Verónica Gago: «L’antifemminismo dell’estrema destra non è soltanto una guerra culturale»
Filosofa, attivista femminista ed esponente del collettivo Ni Una Menos. «Come è riuscito il neoliberismo a far entrare la logica del sacrificio all’interno del linguaggio comune?», si chiede in questa intervista nella quale riflette sulle ragioni dell’antifemminismo programmatico dell’estrema destra e della mascolinizzazione della politica istituzionale
«Il governo crea un antifemminismo di Stato che mira a combattere il movimento femminista sia nelle piazze che nelle politiche pubbliche e nelle istituzioni femministe». Questa caratterizzazione ci viene da Verónica Gago, filosofa, politologa e attivista femminista. «Oggi, sui femminismi viene condensata la figura del capro espiatorio sociale: non si tratta soltanto di una guerra culturale ma ha a che vedere con la radicalità politica del femminismo e alle trasformazioni sociali da esso promosse», afferma la ricercatrice.
In questa intervista, realizzata per il podcast Los monstruos andan sueltos [I mostri girano liberi, podcast sulle nuove destre realizzato dalla rivista argentina “elDiarioAR” in collaborazione con CLACSO, Consiglio Latinoamericano delle Scienze Sociali – ndt], Verónica Gago analizza la portata di quella che definisce «restaurazione patriarcale» e fa riferimento al processo di mascolinizzazione della politica: «Da componenti politiche alleate si continua a colpevolizzare i femminismi per i progressi dell’estrema destra».
Se guardiamo all’estrema destra emergente in questo momento storico, qual è la novità o la particolarità di questo neoliberismo dal basso, come lo definisci nei tuoi lavori?
La novità radicale del neoliberismo è che si tratta di una forma di governo che, invece di chiedere obbedienza, si basa sulla libertà. In termini di teoria politica classica, governare significava ottenere l’obbedienza delle persone. La svolta messa in atto dal neoliberismo è cominciare a dire che per governare dobbiamo fare in modo che ognuno coltivi la propria libertà. Questo è un cambiamento a livello di soggettività politiche. Un conto è dire: va bene, obbedisco, non obbedisco oppure organizzo la disobbedienza. Un’altra cosa è che l’idea stessa di essere governato abbia a che fare con l’idea della propria libertà. Questo spostamento dell’asse di governo dall’obbedienza alla libertà rappresenta una novità radicale, perché riesce ad associare la libertà all’individualismo estremo. Prima, il concetto di libertà era legato a un progetto collettivo, mentre quello che ottiene il neoliberismo in questa fase è una vaga definizione circoscritta unicamente all’interno dei confini dell’individuo. L’illusione è che questo individuo libero sia governato o governabile.
Se combiniamo la crescente precarietà e l’esclusione sociale con questa idea di individualismo estremo, il messaggio potrebbe essere che non c’è via d’uscita dalla crisi, trovatevi la vostra…
Esattamente, perché questa idea di libertà individuale stimola allo stesso tempo una propensione al fare. Nella narrazione dell’estrema destra, questa eccitazione per la potenzialità del fare è molto forte ed è il motore trainante di questa espansione del neoliberismo dal basso. Quindi, se ricevi un sussidio sociale stai ammettendo che non sei capace, che hai bisogno di un aiuto, che sei una persona indifesa e in ogni caso ti lasci vittimizzare dallo Stato. Questa è la narrazione che è riuscita a diffondersi al posto dell’affermazione che si tratta di diritti conquistati. Questa sconfitta riguarda il modo in cui vengono percepiti i diritti oggi. Quindi, la storpiatura messa in campo da questi ideologi che ordiscono strategie su come stimolare le persone è che bisogna parlare a quegli oppressi che, nonostante tutto, sentono di avere qualcosa da perdere. Questo è il modo per dare inizio alla contrapposizione tra alcuni settori sociali depauperati e altri. Storicamente, quando il pensiero emancipatore sostiene che bisogna provare fastidio, furore e rabbia nei confronti di chi ci priva di ciò che è nostro e che questa rabbia va dal basso verso l’alto, questi ideologi riescono a fare in modo che questa furia venga dispersa orizzontalmente. Allora il desiderio di progresso, che è legittimo, viene strumentalizzato e prende piede tutta una serie di fenomeni per cui i sentimenti di odio, frustrazione e risentimento non raggiungono mai il potere.
I femminismi sono stati sbattuti nel posto del nemico politico e costituiscono una parte centrale della guerra culturale portata avanti dall’estrema destra. Come analizzi questa definizione programmatica delle nuove destre?
C’è sempre stato un elemento misogino nei fascismi storici, ma quello che vediamo in questo momento è che ha raggiunto un’importanza mai vista nella costruzione della figura del nemico interno, del capro espiatorio. I femminismi di oggi condensano quella figura e penso che questo abbia a che vedere con i progressi e le esperienze di trasformazione sociale degli ultimi anni, di cui le lotte femministe sono state protagoniste. In America Latina in particolare, sono riuscite a entrare in sinergia con lotte popolari, sindacali, indigene e contro l’estrattivismo. Il percorso dei femminismi ha resistito all’irreggimentazione in quelle che potremmo definire soltanto come agende di genere. Le hanno travolte. Ad esempio, se pensiamo alle rivolte sociali in Cile o in Colombia del 2018 e del 2019, i collettivi femministi avevano stretto un forte legame con le rivolte mostrando articolazioni politiche innovative. I femminismi si chiedono ormai anche come gestire la precarietà e la violenza delle condizioni attuali in un modo che non sia individualistico o autoritario. Credo che questa sia la grande scommessa che le lotte femministe hanno fatto negli ultimi anni e in questo senso si pongono in diretta competizione con la proposta di soluzione delle nuove destre, che sostengono che l’unico modo per affrontare la crisi è di darsi da fare in quanto individuo proprietario machista e, se riesci ad armarti e uccidere chi ti sta accanto, tanto meglio.
Vuoi dire che, sulla scia di autrici come Wendy Brown, ritieni che l’antifemminismo dell’estrema destra non sia soltanto una guerra culturale?
Assolutamente. Non mi sembra che l’antifemminismo sia una questione culturale o puramente ideologica o che non abbia radici nelle questioni materiali che queste lotte femministe mettono in discussione. Ecco perché l’estrema destra risponde, come nel caso del nostro attuale governo che pratica un antifemminismo di Stato mirato a combattere sia il movimento femminista nelle piazze che le politiche pubbliche e le istituzioni femministe. Questo antifemminismo promosso e legittimato dallo Stato è anche ciò che attribuisce un’ulteriore caratteristica alla violenza antifemminista.
Oltre adessere contro i diritti, tutti i segnali che vengono dal governo vanno nella direzione di contestare un altro ordine, di voler ripristinare un ordine familistico e conservatore…
Il fatto che le destre siano reazionarie non implica che non abbiano un programma propositivo. Come dici tu, è proprio qui la questione relativa al concetto della restaurazione patriarcale espresso da Judith Butler, secondo cui il termine reazione è troppo limitato. Quello che affermano queste nuove destre è che c’è stato un tempo idilliaco precedente, che è stato il tempo del patriarcato, e che bisogna tornare a quello.
Come descriveresti questo tentativo di restaurazione?
Penso che ci sia un’idea di restaurazione molto forte secondo la quale l’autorità deve essere chiara e precisa e attribuita alla figura paterna maschile, e nella quale i privilegi hanno un qualche fondamento di tipo biologico. Esistono quindi diverse visioni del mondo che sembrano promettere stabilità di fronte all’insicurezza quotidiana. Questo è quello che l’estrema destra riesce a spiegare meglio con la sua promessa di stabilità: «Abbiamo un’idea di ordine. Le cose torneranno al loro posto, verranno ordinate, tutti sapranno cosa devono fare e questo è sarà anche un ordine naturale».
C’è un nucleo molto attivo, potremmo dire un nucleo emotivamente molto forte, di giovani maschi che sostengono l’estrema destra. È un fatto concreto anche in Argentina. Si tratta di un fenomeno complesso, perché non tutti hanno posizioni conservatrici e molte volte il nucleo più reazionario e violento appare sovrarappresentato. Che lettura dai di queste mascolinità che, per giunta, sono state contemporanee anche alla Marea Verde [campagna di mobilitazione per la legalizzazione, il cui simbolo è un pañuelo verde – ndt ]?
C’è una reazione proprio alla destabilizzazione che il movimento femminista ha generato nelle mascolinità, soprattutto in quelle altamente precarizzate. Penso che sia proprio qui che si possano individuare gli effetti dei femminismi: come ripensamento dei legami sessuo-affettivi, come ripensamento sui privilegi della mascolinità e come tutto questo si interseca con un declino della figura maschile in quanto responsabile del sostentamento economico della famiglia. L’insieme si amalgama in una maniera che lascia questi giovani disorientati, destabilizzati e spesso pieni di risentimento. Lo abbiamo visto quando dicevano che adesso non si sa più come ci si deve comportare, che non si può più dire nulla o che, se lo si dice, si verrà censurati. Ovvero, un’insicurezza che ha posizionato il femminismo anche come una sorta di forza morale, ma il femminismo non è questo. È un movimento che rompe i privilegi e ci costringe a ripensare i legami. Quindi, ci sono molte cose su cui continuare a lavorare. Perché ci sono comunque tanti giovani che sono femministi, tanti uomini che pensano e hanno già una sensibilità impensabile dieci anni fa, che hanno vissuto quel periodo e la cui esperienza è piuttosto quella di sentirsi a proprio agio nel liberarsi dei dettami della mascolinità.
Esistono oggi nel mondo figure di leadership ricoperte da donne di estrema destra, da Marine Le Pen a Giorgia Meloni. Queste leader ci dicono che non esiste disuguaglianza e vengono presentate come prova dell’empowerment delle donne. Nel nostro Paese, l’altra faccia della medaglia è quella di una scena politica molto mascolinizzata, anche all’interno degli spazi progressisti. La vedi così?
Penso che sia molto importante sottolineare che questa rimascolinizzazione della politica che vediamo in Argentina non è un fenomeno esclusivo né della destra né dell’ultradestra. I settori progressisti nazional-popolari hanno sostenuto la tesi che attribuiva al femminismo la colpa dei progressi dell’estrema destra. Che sia ben chiaro, questo è stato il passo necessario per la mascolinizzazione della politica.
Se guardiamo al di fuori dell’Argentina, in Messico abbiamo per la prima volta una Presidente della Repubblica che si proclama apertamente femminista, Claudia Sheinbaum Pardo.
Ritengo che questo sia estremamente importante: pensare a questo conflitto anche a livello di leadership, perché come hai detto tu, da diversi anni la destra sta lavorando per produrre quadri dirigenti donne, proprio come forma di contestazione biologica al femminismo, dicendo che non tutte le donne in quanto donne saranno di sinistra, progressiste, trasformative. Quindi il fatto che oggi alcune donne di destra portino avanti, ad esempio, rivendicazioni contro l’aborto, richieste di politiche a sostegno della natalità, razziste e antimigratorie o criminalizzino le proteste sociali, come nel caso dell’Argentina, cerca anche di essere una risposta al femminismo, come se il femminismo potesse essere smentito da queste leadership al femminile di destra.
Ci sono scene di vita sociale e politica che hanno la capacità di condensare un momento storico, che portano i segni di un passaggio d’epoca o di qualche soglia che viene varcata. Se dovessi scegliere un’immagine dell’Argentina di Milei, quale condivideresti con noi e perché?
Mi ha colpito molto la scena dei venditori che avevano stampato delle magliette con scritto no hay plata [non ci sono soldi – ndt], lo slogan di Milei ripetuto fino alla nausea. Mi sorge una domanda molto forte in relazione al desiderio di prosperità o di antiausterità espresso in genere dai movimenti o dalle lotte popolari. C’è un desiderio di espandere il godimento, il consumo, chiaramente contrario all’austerità. Milei riesce a trasformare queste frasi in magliette stampate come una sorta di introiezione dell’austerità. Quindi penso che se durante il governo Macri era stata instaurata la logica della meritocrazia, ci sia adesso una fase ulteriore che è quella del sacrificio. L’idea che ci dobbiamo sacrificare e limitare anche il consumo, la bella vita, il desiderio di ciò che vogliamo. Per me questa è un’immagine piena di interrogativi: come si passa da quella meritocrazia alla logica del sacrificio, come si riesce a far sì che una cosa del genere diventi linguaggio comune? Include anche il senso di colpa per quello che è successo e per ciò che si immaginava possibile. Porto questa immagine perché mi sembra che rifletta una particolarità molto forte dell’Argentina, che ha a che fare anche con il ruolo dell’inflazione o della quasi iperinflazione. Mi sembra che, in generale, il tutto venga analizzato come un fenomeno economico mentre si tratta di un fenomeno fortemente politico, perché l’inflazione è l’esperienza quotidiana della svalutazione permanente dei nostri sforzi individuali. Quindi mi sembra che ci sia un nodo importante per comprendere questa logica del sacrificio, del non avere soldi e anche dell’inflazione come logica di autodisciplina del desiderio e limitazione di quello che possiamo aspirare a fare o progettare per il futuro.
La ricerca da parte della politica di un copione proprio, che tenga conto delle profonde trasformazioni sociali e politiche accelerate dalla pandemia, continua a essere una questione in sospeso per i partiti e le forze politiche del campo popolare e progressista. Forse dobbiamo cominciare dalle domande, per poterne porre di nuove capaci di interrogare questo tempo di precarietà e di crisi.
Credo che il compito dei movimenti sia quello di produrre domande. La cilena Julieta Kirkwood [tra le fondatrici del movimento femminista locale negli anni ’80 – ndt] aveva questo modo di vedere il movimento femminista in Cile come un movimento fondamentale per la democrazia. È un modo molto bello di pensare e raccontare un movimento, non solo a partire da ciò che ha fatto o che ha detto, ma piuttosto dalle domande che è riuscito a sollevare come interrogativi collettivi. Quindi pensare che il compito politico sia costruire e porre domande che ci mettano in tensione, che ci portino al limite di cosa siamo capaci di pensare, dire e fare, è un compito fondamentale. Una questione centrale è come riuscire ad appropriarci della ricchezza collettiva, come liberare forme di uso del tempo e come questo produca altre soggettività che in termini di stati d’animo, capacità affettive, oggi sono completamente afflitte da forme di depressione, angoscia, paura e incertezza . Credo che l’autostima delle persone sia fondamentale. Quando torniamo indietro nella storia a quei brillanti momenti di popolo, abbiamo visto che c’è stata un’enorme produzione di autostima popolare e collettiva. La convinzione di meritare delle cose, che fosse possibile fare certe cose, che ci fosse una dignità che avdvamo meritato.
Quindi la domanda ha a che fare con l’audacia, con la capacità di non rinunciare all’immaginazione?
Sì. Con l’audacia e con il recupero e la riappropriazione dei movimenti che generano autostima popolare: credere che meritiamo le cose in termini collettivi e non nei termini di questa meritocrazia individualistica che alla fine non fa altro che distribuire angoscia.
Per quanto riguarda i femminismi, quale domanda lanceresti?
La domanda ora è cosa significa e come sostenere gli spazi collettivi. Perché in un momento di ebollizione, di gioia generale, è più facile attraversare e sostenere gli spazi collettivi. Quindi, quando le condizioni sono così avverse, per me la questione è come sostenere gli spazi collettivi che sono fondamentali per poter pensare in termini di processi e non di eventi isolati. Comprese le posizioni di ripiego, dove è necessario mantenere spazi collettivi.
«Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri». La citazione è di Antonio Gramsci e descrive un momento di passaggio in Europa a metà del XX secolo. Ti fa pensare al nostro tempo?
La frase mi risuona nel senso che c’è qualcosa di nuovo e siamo sull’orlo di un cambiamento storico. Sento molte persone dire che non avrebbero mai pensato di vivere una cosa del genere o che non avrebbero mai pensato di riviverlo di nuovo. Quindi penso che, al momento, ci sia la sensazione abbastanza generalizzata di uno spartiacque storico. Questo è anche ciò che ci stupisce un po’, che non si possa mettere una toppa o cercare una soluzione più o meno intermedia perché il livello di trasformazione e di crisi del capitalismo è davvero molto forte, e il capitalismo, nella sua crisi, diventa sempre più violento e aggressivo per cercare di rilanciarsi e allo stesso tempo accentra in qualche modo l’intero concetto di innovazione. Lo vediamo anche nell’estrema destra: noi siamo la rivoluzione, cambieremo tutto, nessuno ci fermerà. Tutto il linguaggio rivoluzionario della trasformazione e dell’audacia è ciò di cui cercano di appropriarsi, perché è proprio questo linguaggio e questo atteggiamento che sembra essere all’altezza del momento che stiamo vivendo. Quindi, in questo senso, mi sembra che la frase ci riguarda perché siamo in un momento di scuotimento generale che ci impone esigenze e obblighi nei termini dell’audacia di cui abbiamo parlato prima. Non possiamo accontentarci di mezze misure, perché ci sono altri che saranno più audaci verso la direzione opposta alle nostre aspirazioni.
E i mostri? Perché il femminismo e il transfemminismo si sono appropriati della nozione di mostruosità…
– Semplice, per affermare che i mostri siamo tuttə noi. Si dice sempre che il mostro sia l’avvertimento divino, un messaggio che arriva dall’aldilà per dire che c’è qualcosa che davvero è foriero di novità. Quindi credo che il mostro sia ciò che non riconosciamo, che è sconosciuto e che non rientra negli schemi precostituiti a nostra disposizione per riconoscere l’esistente. Ecco dove risiede questa appropriazione del mostro, nel doppio senso di avvertimento e nel senso di rivendicazione della nostra capacità di uscire dagli schemi. Il mostro come resistenza ad avere una forma normalizzata, riconoscibile e, tuttavia, come monito. Pensare a come ci rapportiamo al mostro non solo a partire dalla paura, ma come possibilità di pensare che sia la novità che ancora non ha forma.
Ana Cacopardo
7/1/2024 https://www.dinamopress.it/
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