Vieni a ballare in Puglia

‘’Vieni a ballare compare nei campi di pomodori
Dove la mafia schiavizza i lavoratori
E se ti ribelli vai fuori
Rumeni ammassati nei bugigattoli come pelati in barattoli
Costretti a subire i ricatti di uomini grandi ma come coriandoli’’

Questo singolo dell’artista Michele Salvemini (in arte Caparezza) venne pubblicato il 18 luglio 2008 e divenne subito una hit estiva che è rimasta negli anni un tormentone cantato da tant* che decidono di passare le loro vacanze in Puglia.

Ma questo singolo fu subito al centro di vivaci polemiche politiche. Per Nicola Fascello l’allora assessore provinciale al turismo per la provincia di Foggia, le parole del cantautore erano di una violenza inaudita, un brutto danno all’immagine della regione in sostanza. Il testo di cui sono stati ripresi solo pochi versi mette in luce anche i disastri ambientali causati dall’ILVA di Taranto, i morti sul lavoro ma soprattutto la piaga del caporalato e del lavoro nero che affliggono endemici e da anni la regione Puglia.

Molte cose sono cambiate, dopo 13 anni a Taranto si continua ancora a morire, ma nella parte a nord della Puglia, nel foggiano, la situazione si è fatta drammatica.

I rumeni di cui parla il testo ha un riferimento concreto, storico che si può subito eviscerare. Il numero di lavoratori emigrati successivamente all’ingresso della Romania nell’Unione Europea, avvenuto assieme alla Bulgaria nel 2007. Fu proprio questa forza lavoro giunta sulle coste pugliesi e subito reimpiegata nei piccoli paesi della provincia di Foggia e nell’attuale provincia di Barletta-Andria-Trani a maggioranza agricola a costituire i primi fenomeni di caporalato denunciati dalla canzone.

Il caporalato non nasce con loro, il termine padrone affibbiato a chi offre la giornata agricola esisteva da tempo, ma nella perenne lotta tra poveri che il capitalismo e il malaffare innescano, a sostituire tanti contadini italiani nei lavori manuali più massacranti, furono proprio i rumeni del testo in questione.

Ad oggi il 25,40% degli stranieri presenti in Puglia viene proprio dalla Romania, ma quel termine, rumeni è anche una sineddoche, cela dietro di sé anche altre storie, altri volti, altri esseri umani emigrati in quegli anni e finiti sotto il sole cocente di agosto, con una paga irrisoria, costretti dai padroni pugliesi a vivere in case fatiscenti inseguendo un sogno che ogni anno, tantissimi giovani pugliesi inseguono nel resto d’Italia e nel mondo. Con la fortuna di non rientrare in quel termine logico, rumeni ma di essere italiani e per quanto il caporalato non conosca frontiere geografiche, la schiavitù dei ghetti foggiani e la raccolta dei pomodori viene lasciata ai più deboli, a chi ha meno possibilità di far valere i propri diritti davanti ad una giustizia cieca e assente.

Foto Marco Alpozzi – LaPresse 20 06 2015 Ventimiglia – (Italia) Cronaca Corteo in solidarietà con i migranti bloccati alla frontiera Italo-Francese di Ventimiglia
Nella foto: Aboubakar Soumahoro

In quegli stessi anni la stessa sorte toccò ai bulgari, macedoni, polacchi e ucraini che emigrarono in Italia. Dietro quel termine, si cela una mappa geografica estesa e multiforme triturata nell’imbuto del caporalato che livella, disumanizza e rende schiavi.

13 anni da quel testo e quel testo si può riproporre tale e quale perché nonostante la Puglia sia governata dal 27 aprile 2005 dalla sinistra (con i mandati doppi di Nichi Vendola 2005-2015 e Michele Emiliano al suo secondo mandato, riconfermato alla guida della regione dopo le regionali del 24 novembre 2020) la situazione nella Capitanata si è fatta improcrastinabile.

Non solo il lavoro nero e il caporalato non sono stati cancellati, ma a sostituire i rumeni del testo ci sono ormai stabilmente lavoratori neri in prevalenza africani, stanziati nei ghetti (il più grande è quello di Borgo Mezzanone frazione del comune di Manfredonia e quello scoperto dalle cronache nazionali di Torretta Antonacci parte del comune di San Severo, dove negli scorsi giorni degli ignoti hanno esploso colpi di fucile ai danni di un gruppo di lavoratori del ghetto che rientravano dalle campagne, ferendone gravemente al volto uno di loro) privati dei diritti civili.

Non hanno acqua corrente, servizi igienici, possibilità di scaldarsi durante l’inverno (non a caso gli incendi si susseguono e mietono vittime ogni anno), vessati da ritmi di lavoro massacranti, impossibilitati a ottenere giustizia da una parte perché resi ancora più invisibili dai decreti dell’ex ministro degli interni Matteo Salvini e dall’altra in stretta correlazione perché ricattati dalle mafie fondiste locali. I colpi sparati contro alcuni di loro a Torretta Antonacci suonano come avvertimenti, come un monito, una volontà di spegnere qualsiasi tipo di rivendicazione egualitaria.

Un censimento del numero totale di abitanti nei ghetti è complesso, l’omertà impedisce alla giustizia di fare il suo corso mentre dall’alto, dal governo non è giunto nessun tipo di aiuto concreto.

Durante l’esperienza del governo gialloverde guidato da Giuseppe Conte, i decreti citati prima hanno di fatto peggiorato la situazione rendendo invisibile chi avrebbe potuto usufruire di un permesso umanitario e uscire definitivamente dai ghetti, mentre la sanatoria promessa in diretta tv dall’allora ministra per l’agricoltura Teresa Bellanova non hanno migliorato la situazione, rivelandosi effimera, come le sue lacrime a mezzo stampa.

Se la giustizia ha fatto il suo corso nei confronti dei lavoratori dell’est Europa che nel tempo sono riusciti in virtù del loro status di cittadini europei ad affrancarsi dalla schiavitù riservata loro nei campi non si può dire lo stesso dei lavoratori africani detenuti nei ghetti in Puglia. La loro sorte e le loro condizioni di vita al limite dell’umana comprensione ricalca quella dei lavoratori indiani presenti nel Agro Pontino.

Le immagini di vita, i volti e i nomi di chi è da anni in quelle condizioni dovrebbe far inorridire lo Stato, il governo regionale e la comunità internazionale, viste le continue violazioni dei diritti umani che subiscono costantemente uomini e donne fuggiti da guerre e persecuzioni o dalla fame e da un destino di miseria per finire macellati nel silenzio e nella polvere del foggiano.

Aboubakar Soumahoro è il principale attivista e sindacalista che in questi anni sta lottando per l’emersione del problema e per la risoluzione del fenomeno schiavile ormai endemico in molte regioni del centrosud-Italia. Ai suoi sacrifici quotidiani rispose Matteo Salvini da ministro degli interni in diretta televisiva. Alla minaccia di portare i lavoratori africani in uno sciopero generalizzato se non fosse arrivata la sanatoria (che poi si rivelerà effimera), il ministro rispose, da uomo delle istituzioni, ridendo con disprezzo e sentenziando: ‘’Perché adesso scioperano anche i clandestini?’’.

E la risata di scherno si mescola all’omertà che ha fatto per anni da scudo a caporali e mafiosi nella terra e nelle campagne che furono di Giuseppe Di Vittorio, sindacalista e bracciante agricolo nato a Cerignola nel 1892 che diede la vita per le lotte sindacali nella Capitanata, per strappare dalle mani del malaffare migliaia di contadini italiani resi schiavi dall’omertà, dal dolore di una vita passata chini sui campi di pomodori, nella polvere e nel silenzio.

E non è un caso se più volte Aboubakar Soumahoro abbia citato proprio Di Vittorio nelle sue parole, in una lotta costante in cui si aggiunge alle colpe ataviche dell’omertà anche il razzismo. Sono neri, invisibili, resi oggetto e deumanizzati dalla propaganda della Lega guidata da Matteo Salvini e dal disinteresse nazionale costante, di ognuno di noi, vittime senza appello in un ritorno drammatico a tempi che pensavamo archiviati per sempre. Le lotte sindacali in Puglia ricordano le battaglie civili antisegregazioniste e antirazziste degli Stati Uniti negli anni sessanta.

Uomini e donne africani che lottano per i propri diritti e coprono quei vuoti di lotta sindacale che avrebbero dovuto colmare i contadini italiani. Loro che per primi si abituarono a chiamare padrone il datore di lavoro che alle prime luci dell’alba carica la forza lavoro su furgoni diretti al lavoro. Invece molto spesso si assiste a cortei di braccianti neri in Puglia e in Calabria, altra regione alle prese con il problema dei ghetti.

Abbandonati ai loro destini, perché ci si sforza di non voler vedere il lato razzista del nostro benessere. La loro pelle nera, i loro corpi fiaccati dalle percosse e dai ritmi inumani di lavoro. Sono neri e per questo altro da noi, non un nostro problema.

Per questo, occorre domandarsi, cosa ci differenzia dai carcerieri libici che sui corpi dei migranti infliggono dolore e morte, che affondano e lasciano morire chi tenta la sorte imbarcandosi per l’Italia, la nuova Libia, finendo schiavo e invisibile. Cosa ci rende migliori, probabilmente nulla. Mario Draghi ha solo un vestito migliore di un carceriere libico, parla una lingua diversa, ma ad entrambi sta bene che nelle campagne pugliesi o nei lager libici si muoia di violenze, malattie, stupri e intimidazioni mafiose.

I contesti si sovrappongono fino a risultare identici, si confondono fino a non poter più stabilire un confine netto, quei confini che stanno tanto a cuore dei sovranisti, svaniscono perché la realtà è che al di là del Mediterraneo cambiano le lingue e i volti, ma non cambiano i luoghi di dolore, la prigionia e l’alienazione.

Mentre nonostante tutto, la Puglia si svuota e perde forza lavoro, student*, lavorator* che lasciano la regione per sempre perché non ci sono concrete possibilità di autoaffermazione, non c’è lavoro.

Non c’è lavoro, devi andare via, quante volte questa frase l’ho sentita anche io, mentre quei rumeni di cui parla la canzone arrivavano le estati per la raccolta delle pesche. Quanti sono rimasti e hanno permesso che il tessuto sociale tenesse, colmando i vuoti, prendendo i lavori più umili e faticosi, quante donne accudiscono gli anziani, quelli che non vanno via, quelli che restano.

Devi andare via, mi hanno sussurrato più volte io che a Foggia sono nato. Mentre dopo 13 anni ho visto arrivare altri popoli, altre lingue per le strade del mio paesino. A riempire le bottiglie d’acqua alle fontane non c’è più l’anziano che ricordavo, ora c’è un ragazzo nero col cappellino liso sulla testa. Ed io che ho la pelle del colore giusto, sono andato via ma non voglio dimenticare.

Non si possono dimenticare i tanti giovani disoccupati che lasciano per sempre la propria regione come non si possono lasciar morire nei ghetti i nuovi poveri che riempiono le falle del sistema, perché la guerra tra poveri che intercorre in questo paese non è causata dai rumeni arrivati in Puglia anni fa, non è degli africani che costantemente vengono accusati di peggiorare le condizioni di lavoro, sottraendolo agli italiani. Il lavoro semplicemente non c’è.

C’è chi può fuggire dalla raccolta dei pomodori e chi invece è costretto a chinarsi per raccoglierli. C’è chi può esibire una carta d’identità e chi invece non ha neppure un nome. La Puglia è anche questo.

Ricordatevi tutte queste cose, quando sentirete ancora Vieni a ballare in Puglia, magari in riva al mare di una regione che sa celare bene i propri drammi, nel silenzio dei paesi dell’interno, quelli dove si passa per caso o che restano sconosciuti. Tra la polvere, il sole di agosto e il mare cristallino ci sono ancora rumeni ammassati nei bugigattoli come pelati in barattoli costretti a subire i ricatti di uomini grandi ma come coriandoli

per Abdullah Mohammed, sudanese, 47 anni

Paola, tarantina, 49 anni

Zaccaria, tunisino, 52 anni

Morti sotto il sole.

A distanza di anni,

non vi dimentico.

Mauro Spina

17/5/2021 https://www.intersezionale.com

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *