VIGILANZA IN CRESCITA ANCHE NEL 2020, GRAZIE AL LAVORO SOTTOPAGATO
La terziarizzazione è ormai una tendenza di fondo dell’economia globale, ma non in tutto il mondo procede agli stessi ritmi. Se complessivamente i servizi producono circa i due terzi del PIL globale, analizzando i dati più nel dettaglio scopriamo che nei paesi emergenti continuano a pesare meno del 60% del PIL, mentre nelle economie avanzate superano largamente il 70%. Una differenziazione a cui hanno contribuito in larga misura i processi di delocalizzazione delle attività manifatturiere verso est degli ultimi decenni.
Se terziarizzazione vuol dire lavoro povero
Questa tendenza non ha risparmiato l’Italia, un paese con una solida tradizione industriale, che tuttavia almeno da trent’anni è soggetto a un massiccio processo di deindustrializzazione. Oggi secondo l’ISTAT circa tre quarti del valore aggiunto estratto dalla nostra economia vengono prodotti nell’ambito dei servizi, contro il 20% della manifattura e anche l’occupazione tende a spostarsi sempre più verso il terziario. Le crisi, un fattore di accelerazione dei processi di riorganizzazione economica, in questi anni hanno contribuito in modo significativo a trainare il processo di terziarizzazione. Nel decennio seguito alla crisi globale del 2008, ad esempio, in Italia, secondo l’ISTAT, si sono persi circa 900.000 posti di lavoro nell’industria (manifattura e costruzioni), mentre se ne sono guadagnati quasi altrettanto nei servizi, ma questa trasformazione non è stata “socialmente neutra”. Come riconosce il Sole24Ore161119 la terziarizzazione sta provocando una crescita dei working poors, perché spesso ad allargarsi sono settori ad alta intensità di forza-lavoro ma con un basso valore aggiunto, caratterizzati dall’uso massiccio di contratti part-time e, più in generale, del lavoro precario.
L’irrompere della pandemia ha rappresentato un ulteriore fattore di accelerazione della ristrutturazione economica, perché il covid-19 per un verso ha colpito brutalmente attività come turismo, ristorazione e piccolo commercio, per un altro invece ha fatto volare grande distribuzione organizzata, e-commerce e telecomunicazioni, creando una nuova domanda di servizi (si pensi anche al mercato delle sanificazioni per le imprese di pulizia). In alcuni casi alla crescita del peso relativo di queste attività si è accompagnato anche un protagonismo dei lavoratori, che, mobilitandosi e a volte beneficiando anche di alcuni pronunciamenti della magistratura, sono riusciti a rivendicare con forza paghe e condizioni di lavoro migliori (Amazon) e, in alcuni casi, anche a ottenerle (rider).
Vigilanza: il settore cresce, i salari no
Il settore della vigilanza privata è un caso esemplare di crescita del terziario associato a un peggioramento delle retribuzioni e in generale delle condizioni di lavoro. Secondo il Primo rapporto sulla filiera della sicurezza del Censis (2018) prima del Covid-19, dal 2011 al 2017, le aziende della vigilanza privata sono aumentate dell’11,3% e i dipendenti del 16,7% (oggi gli addetti sono 65.000): “La crescita del comparto, anche negli anni della crisi, va ricondotta principalmente all’aumento del personale disarmato, in risposta ad una crescente domanda di servizi di piantonamento e di portierato senza pistola”. Si tratta dei cosiddetti servizi fiduciari, che, proprio grazie a paghe da 4-5 euro l’ora, hanno consentito alle aziende di vigilanza privata di inserirsi in nuovi mercati, in particolare negli appalti (servizi di portierato in edifici pubblici, ospedali, musei, porti, aeroporti e stazioni) anche facendo concorrenza sul costo del lavoro alle imprese di altri settori, in particolare alle aziende multiservizi. Il Secondo rapporto Censis, pubblicato nei giorni scorsi, indica un’ulteriore accelerazione, che neanche la pandemia è riuscita a fermare: negli ultimi cinque anni le imprese sono cresciute del 16,2% e gli occupati del 22,8%, raggiungendo il numero di 1.745 aziende e 76.203 dipendenti. E anche nel 2020 la crescita è proseguita: imprese +3,7% e occupati +4,9%. A trainare questa crescita sono stati ancora i servizi fiduciari: le imprese dove questi prevalgono sulla vigilanza armata sono 2.389 e impiegano 27.33 dipendenti; nel quinquennio i due dati sono cresciuti rispettivamente del 154,1% e del 91,3% e nel 2020 del 15% e del 13,7%.
In questi anni la crescita di questo comparto a scapito di altri, ad esempio i casi sempre più numerosi di aziende di vigilanza che strappano appalti alle imprese multiservizi potendo pagare salari inferiori persino del 30%-40%, ha innescato numerose vertenze legali, dagli esiti non trascurabili. Nel 2019 il Tribunale di Milano ha addirittura accertato la “nullità e/o illegittimità dell’articolo 23” del contratto nazionale (quello che fissa i minimi salariali per le guardie non armate) “per contrarietà all’articolo 36 della Costituzione”, secondo cui il salario deve essere “proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro” prestato e in ogni caso sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia “un’esistenza libera e dignitosa” (sentenza 3003/2019).
In questo quadro anche l’Europa ha fatto la sua parte, con una sentenza della Corte di Giustizia Europea (dicembre 2007) che ha costretto l’Italia a modificare il Testo Unico sulla Sicurezza e altre norme nazionali, liberalizzando i servizi di guardia non armata e in questo modo spaccando in due i lavoratori del settore, da una parte le tradizionali guardie giurate, riconosciute come “incaricati di pubblico servizio” e come tali tenute a prestare giuramento presso la Prefettura di riferimento, pur essendo alle dipendenze di un’azienda privata e dall’altra, appunto, i fiduciari, con retribuzioni e spesso anche inquadramento differenti (nelle cooperative di vigilanza sovente i fiduciari sono soci, mentre le GPG, guardie particolari giurate, sono dipendenti). Tra le norme con cui lo Stato, a fonte della liberalizzazione voluta dall’Europa, avrebbe dovuto almeno assicurare un controllo sulla qualità dei servizi c’è il decreto 115/2014 del Ministero degli Interni, che obbligava le aziende già certificate ad adeguarsi ai nuovi requisiti di legge entro il 2017 e le altre entro il 2015, ma è rimasto largamente disatteso: secondo l’Osservatorio Federsicurezza 2020-2021 (elaborato da Format Research) delle 1.291 imprese in attività censite a oggi solo 462 sono regolarmente certificate.
I dati sulle imprese certificate contenuti in questo rapporto ci forniscono una radiografia del settore, che ripropone in sedicesimo i classici vizi del capitalismo italiano. Le imprese certificate appaiono più longeve, hanno un’età media di oltre 20 anni e solo il 16,4% ne ha meno di 6. La longevità aumenta con le dimensioni d’impresa: dalle microimprese (meno di 10 dipendenti) con un’età media di 12 anni e 5 mesi fino alle più grandi (oltre 250), dove addirittura si superano i 31 anni. Il fatturato delle 462 imprese certificate ammonta a quasi 3,5 miliardi di euro, di cui oltre due terzi vanno alle imprese con oltre 250 dipendenti, mentre le piccole imprese (10-49 dipendenti), che sono il 43,9%, producono solamente il 7,6% del fatturato. Per quanto riguarda la distribuzione geografica, invece, anche se metà delle imprese opera al sud quasi due terzi delle entrate (il 62,4%) finiscono al nord. In un settore così frammentato, in cui i margini di profitto sono bassi – il margine operativo lordo (MOL) medio ammonta al 2,3% del fatturato – non c’è da stupirsi che circa un quarto delle imprese lavori in perdita o in pareggio, quasi la metà con un margine operativo tra l’1% e il 4%, con una quota progressivamente più piccola di imprese che strappa profitti sempre più alti – il 2,8% apicale viaggia sopra il 20%.
L’impatto del covid si scarica sui lavoratori
La pandemia avuto un impatto complessivamente negativo: circa il 60% delle imprese certificate secondo l’Osservatorio denuncia un peggioramento dell’andamento economico generale e del fatturato e il 31% paventa la necessità di chiudere. Ma il 30% non viene penalizzato e il 10% registra addirittura un miglioramento. Anche in questo caso la pandemia colpisce duramente le piccole imprese, mentre per le grandi si rivela addirittura un’opportunità. Del resto anche nel campo della sicurezza le misure di contrasto al Covid-19 hanno creato una nuova domanda di servizi: dalle attività di controllo e misurazione della temperatura alla verifica del distanziamento fino al servizio di verifica delle prenotazioni per l’ingresso nelle banche. In un comparto caratterizzato da scarsi investimenti (meno del 50% delle imprese dichiara di averne fatto negli ultimi due anni) è abbastanza scontato che chi ha preso provvedimenti per affrontare la crisi (il 31% delle imprese) abbia scaricato le perdite sul costo del lavoro: il 49% ha chiesto la cassa integrazione; il 27,4% ha messo il personale in ferie o permesso; il 24,8% è stato/sarà costretto a ridurre il personale; il 7,5% ha messo i dipendenti in congedo parentale e il 5,7%, infine, ha chiuso temporaneamente.
E se oltre l’82% delle imprese ritiene che entro i primi mesi del 2021 andrebbe rinnovato il contratto nazionale di settore, il contratto resta scaduto da più di 5 anni e il prezzo da pagare per il rinnovo, secondo i sindacati, è più flessibilità e miseri adeguamenti salariali. Il colosso Sicuritalia (15.000 dipendenti e 650 milioni di fatturato), ad esempio, ha proclamato un piano di crisi che congela gli scatti sulle maggiorazioni del lavoro straordinario e festivo che dovrebbero entrare in vigore a maggio e provocare un sia pur minimo aumento delle retribuzioni. Come hanno scritto nei giorni scorsi i lavoratori del settore della Filcams CGIL di Genova, che il 16 aprile hanno manifestato a sostegno delle vertenza contrattuale, lo stipendio lordo d’ingresso di una guardia giurata è di 1.058,06 euro e a livello medio di 1.258,88, mentre per un fiduciario le cifre si abbassano rispettivamente a 797,14 e 930 euro. Significa prendere 4-5 euro netti l’ora e stare sotto la soglia di povertà che, ricorda il volantino della CGIL di Genova, per una “famiglia monocomposta è di 839,75 euro”. La stessa conclusione cui nel 2019 è giunto il Tribunale di Torino giudicando il caso di uno dei tanti lavoratori che, a seguito di un cambio d’appalto, sono precipitati dal contratto multiservizi a quello dei servizi fiduciari: “La presunzione di sufficienza della retribuzione concordata dalle parti collettive nella sezione Servizi Fiduciari del C.C.N.L. Vigilanza – recita la sentenza 1128/2019 – si scontra con la constatazione del rapporto di valore esistente tra la medesima – che, in quanto relativa all’orario ordinario a tempo pieno, costituisce l’unico reddito da lavoro su cui il lavoratore può far conto per sopperire alle sue esigenze di vita – ed il tasso soglia di povertà assoluta stimato dall’Istat per il medesimo periodo”.
C’è chi guarda ai rider e al salario minimo
Come accennavamo la vigilanza privata ripropone in piccolo alcuni dei tipici vizi del capitalismo italiano: una struttura produttiva estremamente frammentata e caratterizzata da un pulviscolo di piccole imprese fragili, spesso con un alto livello di “informalità”, gonfiate dalla retorica del “piccolo è bello” e pronte ad approfittare degli spazi aperti da una liberalizzazione selvaggia, ma anche destinate ad andare in tilt altrettanto rapidamente alla prima crisi, scaricando le perdite sui lavoratori. L’informalità si manifesta a partire dalle aziende non ancora certificate in barba alla legge fino ai casi limite di quelle che operano senza licenza (l’ultima è stata chiusa pochi giorni fa ad Avezzano, in Abruzzo) e dell’associazione scoperta e denunciata a marzo dalla Questura di Roma, i cui volontari in uniforme paramilitare svolgevano servizi di vigilanza per enti pubblici e privati, che era riuscita ad accreditarsi persino presso un Municipio di Roma Capitale.
Accanto a queste un pugno di grandi imprese in grado di dividersi i maggiori appalti anche grazie a una spartizione concordata del mercato – si veda la sentenza dell’AGCM del 2019, che ha punito con sanzioni da 30 milioni di euro un’intesa anticoncorrenziale tra le principali società del settore della vigilanza privata, Allsystem, Coopservice, Italpol, IVRI e Sicuritalia, avente a oggetto il condizionamento di dieci gare pubbliche per la fornitura di servizi di vigilanza, tra cui in particolare, le gare ARCA Lombardia e EXPO 2015, bandite tra il 2013 e il 2017, per un valore complessivo di oltre 200 milioni di euro. Grandi imprese che, per un altro verso, sono anche le più attrezzate a reagire alle crisi cogliendone le opportunità in termini di riorganizzazione e allargamento delle attività.
Dal punto di vista dei lavoratori se nelle piccole imprese il tasso di sindacalizzazione è tradizionalmente basso, nei grandi gruppi le condizioni materiali e la ricattabilità a cui sono soggetti i lavoratori tendono a rendere difficoltoso organizzarsi nel posto di lavoro e lottare per condizioni migliori. Tuttavia a marzo gli scioperi dei lavoratori di Amazon e dei rider sembrano aver sortito qualche effetto, almeno a giudicare dai commenti pubblicati in alcuni gruppi Facebook dei lavoratori della vigilanza, spesso critici anche verso i propri sindacati. “Ma dopo lo sciopero del 24 dicembre più nulla??? Tutto tace, ma come vogliamo cambiare le cose con uno sciopero ogni morte di papa?” si chiede un lavoratore il 20 marzo. “Bisognerebbe prendere esempio dai lavoratori di Amazon” gli risponde un collega il 22, giorno dello sciopero nei depositi del gigante americano. Altri fanno dei confronti: “Rider: 2 scioperi in 8 settimane; Trenord e Trenitalia: 4 Scioperi in 7 settimane; Atm: 3 scioperi in 6 settimane; Metalmeccanici: 4 scioperi in 8 settimane: Guardie giurate: 2 scioperi in 2 ANNI!!!” posta un altro il giorno del no delivery day. Qualcuno solleva anche il tema del salario minimo: “Ma del salario minimo si sa più nulla?” “Figurati, ci metteranno tre anni ad approvare sta legge”. E anche qui la critica nei confronti dei grandi sindacati si fa sentire: “Solo CGIL, CISL e UIL potevano essere contrari ad un salario minimo che possa dare dignità a milioni di lavoratori”. Passare dai commenti sui social all’azione concreta è un passaggio tutt’altro che scontato. Ma le esperienze di questi anni ci hanno insegnato che a volte dai lavoratori apparentemente più deboli possono arrivare le sorprese. Quando stipendi e condizioni di lavoro scendono oltre una certa soglia lottare per strappare condizioni migliori da “utopia” può trasformarsi nell’unica alternativa.
Marco Veruggio
16/4/2021 PuntoCritico.info
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!