Vedere le vite che nessuno vede
Pensiamo che i senzatetto siano un mondo a parte. Non sappiamo neanche quanti sono. A Roma è cominciato il primo censimento nazionale per conoscere la condizione di chi vive per strada. Cronaca di una notte con volontari e operatori
er raccontare quello che succede fuori, per strada, a volte è utile dare un’occhiata a quello che succede dentro, nelle case. Al terzo piano di un appartamento in via Ferruccio, a Roma, a pochi passi dall’elegante e anonima piazza Dante, e dalla sede dei servizi di sicurezza, la luce filtra dalle finestre e cade morbida sul parquet color miele del soggiorno. Una libreria a parete, un tavolo di mogano e un divano sono gli unici mobili di una stanza che non somiglia alle altre, così zeppe di roba da non lasciare molto spazio all’immaginazione.
Nell’ingresso sono stati ricavati un armadio e un soppalco-studio – “Molto utile durante la pandemia”, dice uno dei due proprietari, una coppia sui cinquant’anni. Tra i fuochi e i pensili della cucina, bianchi su mattonelle bianche, trova posto solo un piccolo tavolo in acciaio. Nella stanza da letto matrimoniale ci sono due comodini, una cassettiera, una cabina armadio, una cyclette e una scrivania con sopra un computer, “un’altra postazione per riunioni e videochiamate”. La stanzetta è soppalcata, sotto ci sono un divano letto, una lunga scrivania di legno e una sedia da ufficio; sopra, un letto, delle scarpiere, roba ammucchiata e una panca per fare i pesi. In bagno la distanza tra la doccia e il lavello è di appena un passo. In totale sono ottanta metri quadrati e secondo i proprietari valgono 399mila euro.
In ascensore l’agente immobiliare dice che sotto i 390mila non scendono, perché devono comprare una casa da 450mila euro nella vicina via Merulana. L’annuncio c’è da pochi giorni, ma l’ascensore non ha ancora toccato terra che arriva la prima offerta. “Una ragazza ha fatto una proposta che penso sarà accettata”, dice l’agente immobiliare. Davanti al portone saluta e spiega: “Nonostante i prezzi, le case all’Esquilino vanno via come il pane, è una zona in forte rivalutazione”.
Due mondi a parte
La zona “in forte rivalutazione” è a pochi passi dalla stazione Termini e dalla basilica di San Giovanni. Ci vivono attori, scrittori e registi, ma anche migliaia di famiglie straniere in appartamenti minuscoli e bui; con dieci euro si può pranzare in una delle tante rosticcerie cinesi, ma per una colazione al forno Conti si possono spendere anche dieci euro. Il prezzo degli appartamenti è sui quattromila euro al metro quadrato, mille in più rispetto alla media cittadina. Sotto gli stessi portici possono incrociarsi il proprietario di un attico da un milione di euro su piazza Vittorio e il senzatetto che dorme davanti al suo portone.
Raramente i due mondi s’incontrano, e quando succede spesso non sono rapporti cordiali. In più di un’occasione gli abitanti hanno descritto la situazione usando le parole “decoro”, “degrado” e “sicurezza”, termini dietro cui si nasconde l’augurio che le persone finite per strada spariscano, o siano fatte sparire, soprattutto per non dare fastidio alle loro rendite immobiliari.
Tuttavia, i senzatetto tendono a non svanire, e all’Esquilino sono ormai centinaia. La notte del 31 marzo volontari e operatori hanno battuto le strade del quartiere per contarli, raccogliere informazioni e provare a scattare una fotografia di una situazione che ormai a Roma ha contorni molto ampi, e preoccupanti: nella capitale vivrebbero tra quattordicimila e ventimila persone senza dimora, mentre i posti letto per ospitarle sono circa 1.300.
Un deserto decoroso
“Non sapere quante sono è parte del problema”, spiega Alessandro Radicchi, fondatore di Binario 95, il centro per senzatetto vicino alla stazione Termini. Matematico che ha mollato la ricerca universitaria dopo aver fatto il volontario durante la guerra in Bosnia, la sera del 31 marzo Radicchi è tra le persone che affollano l’Acquario romano, proprio nel quartiere Esquilino, per ascoltare le istruzioni degli esperti dell’Istituto nazionale di statistica (Istat) su come condurre il primo censimento di persone senza dimora a Roma e in Italia. Sono duecento: ragazzi, adulti e anziani; attivisti, operatori e volontari; disillusi ed entusiasti. A vederli tutti insieme fanno venire in mente i versi di Angelo Maria Ripellino: “Vivere è stare svegli/e concedersi agli altri/dare di sé sempre il meglio,/e non essere scaltri”.
Sono qui per “un progetto pilota ispirato alle esperienze di Parigi e Berlino”, spiega Barbara Funari, assessora alle politiche sociali e alla salute del comune di Roma. “Cominciamo dall’Esquilino per allargare poi l’indagine al resto della capitale, e ad altre città”, aggiunge. “Vogliamo avere un numero certo per sederci al tavolo con il governo e dire in maniera chiara di quanti soldi abbiamo bisogno per offrire un alloggio dignitoso a chi è rimasto senza più niente”, dice Giovanni Impagliazzo, dell’assessorato politiche sociali e sussidiarietà.
Invece di capire quali correnti si muovono in questo pezzo di città si preferisce soffiare sul vento della propaganda e cacciare chi dorme per strada.
Il punto è questo: avvicinarsi il più possibile a un mondo che si ritiene lontano, e non lo è; scattare una fotografia in grado di cogliere quanti più dettagli possibili; partire da questi dettagli per offrire soluzioni che vadano oltre l’emergenza, altrimenti la fotografia è solo un’immagine senza cornice, destinata a rovinarsi in poco tempo. Al momento non sappiamo quante persone ci siano in questa foto, né come ci sono finite, ed è un problema per tutti: perché lasciamo indietro migliaia di donne, uomini e ragazzi in difficoltà; e perché aiutarli con progetti strutturati costerebbe meno che tenerli per strada, dove finiscono per ammalarsi di più (pesando sul sistema sanitario), incrociano la piccola criminalità (finendo spesso in carcere) e alimentano un sistema di emergenza continua e costosa.
Alle 21.15 i gruppi delle varie associazioni coinvolte – dalla Croce rossa agli Angeli in moto alla comunità di Sant’Egidio – si separano e cominciano ad andare a piedi ognuno per la sua strada. L’area è stata divisa in venticinque zone. A Binario 95 tocca quella che comprende la stazione Termini. “Vedrai che c’è un’atmosfera diversa rispetto ad altri periodi”, spiega Fabrizio Schedid. Quarantasei anni, magro, barba lunga e sigaro spesso in bocca, Schedid è vicepresidente della Europe consulting, la cooperativa che gestisce Binario 95. Conosce Termini e i suoi dintorni così bene che quando il gruppo di operatori e volontari del centro raggiunge via Giolitti, una delle due vie che costeggia la stazione, è in grado di anticipare chi si trova dove, tra le persone che dormono per strada. “Questo pomeriggio, come succede spesso ultimamente, sono passate diverse volanti della polizia per controllare documenti a stranieri e senza dimora, perciò c’è molta meno gente”.
Da settimane Termini è al centro di una campagna mediatica e politica condotta in nome della sicurezza: la stazione è spesso descritta come una terra di nessuno in cui regnano criminalità, violenza e degrado. Alcuni fatti di cronaca hanno rafforzato questa convinzione, e perciò invece di capire quali correnti si muovono nel gorgo di storie, fallimenti, solitudini e piccole criminalità che caratterizza questo pezzo di città si preferisce soffiare sul vento della propaganda e cacciare chi dorme per strada o intimidirlo con continui controlli. Il risultato è che hanno trasformato l’area della stazione Termini in un deserto e l’hanno chiamato decoro: l’ennesimo frutto di una capitale nevrotica che organizza il censimento dei senzatetto ma li manda via dai luoghi in cui vivono, che s’impegna ad aprire nuovi posti dove ospitarli e intanto li sgombera da quelli in cui hanno trovato rifugio.
Dare una mano
Su via Giolitti però le persone sono poche anche per un altro motivo. “È come se questa zona fosse una specie di reparto psichiatrico a cielo aperto, ognuno di loro fa i conti con qualche disturbo, isolato dagli altri”, spiega Schedid. Anna, spagnola, sui quarant’anni, vive qui da tanto e di giorno chiede l’elemosina. Un tempo aveva un’amica, si aiutavano di giorno e dormivano vicine la notte. Era lucida e diceva di voler tornare nel suo paese. Oggi è sola ed è difficile capire se quando parla si rivolge al suo cane o a qualche fantasma.
Pochi metri più in là, in piazza dei Cinquecento, la situazione è diversa. Alle nove e mezza di sera i taxi davanti all’ingresso principale di Termini sono ancora molti e gli autobus s’incrociano a un ritmo sostenuto. Sotto la pensilina esterna della stazione diverse persone sono sedute a terra, appoggiate alle sue enormi vetrate. Tommaso Romeo, del gruppo di Schedid, ne avvicina qualcuna per chiederle dov’è nata, quanti anni ha, da quanto è per strada e se nell’ultima settimana è stata in qualche centro per una doccia, un pasto o altri bisogni. Di Giuseppe (nome di fantasia), cinquant’anni, di Caserta, si vede appena la testa dietro una grata su cui ha appoggiato dei cartoni. Gli hanno rubato la coperta, ne chiede un’altra. Ma alle domande preferisce non rispondere. “Non mi sento la testa”, dice. Una frase che accompagna con un sorriso dolce, e inappellabile.
Qualcuno è diffidente, ma qualcun altro è contento di scambiare due chiacchiere. Tra loro c’è una signora di 67 anni, ucraina. Bassa e tonda, porta un fazzoletto in testa e si trascina dietro un trolley nero. Si chiama Giovanna e non capisce bene le domande. Dà qualche risposta, ma quello che le interessa di più è sapere se i volontari e gli operatori di Binario 95 le possono dare delle medicine per il cuore di cui ha bisogno. I ragazzi e le ragazze le spiegano che non le hanno ma che se l’indomani passa dal centro provano a darle una mano. Per essere sicura di essersi spiegata bene apre una tasca del trolley ed estrae una confezione di medicine. “Va bene, passa domani”, dice Romeo. La donna ripete “domani”, e se ne va.
Si avvicina un ragazzo così alto e secco, pieno di piercing e leggermente ingobbito, da sembrare un lampione.
“Possiamo chiederti dove dormi?”.
“Non dormo”.
“Come non dormi?”.
“Non dormo da dieci anni”.
“Ah, e come mai?”.
“Soffro d’insonnia”.
“E che ci fai qui?”.
“Faccio volontariato. Do una mano alle persone”.
Non è l’unico, tra i senza dimora incontrati questa notte, a dire di dare una mano agli altri. E del resto, chi è rimasto senza più niente, o con poco più di niente, non vive in un mondo per male, separato da un mondo per bene: l’idea che faccia parte di un unico grande gruppo in cui regnano egoismo e solitudine è una rappresentazione pigra e interessata. Francesco, 48 anni, è siciliano, e anche lui dice di fare spesso volontariato. È lui ad avvicinarsi. Gli operatori di Binario 95 Antonio Caporale, Kemo Drame, Aboubacar Sissoko, Valentina Difato – e i volontari Livia, Lorenzo, Stefano, Giulia e Fabrizio – lo conoscono bene, e sanno che nel suo caso il gioco sarà semplice. A Francesco piace parlare, e infatti nel giro di qualche minuto l’intervista è finita. Dura così poco che sembra quasi restarci male, perciò fa volentieri due chiacchiere in più.
Tendoni, dormitori, alternative
Viso allungato, una basetta più corta dell’altra e palpebre un po’ calanti, gli basta aprire bocca per tradire le sue origini palermitane: ha la “r” arrotata di molti abitanti del capoluogo siciliano e usa spesso “fare e dire”, che non c’entra niente con “tra il dire e il fare”, è qualcosa di più simile a “tra una cosa e l’altra”, ma con un significato ancora più vago.
Fare e dire, Francesco mi chiede di accompagnarlo al tendone che la Croce rossa ha montato davanti alla stazione per accogliere chi non ha una casa. In totale ci sono quaranta posti letto, ed è una delle strutture aperte per l’emergenza freddo: emergenza per modo di dire, visto che l’inverno arriva ogni anno, e ogni anno ci si ricorda di chi è finito per strada all’ultimo minuto. “Io ci dormo da quasi due mesi”, racconta Francesco.
A Roma è arrivato all’inizio di gennaio e per un mese è riuscito a pagarsi una stanza in un b&b. “Poi i soldi sono finiti e, fare e dire, mi è rimasta solo la strada”.
Lo dice spiegando che l’unica preoccupazione di quei giorni era che la sua attuale compagna non lo sapesse. “Sono venuto qui per lei, che però deve sistemare delle cose a casa prima di potermi ospitare. Se sa che ho dormito all’addiaccio si dispera”. Si sono conosciuti su Facebook, poi lo scorso agosto lei è andata a trovarlo a Palermo. Gli chiedo se lì ha una casa. “Non ho nulla, mi dà una mano un’associazione che si chiama La danza delle ombre. Non mi vergogno a dire che negli ultimi dieci anni ho vissuto molto da loro. Facevo anche un po’ di volontariato da loro. Me ne andavo quando riuscivo a trovare qualche lavoretto, fare e dire”. A volte tornava dalla sua ex moglie, con cui ha due figli, uno di diciassette e uno di tredici anni. “Ci siamo conosciuti frequentando la stessa comunità evangelica, ma litigavamo spesso e dopo quasi vent’anni ci siamo separati”.
A Palermo Francesco non può contare neanche sui familiari. Ultimo di dieci figli, non ha un buon rapporto con le sorelle e i fratelli: “Purtroppo da quando ho perso mio papà se ne sono sempre fregati di me. Avevo nove anni e la mia vita è stata stravolta. A parte mia mamma, nessuno mi ha aiutato”.
Raccontando di quel periodo, Francesco dice di essere stato “lasciato all’avventura”. Ed essere lasciati all’avventura nel quartiere popolare del Capo in cui è cresciuto, per lui ha significato cominciare a lavorare prestissimo: “Già alle elementari sono dovuto crescere in fretta, bazzicavo i bar, portavo il caffè a casa delle persone, o la spesa di qualche signora, fare e dire. Dopo la terza media ho smesso di studiare e sono andato a fare pratica in un’officina meccanica. Ma negli anni ho fatto di tutto, lavapiatti, svuota cantine, venditore ambulante al mercato di Ballarò”.
Tuttavia, non è l’aver lavorato da bambino la cosa che gli pesa di più: “Sono cresciuto tra il popolino, e questo nel mio quartiere significava anche vedere parecchie cose brutte mentre si giocava. C’era chi spacciava, chi rubava, chi incendiava le auto, fare e dire. E pure chi faceva di peggio. Un bambino non dovrebbe vedere certe cose”.
Francesco alza gli occhi al cielo, sembra cercare altre parole per proseguire il racconto, ma poi si limita a dire: “Sono cose che non ti fanno vivere tranquillo”. Un po’ di pace sembra averla trovata in questi ultimi mesi, grazie alla relazione con la sua nuova compagna e all’aiuto della Croce rossa: “Il tendone chiude ad aprile ma mi hanno detto che siccome io lì dentro faccio volontariato, do sempre una mano, non mi lasciano per strada, mi hanno promesso che mi trovano un posto in qualche dormitorio”.
Il tendone, i dormitori e altre strutture simili in teoria dovrebbero essere delle ancore di salvataggio da lanciare a chi è in difficoltà in mare aperto. Il problema è che poi, in assenza di alternative, chi le afferra finisce per viverci aggrappato per anni. È il cuore e il limite del sistema di aiuto alle persone senza dimora in Italia e in molti altri paesi: un percorso a premi per cui se ci si comporta bene, cioè non ci si ammazza di droghe e alcol, si guadagna un posto letto e, se si ha fortuna, da lì si passa a sistemazioni meno affollate. Non essendo molto diffusi i progetti di housing first, che danno una casa ai senzatetto per poi costruirci intorno una rete di servizi di assistenza sociale e sanitaria, a volte la fortuna arriva dopo anni, nella forma di un progetto di convivenza con altre persone in case famiglia o in piccole comunità, ma altre volte non arriva mai. Francesco però è ottimista.
“Ho fatto i casini”
Alle 22.30 le nuvole che occhieggiavano qua e là hanno lasciato il posto a un cielo così bianco e freddo che sembra fatto di marmo. La temperatura è intorno ai dieci gradi e il gruppo di Binario 95 è alle prese con decine di persone che si sono distese per dormire su cartoni e coperte, ma anche sul nudo cemento del marciapiede di via Marsala, l’altra strada che costeggia Termini. È il contraltare di via Giolitti: di là persone sole e silenziose, di qua capannelli e confusione. Stasera non molta, a dire la verità, perché anche da qui è passata la polizia, e tanti se ne sono andati. Schedid e gli altri stanno parlando con Gabriele (nome di fantasia), un napoletano di 55 anni, a cui qualche giorno fa hanno rubato lo zaino con dentro i documenti. “Alle tre del mattino ero andato a fare pipì e qualcuno me l’ha strappato di dosso. Mi fanno ancora male le spalle per quanta forza c’hanno messo”. Basso, carnagione scura e naso grosso, fa il giardiniere e fino a qualche mese fa viveva e lavorava a Rimini. “Ma mi sono mangiato tutto e sono venuto qui per cercare altro”, dice.
Quella di mangiarsi tutto sembra essere una costante della sua vita: “Avevo due appartamenti a Napoli, me li avevano lasciati i miei genitori, ma li ho venduti e mi sono messo a fare la bella vita, macchine di lusso, un po’ di cocaina, tante slot machine”. Dice anche di aver prestato dei soldi a persone che poi non glieli hanno restituiti. E che lui stesso ne ha dovuti chiedere, senza riuscire a ripagare i debiti. “È il motivo per cui non posso tornare a Napoli”.
Sergio, 39 anni, di Lecce, ascolta annuendo con la testa e ripete: “Dovete aiutarlo”. Occhialoni da vista un po’ storti, capelli e barba arruffati, sporchi, Sergio sembra cadere a pezzi come il giaccone invernale che indossa. Dorme qui da sei mesi, dice che bisognerebbe aiutare tutti quelli su questo marciapiede, ma per lui non chiede niente. Ha negli occhi una rassegnazione che sembra senza appello. “Ho fatto i casini”, dice.
Lo ripete quando racconta che se n’è andato di casa, litigando con i suoi: “Ho fatto i casini”. Quando spiega che era andato a lavorare nei ristoranti in Germania ma poi ha mandato tutto all’aria: “Ho fatto i casini”. E quando gli domandao perché non chiede una mano a qualche associazione risponde: “Faccio i casini”. I casini di Sergio ruotano tutti intorno alla droga e all’alcol. Per far capire quanto siano grandi fa l’esempio di quello che gli succede ogni mattina intorno alle cinque, quando si sveglia o lo sveglia chi pulisce il marciapiede su cui dorme: “Tremo così tanto e sto così male che penso solo a bere per attenuare un po’ il dolore”.
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Nel romanzo di Tommy Orange Non qui, non altrove (Frassinelli 2019), un uomo cerca di spiegare il problema dei suicidi nelle riserve dei nativi americani con questo esempio: “I bambini saltano fuori dalle finestre degli edifici in fiamme, precipitando verso la morte. E pensiamo che il problema sia che stanno saltando”. È un’immagine efficace anche per chi ha perso tutto e finisce per strada: non vediamo la casa in fiamme da cui sono saltati.
Sergio alza una mano per indicare l’ennesima pattuglia della polizia che passa da queste parti. Non dice niente, saluta e raggiunge degli amici che stanno per coricarsi. Sono le undici e la maggior parte delle persone l’ha già fatto o sta per farlo. I volontari e gli operatori di Binario 95 hanno compilato i loro questionari.
Un ragazzo nero sui trent’anni ha però chiesto una coperta per la notte. Il protocollo per il censimento ha escluso di portare tè caldi, panini o coperte per agganciare le persone, perché doveva essere chiara la natura dell’indagine. Per le necessità bisogna chiamare la Sala operativa sociale (Sos) del comune. Ma in questo momento la Sos è impegnata, per cui Schedid si sgancia dal gruppo e dal protocollo, e va a prendere delle coperte alla sede di Binario 95, a qualche centinaio di metri di distanza.
Giuseppe Rizzo
19/4/2023 https://www.internazionale.it/
Immagine: Roma, 17 gennaio 2023. (Antonio Masiello, Getty Images)
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