Vi azzopperemo tutti! La campagna di gambizzazione contro la protesta palestinese.
Dal 30 marzo, nella Striscia di Gaza ha luogo ogni venerdì una mobilitazione popolare senza precedenti, chiamata la Grande Marcia per il Ritorno, che vede migliaia di palestinesi di tutte le età e fazioni politiche manifestare in modo nonviolento per il diritto al ritorno nelle terre da cui sono stati cacciati[1] e per denunciare le terribili condizioni di vita cui sono costretti nella più grande prigione a cielo aperto del mondo. La protesta intende continuare fino al 15 maggio, il 70° anniversario dell’inizio della Nakba (Catastrofe) palestinese.
Come risposta, il governo israeliano schiera sul confine decine di cecchini che sparano sulla folla proiettili veri, di gomma e bombe lacrimogene uccidendo, a tutto il 25 aprile, 40 persone e ferendone 5.511,[2] di cui 1.499 ricoverati in ospedali governativi.[3] Nonostante la maggior parte dei media, italiani e internazionali, presentino queste proteste come “scontri” tra due forze simmetriche, le manifestazioni avvengono a circa 500-700 metri dalla recinzione militarizzata con Israele, in cinque diverse località distribuite lungo la frontiera (Figura 1).
Figura 1. Morti e feriti palestinesi nelle dimostrazioni dal 30 marzo al 23 aprile.
L’uso di forza sproporzionata e letale non è certamente estraneo all’esercito israeliano, ma questa è la prima volta in cui i soldati sparano su folle di persone disarmate come in un macabro tiro al bersaglio. Il risultato è una vera carneficina che, come ha affermato il coordinatore umanitario, Jamie McGoldrick,[4] ha visto “nel corso dei quattro venerdì di manifestazioni, molti più palestinesi feriti nella striscia di Gaza rispetto al totale dei tre anni precedenti”. Non c’è dubbio che i morti e i feriti derivanti dall’azione dell’esercito israeliano contro i dimostranti civili eccedono enormemente quanto ci si potrebbe aspettare da semplici tentativi di controllare la folla. Rispetto al numero dei morti, inoltre, colpisce quello sproporzionato di feriti che riflette la natura mirata del fuoco israeliano rispetto agli intensi attacchi missilistici a Gaza nel 2014.
Oltre ai numeri, tuttavia, sta emergendo un aspetto nuovo e inquietante: il tipo delle ferite. Il gruppo palestinese per i diritti umani Al-Haq dichiara[5] di avere documentato, durante gli incidenti a Gaza, lesioni che indicano come le forze israeliane abbiano “deliberatamente preso di mira parti specifiche del corpo dei manifestanti, causando la morte o danni gravi e permanenti”. Oltre il 60% delle ferite interessa gli arti inferiori (Figura 2). Il 30 marzo 2018 il numero di ricoveri ospedalieri con lesioni alle gambe è stato 50 volte superiore a quello dei morti.[6] Secondo il direttore del dipartimento di emergenza del più grande ospedale di Gaza, al-Shifa,[7] la maggior parte delle vittime sono state “colpite, per lo più agli arti inferiori, da munizioni vere che hanno maciullato ossa e tagliato vene, nervi e muscoli.”
Figura 2. Munizioni e lesioni
Anche Medici Senza Frontiere (MSF) osserva[8] che “la stragrande maggioranza dei pazienti, principalmente giovani uomini, ma anche donne e bambini, mostra lesioni insolitamente gravi agli arti inferiori” con alcune ferite di uscita “delle dimensioni di un pugno”. “Nella metà degli oltre 500 pazienti ricoverati, il proiettile ha letteralmente distrutto il tessuto colpito dopo aver polverizzato l’osso”, ha dichiarato Marie-Elisabeth Ingres, capo missione di MSF in Palestina . “Questi pazienti avranno bisogno di operazioni chirurgiche molto complesse e molti di loro rimarranno disabili per tutta la vita.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha espresso preoccupazione perché quasi 350 dei feriti soltanto del primo giorno di protesta rischiano di rimanere disabili in modo temporaneo o definitivo; probabilmente una sottostima considerando che un’adeguata chirurgia conservativa per le ferite traumatiche degli arti richiede la disponibilità di sufficienti risorse umane e materiale medicale. Di ritorno da Gaza, l’organizzazione israeliana Physicians for Human Rights (PHR) denuncia che “Nell’ospedale più avanzato di Gaza ci si sente come negli anni ’70. Se le cose rimangono così, la maggior parte delle vittime di armi da fuoco dovrà essere amputata… “.[9]
Dopo oltre dieci anni di assedio e boicottaggio da parte di Israele, con il complice silenzio della comunità internazionale, il sistema sanitario nella Striscia di Gaza è ridotto allo stremo. Soltanto il trasferimento dei feriti a ospedali specialistici a Gerusalemme, in Cisgiordania o in Israele potrebbe evitare gli interventi demolitivi cui sono costretti i medici locali. Considerando la chiusura ermetica del confine con Gaza imposta da Israele, solo un numero molto limitato di feriti potrà avere tale privilegio. In quegli stessi giorni, il quotidiano israeliano Haaretz riportava la notizia[10] del rifiuto di Israele al trasferimento per cure mediche specialistiche in Cisgiordania di due palestinesi feriti durante le manifestazioni. Le loro gambe sono state amputate. Motivo del rifiuto: avere partecipato alle proteste.
Una campagna di “gambizzazione”?
In un’inchiesta[11] del 2016, la giornalista israeliana Amira Hass si chiede se le Forze di occupazione israeliane stiano in realtà “conducendo una campagna di gambizzazione in Cisgiordania” dal momento che il numero di palestinesi feriti da proiettili veri è in aumento e gli attivisti riferiscono minacce di “mutilazione a vita” da parte dei soldati israeliani. Secondo la giornalista, un gran numero di palestinesi è intenzionalmente colpito con pallottole vere alle gambe, spesso con esito in disabilità permanente.
L’articolo contiene storie che circolano nei campi profughi di Dheisheh e Al-Fawwar secondo cui, durante gli interrogatori o le incursioni notturne, un ufficiale dei servizi di sicurezza Shin Bet, tale “Captain Nidal”, promette ai giovani palestinesi che non ci saranno martiri ma “tutti finiranno con le stampelle!”. O, in un’altra variante, “vi azzopperemo tutti!”. Amira Hass riferisce ancora di un altro villaggio, Tekoa, a sud-est di Betlemme, dove altri venti giovani sono stati colpiti alle gambe, il tutto nel giro di pochi mesi. Anche in questo caso spunta un altro ufficiale israeliano, il Cap. Imad, che, secondo gli abitanti del villaggio, va minacciando che i giovani che protestano contro l’occupazione “rimarranno tutti storpi”.
L’organizzazione per i diritti dei rifugiati palestinesi BADIL denuncia:[12] “Queste minacce indicano che simili azioni non sono incidenti casuali o isolati, ma riflettono una pratica sistematica dei militari israeliani volta a sopprimere la resistenza, terrorizzare i giovani palestinesi e mutilarli in modo permanente… Le esplicite minacce da parte della leadership dell’esercito israeliano mostrano la volontà di commettere atti criminali e sollevano dubbi circa l’adesione delle forze israeliane ai principi del diritto internazionale.”
Anche secondo Middle East Eye è evidente la tattica che l’esercito israeliano sta usando per fermare i manifestanti palestinesi: colpirli alle gambe per, letteralmente, “azzopparli”.[13] Le forze di sicurezza del governo di Tel Aviv hanno regole d’ingaggio molto vaghe quando si tratta di palestinesi, ma il numero di questi giovani manifestanti paralizzati nei mesi scorsi suggerisce che le forze di occupazione stanno mirando alle gambe e alle ginocchia in modo calcolato per paralizzarli. Non mancano conferme fornite da macabre riprese video.[14]
Un altro testimone di questo trend è il giornalista statunitense Max Blumenthal.[15] Citando il dott. Rajai Abukhalil di Ramallah, descrive la mutazione in corso dai “mezzi tradizionali”, come gas lacrimogeni e pallottole rivestite di gomma per disperdere le proteste, alla pratica di “mirare a ginocchia, femori o organi vitali”. Come la vecchia pratica dell’esercito di spezzare le braccia ai giovani lanciatori di pietre durante la Prima Intifada, la nuova tattica di “sparare per azzoppare“indica l’intento di prendere di mira bersagli ben precisi tra i dimostranti distruggendo i loro arti inferiori per minare le capacità della società palestinese a una nuova Intifada. È molto simile a quanto succedeva nel passato, spiega Abukhalil, “ma è una politica più specifica e che attira meno l’attenzione dei media”.
Il dott. Abukhalil racconta di aver visto per la prima volta gli effetti dello “sparare per azzoppare” nel campo profughi di Jalazone vicino a Ramallah nel 2013. “Ogni venerdì [giornata delle dimostrazioni] avevamo da dieci a venti ragazzi ricoverati, tutti colpiti alle ginocchia”. Molti dei manifestanti feriti, aggiunge, riferivano di aver sentito il comandante israeliano di quella zona, “Hilal”, ordinare ai suoi soldati di “mutilare” quanti più manifestanti possibili.
Sparare alle gambe come forma di tortura
Migliaia di giovani palestinesi rischiano di rimanere permanentemente disabili dalle ferite da arma da fuoco subite durante le proteste contro l’occupazione israeliana. Gli alti tassi di lesioni menomanti sono in gran parte dovuti a proiettili a frammentazione sparati con fucili M16. Queste armi, fabbricate negli Stati Uniti e introdotte in Vietnam come fucili da campo leggeri, sono sempre più utilizzate dalle forze di occupazione israeliane contro dimostranti civili. I proiettili dell’M16 si spezzano in piccoli frammenti dopo la penetrazione, strappando muscoli e nervi e provocando lesioni interne multiple, molto simili a quelle dei famigerati proiettili “dum-dum” vietati a livello internazionale. Le radiografie osservate negli ospedali della Cisgiordania e di Gaza mostrano un’immagine che i medici legali chiamano “a tempesta di piombo”, segno della frammentazione di proiettili ad alta velocità. Molti dei feriti sono colpiti da breve distanza, meno di 100 metri, e riportano gravi danni interni.
Il compianto dott. Robert Kirschner dei PHR, dal 1985 al 2000 membro di dozzine di indagini internazionali su sospette violazioni dei diritti umani in vari paesi, sosteneva che “i soldati israeliani sembrano sparare per infliggere danno piuttosto che solo per autodifesa… Azioni del genere equivalgono a una forma di tortura”.[16] L’uso di queste armi rientra in ciò che i gruppi per i diritti umani denunciano come uso eccessivo della forza contro soggetti per lo più disarmati. “Sparare alle persone con proiettili ad alta velocità per ferirle è una forma di punizione sommaria inflitta sul campo”, affermava Kirschner. “Non c’è dubbio nella mia mente che l’uso di queste armi per ferire le persone come forma d’intimidazione della popolazione rappresenta una decisione militare consapevole. Come conseguenza diverse migliaia di giovani palestinesi soffriranno disabilità permanenti”.
Come riporta il 18 aprile il blog ebraico progressista Tikun Olam,[17] “Un antropologo specializzato in guerriglia ha affermato di ritenere che i proiettili usati nel massacro siano munizioni ad alta velocità, usate normalmente per colpire bersagli a lunghe distanze. Quando tali proiettili sono sparati da distanza ravvicinata hanno un impatto altamente esplosivo e provocano lesioni gravissime. Come dire che le armi utilizzate dall’esercito israeliano, pur non essendo illegali, causano tuttavia “gravi lesioni poiché inadeguate all’uso che ne viene fatto.” Il blog riporta, inoltre, l’orgoglioso “tweet” di ufficiali israeliani: “Ieri abbiamo visto 30.000 persone. Siamo arrivati preparati e con rinforzi precisi. Nulla è stato compiuto fuori controllo; tutto è stato preciso e misurato, e sappiamo dove ciascun proiettile è atterrato”. Ossia, “ciò che è successo è esattamente ciò che volevamo succedesse”.
Il “diritto di mutilare”
La professoressa Jasbir K. Puar della Rutgers University[18] sostiene che “Israele manifesta un’implicita rivendicazione al ‘diritto di mutilare’ e debilitare i corpi palestinesi come forma di controllo biopolitico.” Secondo Puar, la “politica della mutilazione” è produttiva poiché utilizzata deliberatamente da Israele nei confronti dei palestinesi per menomarli biologicamente, stremando la loro capacità di resistere all’occupazione israeliana, ma allo stesso tempo mantenendoli in vita come lavoratori o come oggetto di sperimentazione. Queste pratiche di sfiancamento e indebolimento corporale, che non sempre emergono quando Israele è accusato di utilizzare una “forza sproporzionata”, indicano il passaggio dal “diritto di uccidere”, rivendicato dagli stati in guerra, a quello che Puar chiama il “diritto di mutilare”.
Mentre in questi ultimi anni il bilancio delle vittime dei palestinesi è aumentato vertiginosamente rispetto a quelle israeliane, molto meno spettacolare e meno commentato dai media, ma potenzialmente più deleterio per il futuro del popolo palestinese, è il numero di civili feriti. Sparare per mutilare ma non per uccidere si mescola, anzi collude, argomenta Puar, con il principio del “danno collaterale”, secondo cui l’uccisione e il ferimento non intenzionale di civili e bambini, se non deliberatamente mirati, sono danni “accettabili” perché inevitabili. E così la politica israeliana di sparare non per uccidere ma “semplicemente” per mutilare, è spesso percepita erroneamente come tutela della vita: il “mutilare” mascherato da “lasciare in vita”. Lo sparare per azzoppare, benignamente descritto dalle forze di occupazione israeliane come prassi del “lasciare vivere” e “meno violento che uccidere” (e perciò meno sensazionale), appare allora, se visto in modo superficiale, come un approccio umanitario alla guerra. Jennifer Leaning, direttore del Centro FXB per la salute e i diritti umani dell’Università di Harvard, osserva che “il numero di morti e di feriti trasmette la falsa impressione che i feriti stiano bene.”[19]
Conclusione
“L’esercito israeliano prima si è preso le sue gambe, poi la sua vita.” Così nel dicembre 2017 Haaretz[20] titolava la notizia che un tiratore scelto aveva ucciso Ibrahim Abu Thuraya, un doppio amputato di Gaza, mentre protestava dalla sua sedia a rotelle vicino al confine israeliano. “Il cecchino israeliano non poteva mirare alla parte inferiore del corpo della sua vittima – Ibrahim Abu Thuraya non ne aveva una. Aveva perso entrambe le gambe durante un attacco aereo israeliano durante l’operazione Piombo Fuso nel 2008.”
Una straordinaria metafora di come non basti azzoppare i suoi giovani per fermare la resistenza nonviolenta palestinese.
- Diritto sancito dalla Risoluzione 194 del 1948 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, mai applicata.
- Aggiornato a lunedì 30 aprile, il numero dei morti si aggira sui 50 e i feriti sulle diverse migliaia.
- oPt Humanitarian Fund releases US$ 2.2 million in funds to meet urgent humanitarian needs in the Gaza Strip.
Jerusalem, 26 April 2018
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Jerusalem, 26 April 2018
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The Palestinian Day of Return: from a short day of commemoration to a long day of mourning. http://dx.doi.org/10.1016/S0140-6736(18)30940-1
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PHRI Emergency Delegation to the Gaza Strip | E#7 | 16.4.18
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Is the IDF Conducting a Kneecapping Campaign in the West Bank? haaretz.com, 27.08.2016
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Israeli forces targeting Palestinian youth in the West Bank. badil.org, 23.08.2016
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Shoot to cripple israeli captain: “I will make you all disabled”: VIDEO
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Max Blumenthal. Evidence Emerges of Israeli. “Shoot To Cripple” Policy In the Occupied West Bank. AlterNet, 08.08.2014
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Qato, D. The politics of deteriorating health: the case of Palestine. Int J Health Serv 2004; 34(2), 341-364.
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Angelo Stefanini
2/5/2018 www.saluteinternazionale.info
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