Vincere contro il lavoro nero si può. Piccola testimonianza di lotta.

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Al di là della soddisfazione per l’essere riusciti ad essere “utili”, nella lettera e nella storia di questa lavoratrice ci sono tanti elementi su cui riflettere. E, almeno in parte, vogliamo farlo qui.

1)      Vincere si può. Anche quando si ha di fronte una controparte “potente” si possono strappare risultati. Parliamoci, organizziamoci. Perché per battere la sfiducia, il “tanto non cambia mai niente”, non bastano parole. Servono i fatti. E i fatti si chiamano vittorie. Piccole, parziali, ma pur sempre vittorie. Le vittorie sono il miglior esempio;
2)      Prendiamo gli elementi di forza della controparte e ribaltiamoglieli contro. Il datore di lavoro ha agganci potenti? Lavora in appalto per qualche ditta o ente molto ben conosciuto? Bene, magari questi “agganci” o i committenti, non sarebbero molto contenti se si alzasse un polverone, se si rendesse pubblico lo schifo di cui sono complici (o, a volte, mandanti);
3)      La vittoria, per noi, non sta solo nel fatto che i lavoratori recuperano ciò che gli spetta. Non si tratta solo di quello. Si tratta, invece, di quello che la lavoratrice scrive benissimo nelle ultime righe: “consapevolezza” innanzitutto, fiducia nella lotta, costruzione di comunità. Nelle sue parole si sottolinea in più parti quanto sia stato importante non sentirsi né essere “SOLA”. I nostri problemi sul lavoro non sono drammi individuali. Sono una questione sociale, collettiva, di tantissimi. Per questo dobbiamo costruire comunità che siano larghe e aperte e in grado di cacciare le unghie, difendersi e contrattaccare. “Se toccano uno, toccano tutti!” Questo lo slogan che deve campeggiare nelle nostre menti e nei nostri cuori.
Noi andiamo avanti, cercando di costruire una comunità che cresca, in numeri e consapevolezza. E speriamo che la storia di questa lavoratrice possa essere la molla per tante altre e tanti altri per dire “basta!” e unirsi a questa sfida.

La testimonianza

Nove mesi fa è cominciata la mia esperienza lavorativa in un grande ente pubblico come operatrice dell’infanzia alla ludoteca per i figli dei dipendenti, servizio per loro gratuito e assegnato tramite gare d’appalto. La società per cui ho lavorato, dopo 1 mese di prova retribuito una miseria, mi ha assunto con un contratto part-time di 20 ore settimanali.

Io di ore ne facevo 40, e spesso anche di più, ho lavorato anche 10 ore al giorno senza potermi assentare dalla stanza, quindi segregata dentro, e quando capitava che io o le mie colleghe eravamo assenti dal lavoro per malattia o ferie spesso restavamo sole anche con bambini neonati, questo perché la società non provvedeva alle sostituzioni. Ho lavorato non solo come operatrice ma sono stata anche responsabile, non sulla carta, ma nei fatti, vista la latitanza e mancanza di interesse della società e anzi ho gestito un posto insieme alle mie colleghe. Decido quindi a dicembre di comunicare alla società che sarei andata via, visto che non mi hanno dato la possibilità di diminuire le ore di lavoro e perché evidentemente non volevano prendere un’altra operatrice.

Da mesi mia cugina cercava di portarmi allo sportello della camera popolare del lavoro, all’Ex-OPG Je so Pazzo ma io ci sono andata solo quando ero al limite di stress e avvilimento. Li ho incontrati e per la prima volta sono entrata in questo splendido posto, dove l’energia del movimento che c’è si respira nell’aria. Ci siamo raccontati, e mi hanno da subito messa davanti alla realtà che era diverso da quello che io “pensavo di fare”, cioè informarmi semplicemente su quelli che sarebbero stati i miei diritti. Non volevo muovermi, volevo solo andare via con tutti i dispiaceri del caso di lasciare un lavoro in primis, i BAMBINI e un posto in cui avevo dedicato energie, tempo e lavoro. I ragazzi mi hanno seguita, mi hanno parlato, mi hanno lasciato il mio tempo per rendermi conto che quello che POTEVO fare era un mio pieno diritto.

Ho scoperto un mondo di persone che lottano e che ti vogliono aiutare nella lotta, ad avere quello che è del lavoratore, e che spesso si dimentica. Decisa e, non SOLA, mandiamo la lettera alla società, seguita anche da un avvocato che mi ha spiegato la parte più tecnica, ed infine – dopo nemmeno tantissimo tempo – siamo riusciti ad ottenere quasi tutte le differenze retributive che mi spettavano. Non sentirsi soli è fondamentale, per me non è stato facile, ma la concretezza della camera popolare del lavoro mi ha dato coscienza dei miei diritti, e di quello che si può fare, anche con il confronto con altri lavoratori. Ho preso consapevolezza di questo momento storico, su questo lavoro che non c’è, sulle frasi tipo “ritieniti fortunato”, ” Se non ti sta bene, ce ne sono altre di persone che prenderanno il tuo posto”. Ma poi la consapevolezza, la lotta, e il mio caso che ha dimostrato che lottare può portare al raggiungimento di obbiettivi, di soldi che spettano per diritto al lavoratore e anche di rivincita personale nel non sentirsi sottomessi, ” incastrati”.
Grazie alla camera popolare del lavoro e agli avvocati dello sportello legale.

11/2/2017 http://clashcityworkers.org

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