro, alcuni ragazzi si aggirano tra il dormitorio e il cortile, dove possono fare una doccia calda, sotto la neve, con le ciabatte. Si può solo immaginare, mentre il gelo ti entra nelle ossa, cosa possa significare sfidare la montagna senza abiti adeguati. “Ci sono state almeno quattro vittime, ma è un miracolo che non siano molte di più”, dice Silvia. Ma i miracoli, in fondo, sono i volontari, dal versante italiano e da quello francese. Sempre connessi, sempre in contatto – una delle deleghe di Silvia nel gruppo dei volontari del Rifugio è proprio il coordinamento  – con l’associazione Tous Migrants e i maradeurs, i soccorritori volontari che tentano recuperare i dispersi in montagna, che conta più di 200 persone che solo negli ultimi mesi hanno soccorso 196 persone. 

Il magazzino degli abiti del Rifugio Massi. Foto di Elena Strada.

Dal 2017 si calcola che siano state più di 11mila persone a passare il confine italo-francese, per anni da Bardonecchia e Ventimiglia poi, con l’inasprirsi dei controlli, da Oulx e dalle Alpi. Con grandi rischi: facile perdersi, in un luogo sconosciuto, facile finire in ipotermia d’inverno. Come dice Silvia se ad oggi non ci sono state tragedie terribili è grazie alla rete: il rifugio Fraternità Massi, il suo omologo a Briancon, Refuges Solidaires, e la Casa Cantoniera occupata di Oulx. Che oggi è sotto sgombero esecutivo. “Qui tutti fanno la loro parte, ciascuno il suo. Il rifugio è aperto dalle 16 alle 10 del giorno dopo – spiega Silvia – la Casa è stata importante, perché è sempre aperta e per certi versi è meglio per le famiglie, che al mattino non devono ripartire subito. Questa chiusura non ha senso, perché il bisogno non è calato, anzi. 

Negli ultimi mesi gli arrivi sono stati tanti, con la novità che adesso Oulx è diventata l’ultima tappa della rotta balcanica, perché da questa estate sono tanti quelli che arrivano dopo essere passati da Trieste, ancor di più da Gorizia ultimamente.”

Anche per questo, Val Susa Oltre Confine, associazione che raggruppa varie anime e varie storie della solidarietà della valle, ha lanciato una petizione online per chiedere di non chiudere la Casa Cantoniera. Sono già più di 11mila le firme raccolte, un successo straordinario, che testimonia come la Casa sia parte – con le sue modalità – della rete solidale transfrontaliera della valle.

A conferma delle parole e delle preoccupazioni di Silvia c’è il report di Medici per i Diritti Umani (MEDU), pubblicato a ottobre 2020, che calcola come tra “settembre 2020 e gennaio 2021 si sia stato il passaggio a Oulx di circa 5mila persone, prevalentemente nuclei familiari con minori e donne anche in stato di gravidanza provenienti dalla rotta Balcanica: dalle 50 alle 100 persone che si sono fermate quotidianamente al rifugio Fraternità Massi e alla casa cantoniera occupata.”

Un numero importante, che nel Rifugio trova una sponda, così come nella Casa Cantoniera, occupata da attivisti italiani e internazionali nel 2018 proprio per rispondere alla logica delle frontiere. Non è un caso che realtà come il Rifugio, legata al mondo del volontariato cattolico e alla fondazione Fondazione Talità onlus, legata alla figura carismatica di don Luigi Chiampo, o come MEDU, una ong medica, si uniscano all’appello contro la chiusura della Casa. 

Arrivano Luca e Paolo, due volontari dei vari gruppi attivi in tutto il Piemonte, con la macchina carica di frutta e verdura, e qualche giocattolo. “Andiamo a portare la roba alla Casa Cantoniera”, racconta Luca, che prima della pensione faceva il rappresentante di commercio. “Mi sono offerto di aiutarli a sistemare il tetto, in fondo siamo tutti dalla stessa parte.”

Stazione ferroviaria di Oulx con partenza del bus per Cleviere. Foto di Elena Strada.

I ragazzi della casa non amano i giornalisti, ma la loro porta è aperta a tutti quelli che non giudicano il loro modo di rendersi utili. Il giardino, di fronte a fiume e alla cornice di monti innevati, è pieno di giochi per bambini. Paolo e Luca, aiutati da tre nuovi arrivi della rete dei volontari, due studenti di Ingegneria e una studentessa di Antropologia di Torino, portano in casa casse di frutta e verdura, cibo e abiti. I ragazzi della casa, aiutati da alcuni ospiti, portano dentro e sistemano sugli scaffali. Si organizza una cena per la sera successiva. “Ognuno aiuta a modo suo”, racconta Luca, “l’importante è dare una mano e tenere connessa una rete che oltre ai volontari si nutre della generosità delle donazioni che sono davvero straordinarie.” 

Sembra di camminare un’altra Italia, che si impegna, solidale, umana. La Val di Susa è una delle Italie che si raccontano troppo poco. Intanto al Rifugio si assiste un ragazzo afgano, in evidente difficoltà. Amir tira fuori un foglio, tutto accartocciato. È il referto di dimissioni di un ospedale di Bihàc, in Bosnia-Erzegovina. Amir è stato tre mesi in ospedale, dopo un’operazione al cervello. Luca, un altro volontario, che nella vita lavora alla FIAT, si attiva con gli scout che nel fine settimana vengono a far le pulizie al Rifugio, mentre Silvia contatta conoscenti che possono tradurre il referto per aiutare Amir. Mentre una famiglia afgana racconta quel che gli è capitato a un eurodeputato francese che  venuto a raccogliere la loro testimonianza. È capitato che l’autista del bus per Claviere non si sia fermato e abbia tirato dritto fino al posto di polizia francese. Tutti respinti. Con loro viaggiava una donna incinta, di nove mesi. Adesso è all’ospedale di Rivoli, i volontari si aggiornano in tempo reale, il bimbo è nato e sta bene. Vengono i brividi, in mezzo al gelo, a pensare a quella famiglia se avesse tentato di passare a piedi. Ma vengono i brividi anche a immaginare una pattuglia della polizia francese che, di fronte a una famiglia, con due bimbi piccoli e una donna incinta, ha fatto firmare loro dei documenti che non capivano, senza assistenza, per respingerli.

Luca, Silvia e gli altri vogliono capire cosa sia accaduto. “La polizia francese controlla in modo feroce la frontiera, con cani e motoslitte”, racconta Silvia. “I medici di Médicins du Monde sono sempre presenti con i volontari d’oltralpe, nonostante le multe per violazione del coprifuoco. E adesso, con la richiesta di tampone all’ingresso, la Francia respinge ancora di più.”

Non solo migranti, perché spesso sono anche ignari viaggiatori che si trovano fermati, magari nel cuore della notte, al confine. Avevano tutto in regola, ma magari gli mancava un documento e la polizia italiana, dopo il respingimento in frontiera di quella francese, non sa che fare e li porta al Rifugio. “Sono smarriti, non capiscono dove sono e cosa è accaduto”, racconta Silvia, “gli spieghiamo che non sono in arresto e che possono passare la notte qui.”

Un giorno a Oulx sta finendo. Un altro giorno che la rete di solidarietà ha reso meno duro per tante persone che non hanno altra scelta che andare avanti. Piero Gorza, antropologo, tra gli autori del report di MEDU e con una vita professionale tra America Latina e Balcani, la racconta così, la Valle e le vite che la attraversano. “Questa è una valle storicamente di passaggio. Nel ‘700 dicevano che solo un matto poteva attraversarla, era il ‘mal passo’, per i briganti. Il passaggio prevede tanti pericoli, compresa la rapacità sui viaggiatori, come ci raccontano tutte le frontiere. I poveri sono sempre una risorsa, arricchiscono sempre tante persone. Questa valle ha una linea, tra la bassa e l’alta valle. La bassa tra operai e partigiani, si sono passati una memoria, e l’alta, legata alle migrazioni stagionali. Fino al ‘900 in inverno c’era troppa gente, emigravano in Francia, e tornavano, fino agli anni ’30, con il turismo, che negli anni ’50 la ‘manna’, la neve, diventa una monocultura. E un’imprenditorialità e un mercato del lavoro, stagionale, non attenta al territorio e concentrata sul guadagno. E poi i flussi migratori dal Meridione, nell’edilizia del boom immobiliare, poi rumeni, maghrebini, albanesi. E si arriva al 2017, con questa rotta, in particolare sub-sahariani dalla rotta del Mediterraneo centrale, spesso con un periodo già lungo in Italia. Oggi, dalla primavera 2020, arrivano dalla rotta balcanica, ma la storia è sempre quella: per anni, tra due e sei anni, hanno potuto contare solo sui loro piedi, sui loro corpi. Sono famiglie, molto più di prima, alcune si sono allargate abitando il cammino. Non le frontiere, che sono solo segmenti. Il cammino è fatto di nove, dieci frontiere prima di Oulx. Persone che non hanno alcuna intenzione di fermarsi qua, con figli che ormai conoscono più il cammino che la terra d’origine, una costruzione di umanità e di emozioni itinerante, che conoscono un’altra geografia, che non si limita agli stati nazionali. E Oulx, di base, sta a guardare, senza eccessi di rifiuto o di accoglienza. Le persone passano, non si fermano. Portano con loro le relazioni del cammino, con quelle continuano per la loro meta, con la fretta di chi ha impegnato tutto, compresa la rete parentale, per quel cammino.”

Ha smesso di nevicare, è sorto il sole a Oulx. Arrivano i turisti, trascinando i loro trolley pieni di sogni di piste da sci aperte dopo la pandemia. Alla stazione di Oulx, intanto, stringendo al petto una piccola borsa, arriva anche Alì. Racconta di venire da Bamyan, in Afghanistan, dopo un viaggio di due anni, che alla fine lo ha portato a Patrasso, in Grecia, poi a Bari, nascosto in traghetto, e fino a Oulx. Alì guarda le montagne, Alì partirà domani. Abitando il cammino.

Christian Elia

18/2/2021 https://openmigration.org

In copertina: Claviere, confine italo – francese. Foto di Elena Strada.

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