Ventimiglia, dove la violenza del confine è strutturale
Tra le reazioni a catena innescate dal tentativo di respingimento da parte del governo Meloni delle navi delle ONG, consumato negli scorsi giorni, c’è la crisi diplomatica tra Italia e Francia, con il conseguente ritorno in prima pagina delle vicende della frontiera italo-francese. In particolare, è stato lo sbarco dei 230 naufraghi salvati dalla nave Ocean Viking di Sos Méditerranée, avvenuto venerdì 11 novembre nel porto di Tolone, a scatenare il botta e risposta tra il governo italiano e il ministro dell’interno francese Darmanin. Mentre le persone venivano portate in una “zona di attesa internazionale”, eccezionalmente creata nei pressi di Tolone, per l’identificazione e la verifica dell’ammissibilità delle richieste d’asilo, il ministro di Macron annunciava la ritorsione nei confronti di Roma per la mancata apertura dei porti: la fortificazione del confine di Ventimiglia, con lo schieramento di 500 agenti, e la sospensione della ricollocazione di 3.500 rifugiati provenienti dall’Italia. Se da una parte è evidente il razzismo esplicito del governo italiano, dall’altra emerge l’ipocrisia dell’Eliseo, che etichetta come “disumane” le scelte del nuovo esecutivo Meloni ma risponde a colpi di gendarmerie. Ancora una volta, è geopolitica sulla pelle delle persone. Il racconto che segue, scritto dalle attivistə di Progetto20k, mette in luce la violenza strutturale operata tanto dalle autorità italiane che quelle francesi sul confine di Ventimiglia. Violenza che sappiamo non nasce oggi: da anni le guardie di frontiera transalpine respingono quotidianamente le persone in transito, facendo del confine Ventimiglia-Menton, come di quello alpino, luoghi di violenza sistematica e diritti negati.
A Ventimiglia la violenza, il razzismo e la criminalizzazione strutturale non sono mai diminuite dalla “chiusura” del confine italo-francese nel 2015, quando l’Unione Europea creò la “crisi migratoria” per giustificare le proprie politiche razziste e sessiste in tema di frontiere e visti.
Negli ultimi anni abbiamo visto come lo Stato si è dimostrato sempre più assente in termini di sostegno e inclusione per le persone in transito o richiedenti asilo a Ventimiglia: per esempio, nel 2020 è stato chiuso il campo croce rossa, obbligando centinaia di persone a dormire in strada marginalizzate dal centro commerciale e turistico della città. In questo quadro, gli abusi da parte delle autorità aumentano.
L’insediamento del governo Meloni promette di esacerbare xenofobia e repressione contro le persone in movimento e marginalizzate, in una società suprematista e segregazionista come quella italiana. Gli invocati “blocchi navali” e i tentativi di respingimento collettivo delle persone salvate dalle navi umanitarie ne sono stati una dimostrazione concreta nelle prime settimane di attività dell’esecutivo. Proponiamo quindi un aggiornamento sulla situazione attuale di Ventimiglia, sperando di darne visibilità e denunciare le istituzioni responsabili delle politiche di segregazione razzista.
Osserviamo quotidianamente la gravissima connessione tra Ventimiglia e i centri di detenzione per il rimpatrio (CPR). Gravissima perché a Ventimiglia l’alta militarizzazione della frontiera contribuisce a criminalizzare le persone senza documenti, provenienti soprattutto dal Nord Africa, aumentando così il rischio di detenzione ed espulsione attraverso i CPR.
Come è accaduto anche nel 2016, con gli autobus che deportavano le persone verso il centro hotspot di Taranto, durante la pandemia il Comune ha emanato un’ordinanza per il “decoro”, la quale abilita le pattuglie miste a fare rastrellamenti in città. I rastrellamenti consistono nella richiesta di documenti verso le persone costrette a dormire in strada, e producono arbitrarie identificazioni e successive detenzioni.
Nella scorsa settimana ci sono state 30 persone detenute, di cui 11 trasferite al CPR di Torino. Molte persone identificate e detenute avevano già iniziato la pratica di richiesta asilo ma comunque, in alcuni casi, viene notificato un foglio di espulsione. Questo fatto evidenzia ancora una volta l’arbitrarietà e l’abuso di potere della pratica dei rastrellamenti.
Il quadro generale di violenza istituzionale si esprime in forme e pratiche diverse sia a livello interno che esterno. A livello nazionale, gli hotspot e le navi quarantena – ora finalmente soppresse – sono un esempio: alle richieste di asilo di persone provenienti da Paesi considerati “sicuri” dal governo italiano, viene assegnata la procedura accelerata per l’esame della domanda, la quale comporta il quasi diretto rifiuto della protezione, la probabile detenzione nei CPR e la deportazione nei paesi di origine. Questi sono considerati come “sicuri” solo allo scopo di esternalizzare le frontiere. È una espressione di violenza istituzionale non considerare le realtà di crisi economica, ingiustizie sociali, forte repressione e instabilità politica presente in quei territori.
Tuttavia, LA attuale PresidentA del Consiglio italiano continua a riprodurre il discorso xenofobo per cui c’è una netta distinzione tra rifugiati vittime di persecuzione e “migranti economici”. Vogliamo però sottolineare come, tanto i discorsi di Giorgia Meloni, quanto la normativa che prevede questa distinzione nella Convenzione di Ginevra del 1951, non rispondono alla realtà di povertà, violenza e mancanza di dignità umana che si vive in tanti Paesi considerati sicuri, realtà determinata e voluta dalla storia coloniale passata e attuale. E vogliamo sottolineare come gli Stati europei abbiano la responsabilità di garantire condizioni di vita dignitose, libertà di movimento e diritti alle persone che cercano una vita sicura in Europa. Vediamo una stretta connessione tra colonialismo europeo, sfruttamento delle risorse e instabilità politica ed economica che obbligano le persone alla migrazione. La realtà di sfruttamento coloniale si riproduce anche dentro l’Europa “dei diritti”, diritti a cui nessuna persona razzializzata può accedere, se non con enormi difficoltà e trovandosi comunque in un contesto di razzismo istituzionale perpetrato costantemente con molteplici forme e strumenti.
Oltre alle violenze sistematiche per chi vuole attraversare liberamente i confini “aperti” (solo per persone bianche o ricche con documenti oppure alle merci) dell’Europa di Schengen, ci vogliamo soffermare anche sulle violenze sistematiche nella ricerca di stabilità e autodeterminazione che le persone con o senza documenti soffrono a Ventimiglia, come in tutta Italia, a causa del razzismo strutturale istituzionale e della società. Se a Ventimiglia i rastrellamenti, la deportazione e la violenza di confine continuano e aumentano, la situazione sta cambiando per chi decide di rimanere in Italia. Forse a causa della grande militarizzazione del confine tra Ventimiglia e Menton (prima città francese dopo la frontiera), o forse a causa delle migliaia di frontiere interne che le persone devono superare una volta giunte in Francia o in altri paesi europei, rispetto agli anni passati, oggi molte più persone che arrivano a Ventimiglia decidono di fermarsi e procedere con la richiesta d’asilo presso la questura di Imperia.
Infatti, in quei luoghi marginalizzati dal comune e dalla cittadinanza dove sono costrette a stare le persone e dove si creano spazi di solidarietà – come sotto il ponte dell’autostrada e nel parcheggio della distribuzione di fronte al cimitero -, prima incontravamo per la maggior parte persone in transito. Oggi, invece, incontriamo in misura maggiore persone che hanno fatto richiesta d’asilo ad Imperia e che per le lunghe attese e i silenzi da parte delle istituzioni sono costrette a dormire in strada.
Al momento vediamo un calo delle transitantə anche rispetto al periodo estivo. I fattori che influenzano questo dato sono molto vari e poco controllabili: da un lato dipende da guerre, crisi e dall’accrescersi della miseria nel sud globale; dall’altro lato anche dalla grande precarietà di Ventimiglia che spinge tante persone in transito a non fermarsi e a lasciare la città subito dopo aver subito un pushback (i numeri dei respingimenti continuano ad essere alti e preoccupanti). Chi rimane invece, non è solo nel limbo del confine fisico, ma anche nel limbo causato dalle istituzioni locali rispetto ai diritti che spetterebbero allə richiedentə asilo.
Di questo limbo e del ciclo di violenze e marginalità in cui sono bloccate lə richiedentə asilo, ci parlano sempre le persone che attraversano l’infopoint Upupa a Ventimiglia.
Le attività che svolgiamo nell’infopoint stanno cambiando insieme al contesto di Ventimiglia. A Upupa cerchiamo di creare uno spazio di informazione, incontro, supporto, auto organizzazione e creatività. Le lezioni di italiano, la ricarica di telefoni, i momenti di assemblea politica, l’accesso in molte lingue a informazioni sul territorio e sulla protezione in diversi paesi e la creazione di un luogo di incontro e confronto dove prendere il caffè insieme tutti i pomeriggi, sono gli strumenti che stiamo trovando per contribuire all’autodeterminazione e alla lotta per i diritti all’alloggio e all’accesso al lavoro. Diritti negati che preoccupano le persone che qui incontriamo ogni giorno.
Anche se le posizioni politiche e i punti di vista tra tuttə sono ovviamente diversi, c’è una realtà che le accomuna. Le esperienze riportate sono state espresse in un momento condiviso a Upupa e sono riprodotte in forma anonima.
«Voglio mettere in risalto la complessità della nostra situazione, è tutto un circolo collegato, le problematiche sono tutte connesse. Inizio a parlare di lavoro, te lo devi cercare in autonomia; lo stato non c’è per darti appoggio e rete, ma è uno stato di paura e di fobia. La condizione di alloggio resta precaria, non puoi trovare stabilità, la nostra vita qui è collegata, abbiamo tutti problemi comuni: andare alla Caritas, caricare i cellulari, cercare vestiti. È una vita precaria che accomuna tutti. Le storie sono comuni e politiche. Sono uguali dappertutto».
La precarietà a cui le persone sono legate in questo circolo è direttamente causata dall’assenza di risposte da parte delle istituzioni e del sistema di accoglienza attuale, che continua a riprodurre marginalità invece che dare possibilità: «Ti fanno aspettare mesi, durante lo step successivo della pratica comunque manca qualcosa per iniziare un percorso autonomo. Anche quando trovi modi e forme per farti due soldi comunque non basta, hai l’intenzione di imparare e formarti per farti il tuo percorso, ma non basta. lo stato ci blocca non dandoci lavoro, che è l’unica forma per non dipendere dalle istituzioni di sostegno che non funzionano, ci blocca non dandoci il lavoro».
Legate al sistema di accoglienza e alla mancanza di possibilità per l’autonomia ci sono state altre riflessioni: «Ho una domanda a cui voglio risposta. Perché la gente che vuole chiedere asilo deve aspettare 3 mesi sotto un ponte? La seconda domanda è: quando ti danno i documenti perché dopo il primo campo ti ritrovi di nuovo per strada? Perché è tutto collegato? Se vuoi lavoro devi avere un indirizzo ma se hai lasciato il centro non puoi avere lavoro? Sia qui che nelle grandi città, non sono più solo le persone senza documenti ma sono anche quelle con documenti che non hanno supporto nel trovare soluzioni, lasciate da sole senza lavoro nè possibilità, dormono per strada e sono esposte a grandi fattori di rischio per la loro vita. Servono percorsi di formazione per dare alle persone più possibilità di formarsi e autogestirsi, non solo non si dà formazione ma ci lasciano per strada, siamo criminalizzati, marginalizzati. Veniamo guardati dalla gente che vive nelle case, e restiamo come soggetti di sguardo altrui senza inclusione e marginalizzati».
«La precarietà è voluta e sistemica, e imposta così che tu sia facilmente in balia. Dov’è l’umanità, dove sono i diritti di cui tanto si parla. Guardando ciò che esiste, i centri di accoglienza non sono idonei, camerate con 35 persone, Dublino: lo stato che ti rimanda in un altro stato che non può provvedere a te, parlando dei piani di accoglienza sprar ti propongono posti isolati, parlano di integrazione ma non hai possibilità di incontrare nessuno, sei isolato. Mi chiedo a cosa serve tutto questo».
Si vuole esprimere con fermezza la necessità di istituzioni che diano risposte sostenibili e strutturali e non che creino disperazione nell’attesa e dipendenza verso associazioni umanitarie: «Io come altre persone ho deciso di fare richiesta qui. I tempi di attesa che mi hanno garantito non sono stati rispettati, mi avevano detto che erano due mesi e poi avrei avuto ciò di cui ho bisogno per vivere. Il tempo è passato ed è andato ben oltre le tempistiche che mi avevano anticipato e il tempo continua ad andare avanti, e nessuno è in grado di dare delle certezze sui tempi di attesa, e quindi sei obbligato ad andare nelle associazioni umanitarie a chiedere ogni giorno se ci sono novità. In più una cosa più personale è legata al forte dolore che ho alla schiena che non mi permette di dormire, non solo dormo per strada ma dormo per strada con forti dolori. Quello che fanno le associazioni umanitarie è darmi una pastiglia al giorno che io prendo la sera, ma in tal modo io sono legato a loro, devo fare la lunga fila tutte le mattine e chiedere per favore di avere la pastiglia. Io continuo a chiedermi perché devo tornare da loro? Perché devo dipendere da un’associazione umanitaria?».
È chiaro che non è solo l’Italia responsabile di questa violenza strutturale attuata dalle istituzioni, ma è un sistema più ampio collegato all’Europa e ai fondi per la “cooperazione”: «L’Unione Europea dà dei fondi agli stati in base al numero di persone richiedenti asilo e rifugiati. L’immagine che quello che ci arriva sia dovuto alla gentilezza di qualcuno a me non va bene. Portano più soldi dove ci sono più rifugiati ma a noi non arriva niente, ci troviamo a dover andare nelle associazioni umanitarie a chiedere per favore per mangiare. Visto che i soldi arrivano all’Italia per il mio essere qui voglio almeno essere libero di decidere cosa farne».
Il sistema di Dublino, ossia la normativa contenuta nel regolamento Dublino III (Regolamento UE n. 604/2013), incide ulteriormente e negativamente sui diritti delle persone in transito. Il sistema europeo, generato da un pensiero razzista che vuole bloccare e gestire le persone migranti identificandole come soggettività da reprimere e neutralizzare, nega la libertà di movimento e l’autodeterminazione. Costringe le persone a dover attendere tempi biblici in condizioni disumane in Paesi in cui non c’è volontà di rimanere, per poter (forse) ottenere un documento che permetterà di rimanere in Europa precariamente, spesso senza garanzie future di poter spostarsi e vivere liberamente come un cittadino europeo.
Questa impronta europea ha lo scopo di generare la consapevolezza nei soggetti razzializzati di essere in un luogo dove non si è accettati e perché loro avranno sempre un ruolo subalterno rispetto ai “veri” cittadini. Ciò si palesa anche nel fatto che i Paesi di primo arrivo, già di per sé senza alcuna volontà di creare strutture che facilitino l’arrivo e la permanenza nel proprio territorio (si veda l’esempio italiano), si ritrovano a ricevere un supporto quasi nullo da parte degli altri Stati europei e dell’Unione. La necessità di far sentire malvolutə chi arriva è evidentemente superiore alla tanto decantata solidarietà dell’Europa, sedicente faro e guardiana dei diritti.
«Non c’è una vera libertà di movimento tra i vari stati perché la tua pratica ti lega allo stato delle impronte, Dublino. In Italia l’unica cosa sono i permessi di soggiorno, di 6 mesi rinnovabili, mentre in altri stati in nord Europa oltre al permesso di soggiorno ti garantiscono un sistema di accoglienza che prevede la casa, dei percorsi di inserimento lavorativo ecc. In Italia l’unica cosa garantita sono i permessi di soggiorno che sono insufficienti e non bastano a trovare lavoro perché manca sempre qualcosa che ti permetta realmente di poter accedere al mondo del lavoro per autogestirsi e migliorare la tua condizione. Anche spostandosi sai che sei legato allo stato di arrivo e i tuoi sogni di migliorare la situazione si sgretolano. In altri stati europei danno una serie di servizi che rispondano a diversi bisogni perché tu possa essere utile alla società e farne parte in maniera attiva e autonoma. Quello che succede qui invece è che la situazione è completamente ribaltata per cui vai in giro in cerca di soldi per sopravvivere e dormi per strada e quello che vogliono e che tu continui ad avere bisogno di tutto, a non essere autonomo, a non avere soldi e a lottare giorno per giorno per sopravvivere, vogliono che tu stia in basso».
«Ti fanno sentire come se fosse colpa tua che non hai un indirizzo, non hai una casa per cui non puoi avere lavoro, è una contraddizione continua».
«È chiaro che tutte le persone che decidono di allontanarsi dal suo paese che si trovano nelle condizioni di migrazione sanno che si trovano in una posizione difficile e che troveranno un percorso difficile. È anche vero che tanti di noi non hanno altra scelta alla migrazione, viste le condizioni di grande oppressione, di rischio per incolumità, si parla di omicidi, di situazioni di morte per cui andare via dal paese è l’unica alternativa per sopravvivere. Anche se non è una scelta libera quella di andare via dal paese, comunque sappiamo che non sarà per niente facile quello che verrà. Ad accompagnarci in questo viaggio migratorio ci sono le informazioni e immagini sui mass media su quello che può succedere in altre parti. Si parla di uguaglianza, di libertà, di diritti che però una volta che arrivi in questo territorio, dopo che hai rischiato e nel percorso hai messo in condizioni di grande rischio la tua vita, sono valori e ideali che poi non trovi. Sul tema delle storie personali tutti noi abbiamo una storia, scappiamo e ci troviamo in condizioni di sofferenza forte. Basta guardarsi attorno in questo infopoint e le persone hanno disegnato immagini di una barca che sta per affondare, rischiosa che non ti dà la sicurezza, vedi l’immagine di una persona che piange, di cosa dobbiamo parlare? della sofferenza di ognuno di noi? non serve a niente metterla sulle sfortune a livello personale, serve concentrarsi sull’unico piano di lotta che è quello politico e legale perché sulla carte abbiamo dei diritti che non riusciamo a prendere e quindi se non ci si muove su un piano legale non si riesce a determinare nessun cambiamento positivo».
Attraverso queste testimonianze vogliamo visibilizzare tutte le dinamiche strutturalmente oppressive e violente per le persone in transito e razzializzate in questo paese e continente. Vogliamo continuare ad aggiornare su una situazione che mano a mano sta peggiorando, visto l’espandersi del mercato economico che fa profitti dalle frontiere, l’aumentare della militarizzazione e della repressione sul confine e in tutto il territorio nazionale.
Cos’é Upupa, l’infopoint autogestito da Progetto20k?
Uno spazio di informazione, incontro, supporto, auto organizzazione e creatività!
L’Infopoint Upupa – un uccello migratore, portatore di meravigliosi significati di rinascita e pace in molte culture – è uno spazio di supporto, solidarietà, connessione e mutuo soccorso per tutte le persone di Ventimiglia e di passaggio.
Nasce con l’obiettivo di supportare e rispondere alle varie esigenze delle persone in transito che arrivano e attraversano il territorio di Ventimiglia che non trovano accoglienza adeguata nelle strutture istituzionali, e al contempo di creare uno spazio di incontro fra collettività, comunità e singol* che quotidianamente condividono le geografie della città.
Il progetto è autofinanziato da Progetto20k, con il supporto e l’impegno di altre realtà solidali.
Progetto20k è un collettivo politico, orizzontale e autogestito, che dal 2016 lotta contro il sistema di violenze razziste, capitaliste e patriarcali incarnate dal dispositivo frontiera sul territorio di Ventimiglia.
Se volete collaborare per il mantenimento dello spazio Upupa a Ventimiglia potete farlo attraverso il crowdfunding:
https://www.gofundme.com/f/aiutaci-a-supportare-le-persone-in-transito/widget/large/
14/11/2022 https://www.meltingpot.org
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