Versante Ripido. La rivista e la poesia del lavoro
La rivista di Poesia Versante Ripido, ha dedicato il suo ultimo numero on line alla poesia del lavoro. Mentre scrivo penso…
Una rivista di poesia… che cos’è una rivista di poesia? Tutti sappiamo cos’è una rivista di poesia, così come sappiamo che una mela è una mela, in astratto ed in concreto, vediamo la sua buccia, ma bisogna assaggiare le riviste di poesia con gli occhi, con la mente e con partecipazione, per poi capire cos’è una rivista di poesia… Versante Ripido? Come saranno le altre? È vero che una “redazione” non fa primavera…
Io ho un gusto particolare per le persone e le frequento poco. Io gusto la poesia di questa rivista con le persone che la abitano, poiché in fondo mi sono accorto che creare una rivista è creare un territorio, uno spazio per incontrarsi per ospitare chi viene da lontano, invitare gli amici e condividere progetti, così la cultura diviene cultura affettiva. Mi convinco che la rivista sia in fondo un dialogo, IL Dialogo… mentre leggo si anima e vedo esperienze.
La rivista esce sia on-line che in cartaceo, ma la sua forma è analoga ad una preziosa zattera. Traghetta ciò che nasce nell’intimo della persona che scrive, verso gli altri, verso la dimensione pubblica della fruizione. Così dalla sponda della creazione per sé, ci si trasporta all’altra sponda, dove la poesia scende a farsi conoscere e a vivere. La rivista si fa strumento di connessioni…
L’aspetto più interessante è l’invisibile viaggio tra le due sponde, che è l’esperienza della costruzione di questa piattaforma galleggiante, sulle acque di un fiume di parole, di aspetti culturali, organizzativi, di persone che fanno cose, la redazione, le amicizie, molti pensieri. Non so come sono finito anch’io in questo viaggio, mi sento trasportato e a volte si cerca di scendere, ma c’è sempre qualcuno che ti trattiene… allora capisci che è importante viaggiare insieme. Nominarsi, darsi un nome, il nome della rivista, si smiela la Parvenza di autoreferenzialità nella voglia di comunità, di essere e di dare contemporaneamente, per partecipare al mondo ci vuole un nome. Vorrei dare anche solo un’altra piccola Parvenza di ciò che succede, ma non ci riesco e preferisco farlo con le parole di Silvia Secco e la sua poesia, appunto…
Parvenza
Il pensiero si intrica
più veloce del corsivo
nelle trame della lingua.
Il canto lo renderebbe, forse
il canto; oppure un fiato.
Il battito delle ali
per un solo istante si mostra.
Interiorizzabile quasi…
Ma è solo parvenza.
Questo stile poetico tenace, ma fine di Silvia si fa lieve fune del linguaggio che lega le travi più dure e resistenti, il fasciame dei legni che ci fanno da sostegno, espressi per me dalla poesia di Francesca Del Moro, una poesia inedita, che VR ha portato sulla sponda visibile nell’ultimo numero…
La produttività vi difetta, hanno detto,
o popolo di eroi santi eccetera e navigatori.
Basta un click: trecento pezzi all’ora
per dodici ore per ventisei giorni
e se non ti sta bene quella è la porta.
Ho visto bei giovani con il pugno alzato
sull’autobus guardarmi dallo schermo.
Un 110 e lode – era sottotitolato –
vale uno sconto sull’abbonamento.
La densità poetica, lo stile e l’argomento trattato, creano, nella loro diversità, la possibilità di costruire lo spazio ospitante che ci sostiene. Questo è un esempio di ciò che si estende ai tanti partecipanti (diciamo imbarcati) all’esperienza editoriale e comunicativa.
Intanto però Francesca ci ha già introdotto con i suoi versi all’argomento centrale: il lavoro! Arriva, un’onda e mi spinge, perdo un po’ l’equilibrio… e per non cadere nel fiume, mi aggrappo alla spalla di un fondatore della rivista, Paolo Polvani. Lui si gira, mi sorride e, dato che l’ho già importunato, continuo… “Scusa Paolo, ma c’era proprio bisogno di una rivista? Non potevamo stare a casa, guardarci la partita? Dammi una risposta seria! Che a scherzare basto io”.
Paolo Polvani: Posso risponderti sulle motivazioni che ci hanno portato a fondare Versante ripido: ci ha spinto l’ambizioso obiettivo di avvicinare il potenziale pubblico della poesia alle sue forme e alle sue modalità espressive contemporanee. Siamo un gruppo di poeti che si riconoscono nel desiderio di proporre una poesia non soltanto agli addetti ai lavori, ma ad un pubblico più vasto, quel pubblico che è attratto dalla poesia, ma che nel contempo ne viene allontanato perché spesso le riviste on-line, i blog, i vari siti poetici , appaiono circoli chiusi, auto-referenziali con codici comunicativi esclusivi. La rivista si articola in un’offerta di testi poetici selezionati in base alla qualità e alla fruibilità, privilegiando l’impatto comunicativo.
“Grazie Paolo, ma perché in quest’ultimo numero si tratta proprio del lavoro?”
“Perché il lavoro è un aspetto importante della vita, ci accomuna tutti, costituisce non solo la base economica per la sopravvivenza, ma individua il nostro posto nel mondo e conferisce un senso alla nostra esistenza. Rappresenta uno dei settori della società che negli ultimi trenta o quaranta anni ha subito sconvolgimenti radicali e, altrettanto radicali sconvolgimenti, registrerà nei prossimi decenni. Lo sviluppo tecnologico riduce e ridurrà il numero dei lavoratori in maniera veloce e drastica. Ci interessava mostrare la curva, espressa in poesia, che ha accompagnato i profondi mutamenti della situazione del lavoro. La poesia si occupa della vita ed il lavoro rientra tra i temi sensibili trattati dai poeti. Ci sembra anche utile proporre una riflessione che riguardi le decisioni da prendere in futuro e se le innovazioni tecnologiche non siano da considerarsi come una meravigliosa occasione per liberare il tempo dalla schiavitù dal lavoro ed offrire una grande opportunità per vivere vite più realizzate e felici”.
“Sai Paolo… mi fai ricordare un breve sketch televisivo degli anni settanta, ambientato nel futuro, dove era stata inventata una macchina che componeva versi, con la quale il poeta professionista, ingaggiato per varie cerimonie, si facilitava il compito. Pensavo che con una macchina come quella si potrebbe far diminuire efficacemente il numero dei poeti, che sono già in quantità esorbitanti. Ma non credo”.
In fondo perché ci si definisce poeti? Non è certo come essere operai o amministratori delegati. Il poeta, può essere un lavoro, come nello sketch sopracitato? È forse un ruolo sociale? Un’identità personale e collettiva? È un modo sensibile di porsi alla vita? Può il poeta esserlo senza scrivere nulla?
Direttamente dal paradiso dei poeti ho riesumato il grande Vladimir, sulla zattera ci chiamiamo tutti per nome anche con quelli che volano in cielo e ci atterrano addosso, ancora una volta, con le loro grandi parole.
Il poeta è un operaio – di Vladimir Vladimirovic Majakovskij (1920)
Gridano al poeta:
“Davanti a un tornio ti vorremmo vedere!
Cosa sono i versi? Parole inutili!
Certo che per lavorare fai il sordo”.
A noi, forse, il lavoro
più d’ogni altra occupazione sta a cuore.
Sono anch’io una fabbrica.
E se mi mancano le ciminiere,
forse, senza di esse,
ci vuole ancor più coraggio.
Lo so: voi non amate le frasi oziose.
Quando tagliate del legno, è per farne dei ciocchi.
E noi, non siamo forse degli ebanisti?
Il legno delle teste dure noi intagliamo.
Certo, la pesca è cosa rispettabile.
Tirare le reti, e nelle reti storioni, forse!
Ma il lavoro del poeta non è da meno:
è pesca d’uomini, non di pesci.
Fatica enorme è bruciare agli altiforni,
temprare i metalli sibilanti.
Ma chi oserà chiamarci pigri?
Noi limiamo i cervelli
con la nostra lingua affilata.
Chi è superiore: il poeta o il tecnico
che porta gli uomini a vantaggi pratici?
Sono uguali. I cuori sono anche motori.
L’anima è un’abile forza motrice.
Siamo uguali. Compagni d’una massa operaia.
Proletari di corpo e di spirito.
Soltanto uniti abbelliremo l’universo,
l’avvieremo a tempo di marcia.
Contro la marea di parole innalziamo una diga.
All’opera! Al lavoro nuovo e vivo!
E gli oziosi oratori, al mulino! Ai mugnai!
Che l’acqua dei loro discorsi
faccia girare le macine.
Ma sulla rotta di questo traghettamento, ho incontrato l’amicoGianfranco Corona: mi ha sempre incuriosito la sua esperienza, dei tanti anni di fabbrica, e sinceramente, per certi aspetti, mi interessa più di Vladimir, poiché per Gianfranco, a mio avviso, potrebbe non interessare se il poeta è “come un operaio”, dato che lui, già da operaio, era poeta. Per questo trovo meravigliosa, questa sua testimonianza autobiografica, che ha scritto per il numero di VR sul lavoro.
Gianfranco: “Traducendo la mia particolare sensibilità in poesia e ciò che mi risuonava nella mente in versi, rafforzavo il mio sentirmi diverso: diverso per il fatto di essere un poeta in fabbrica e, per questo, dover essere interlocutore di un mondo sempre erroneamente immaginato per pochi eletti, ma certo lontano da quel luogo, dove o quasi nessuno si interessava a ciò che scrivevo e tantomeno tentava di esserne coinvolto. Nei miei versi degli anni ’70 erano presenti la protesta e le rivendicazioni che animavano la società e che stimolavano le mie grida silenziose. A 20 anni, studiando dopo il lavoro, sono arrivati il titolo di studio tanto sognato e nuovi sogni, scatenati da quella esperienza, con diversi stimoli e prospettive. Nel decennio successivo ho scritto poesia introspettiva ed i miei interessi sono stati tutti rivolti agli ambienti letterari, mentre in fabbrica organizzavo scioperi e parlavo di diritti dei lavoratori, visto che ero stato eletto rappresentante sindacale, carica avuta per 27 anni. I momenti in fabbrica emulavano e rappresentavano gli atteggiamenti di quel periodo storico: l’apatia e l’individualismo imperanti sono stati, negli anni 90, gli argomenti dei miei versi, così come il disagio di non avvertire segni di lotta e di voglia d’illusione organizzata. Nel 1995, dopo l’uscita della mia raccolta di poesie “I r-umori dell’anima”, per le Edizioni Firenze libri, per voce di autorevoli critici, ero un vero poeta del riflusso nell’epoca del narcisismo dell’anima; per me significava anche che ce l’avevo fatta, che la fabbrica non era riuscita ad esaurirmi né la vena poetica, né la voglia di scrivere.
Grazie Gianfranco, che ci fai partecipi di una parte della tua vita… e siamo quasi arrivati a destinazione, si intravede l’altra sponda del fiume. Ho fatto solo una citazione di poeti famosi, sono scarso a citazioni questa volta, la zattera non beccheggia come un’imbarcazione e passare attraverso un fiume non è come seguirne il corso. Ci sono le scuole, gli storici, i docenti, gli intellettuali, le università che fanno e seguono il corso dei flutti. Per questo ho usato la metafora della zattera, (non una chiatta che è già data e costruita) la zattera ce la si confeziona da soli e insieme, e come tale richiama un’avventura. La poesia, spesso, non si valuta per le competenze, la qualità, la funzione… ma per la sua “direzione”.
Enea mi passa le funi per l’attracco, funi che cominciamo a srotolare.Enea Roversi, anche lui poeta di lungo corso, anche se è un termine marittimo e non fluviale, mi supporta nel mio dubbio: “Che cosa avrò scritto in questo articolo? Poesia nel lavoro, il lavoro della poesia.. sono confuso!”. Così vedendomi mi fa dono delle sue parole già riportate sulla rivista, ma che ora, nella confusione del percorso, posso tenere accanto alle mie e leggerle con interesse in un momento di calma.
Scrive Enea:
“So che la poesia è indispensabile, ma non saprei dire per cosa”, diceva Jean Cocteau ed effettivamente ce ne rendiamo conto tutti che la poesia non salverà di certo il mondo, come qualcuno utopisticamente e ingenuamente immaginava, ma sappiamo altresì che è un elemento di cui non possiamo fare a meno.
Lo stesso Cocteau diceva anche: “Il poeta è un mentitore che dice spesso la verità.”, affermazione che rimanda inevitabilmente a questi celebri versi di Fernando Pessoa: “Il poeta è un fingitore. / Finge così completamente / che arriva a fingere che è dolore / il dolore che davvero sente.”
Ma il poeta è anche un artigiano della parola, che scava nel profondo: “Tra l’indice e il pollice / ho la penna. / Scaverò con quella” recitano i versi finali della celebre poesia Digging (Scavando), del grande poeta irlandese Seamus Heaney.
Proprio da qui, dallo scavo, possiamo partire per pensare alla poesia come lavoro: lavoro di ricerca e introspezione, ma anche rappresentazione dei tempi che corrono e scorrono. Poesia del lavoro e poesia sul lavoro: sui modi, i tempi e i cambiamenti del mondo lavorativo e delle condizioni dell’essere umano che lavora. Il tema del convegno che si è svolto quest’anno a margine del Premio Nazionale “Poesia senza confine” di Agugliano è La poesia del lavoro che cambia: dal proletariato al cognitariato”.
È piacevole vedere come ci si completa, durante un’attività comunitaria, sia col bello che col cattivo tempo.
Abbiamo attraccato, il viaggio è finito, è finito il tempo a nostra disposizione, ma questo viaggio della Rivista di Versante Ripido e del suo numero sul lavoro, finisce dall’inizio, ed incomincia ancora, con l’editoriale di Claudia Zironi, del numero citato, Claudia è poeta di forza primaria che ha dato origine a questo viaggio e alla rivista. L’editoriale è già poesia.
Non avere un tempo, “editoriale” di Claudia Zironi.
La cosa che più pesa è l’espropriazione del tempo proprio, come se non ne avessimo se non valesse che un lampo di fastidio
non foss’altro che una moneta di scambio completamente integrata nell’ingranaggio produttivo e consumistico.
Sempre di meno, sempre più veloce, per non pensare per non soffermarsi nemmeno a immaginare
un differente sistema, chinare il capo, porgere la mano o il cappello
vuoto per mendicare una settimana fuori dalla fabbrica, dall’ufficio, dal supermercato
e in quella settimana fare, fare cose, cose, cose, cosa, come, comprare,
acquistare, divertirsi, viaggiare, riempire e svuotare valigie, vedere gente, mangiare, bere, leggere, dormire, ballare, passeggiare, sorridere,
chiacchierare, scattare foto per il social, accudire i bambini, accudire gli anziani, abbronzarsi
con la protezione 50.
Poi
essere GRATI.
Di averla avuta una pausa, di avere avuto i soldi per farla come si conviene:
frenetica e produttiva.
Di LAVORARE.
Di dover mendicare il proprio tempo porgendo un cappello con la mano,
la stessa mano che lavora.
(ed eccolo Angelus novus indietreggiare chiudere gli occhi girarsi, chiuderla la mano…)
Di NON AVERE un tempo.
Ringraziare per quarant’anni e poi,
mai espiata la colpa, possibilmente
morire.
Arrivederci e buona lettura
Si può consultare la rivista on line su www.versanteripido.it/
Le edizioni cartacee di Versante ripido sono edite da Terra degli ulivi edizioni di Emanuele Scarciglia
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