Virus e rottura degli equilibri ecologici
«I virus esistono da miliardi di anni, esistono da prima dell’arrivo degli uomini sulla terra ed esisteranno dopo che la specie umana si sarà estinta. Non è più possibile separare la salute degli uomini da quella degli animali e dell’ambiente: l’esperienza di questi anni, con l’emergere di continue zoonosi, ci ricorda che siamo ospiti e non padroni di questo pianeta e ci impone di cercare il giusto equilibrio tra le esigenze della specie umana e delle altre specie animali e vegetali che viaggiano insieme a noi in questa arca di Noè chiamata Terra».[1]
Non sono le parole di un ecologista ma del direttore scientifico dell’Ospedale Spallanzani di Roma, all’inizio della pandemia di Sars-CoV-2.
Nessuno di noi aveva pensato di potersi infettare per un pipistrello disturbato nel suo habitat naturale nello Yunnan, ma lo stravolgimento, il lutto, il dolore portati nelle nostre esistenze dal Covid-19 ci obbligano a guardare in faccia l’origine di un problema che l’Occidente pensava non lo riguardasse più, che riteneva ormai prerogativa dei Paesi poveri, benché la sua intera storia sia stata attraversata da epidemie fino al secolo scorso.
In un mondo interconnesso e globalizzato, dove gli spostamenti di uomini e merci sono continui e le città si trasformano rapidamente in megalopoli in cui le povertà sono amplificate e le persone respinte in slum o favelas – terre di mezzo tra urbanizzazione e natura violata, sempre più abitate da animali selvatici scacciati dalla devastazione dei loro ecosistemi – nulla è più facile degli spillover tra specie animali.
La colpa non è della natura, ma di un’economia di rapina, un consumo dissennato, un’idea di illimitatezza delle risorse che hanno spolpato il pianeta.
La richiesta di non tornare come prima, che si era levata così forte durante il lockdown, risuonando da un continente all’altro, e che ora suona così spuntata, è molto più di uno slogan, è la sola possibilità di fermarci prima che altre pandemie ci travolgano.
Il “prima” ha portato i manufatti umani (cemento, ghiaia, automobili, vetro, plastica e tutti gli altri infiniti prodotti dell’uomo, tra cui una smisurata massa di rifiuti) ad avere un peso, calcolato in gigatonnellate di carbonio, maggiore di quello dell’insieme del vivente (animali, piante, funghi, virus e batteri).
Ha portato ad estinguere innumerevoli specie animali e vegetali e a metterne a rischio altre 28.000: il 25% dei mammiferi, il 14% degli uccelli, il 40% degli anfibi, il 33% delle barriere coralli il 34% delle conifere.
Ha portato a ridurre il vivente a bestiame e pollame, corpi asserviti destinati alla macellazione seriale, e a distruggere le foreste pluviali, i popoli nativi, i delicati ecosistemi della Terra.
Ha portato a una crisi climatica responsabile di eventi meteorologici estremi, desertificazione, erosione delle coste, scioglimento dei ghiacciai e del permafrost che, in un perverso circolo vizioso, implica la possibilità di una fuoruscita di patogeni, batteri e virus di epoche a noi sconosciute, finora imprigionate nei ghiacci.
In piena Seconda guerra mondiale, il paleontologo statunitense Henry Fairfield Osborn scrisse: «C’è un’altra guerra, silenziosa, inavvertita ma alla fine più micidiale ancora, alla quale l’uomo si è abbandonato da tempo incalcolabile, ciecamente, inconsapevolmente. Vasta come il mondo, questa guerra continua e contiene in sé la possibilità di un disastro finale persino superiore: è la guerra dell’uomo contro la natura».[2]
Più di ottant’anni dopo, il 21 aprile 2021, in occasione della Giornata mondiale della Terra, il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres ha sentito la necessità di esprimersi con parole molto simili: «Saccheggiamo in maniera incosciente le risorse della Terra, ne deprediamo la natura e trattiamo aria, terra e mari come discariche. Dobbiamo mettere un termine alla nostra guerra contro la natura e agire per guarirla. In questa Giornata della Madre Terra, impegniamoci tutti per salvare il nostro pianeta e fare pace con la natura».
Ma come è possibile essere in guerra con la natura? Nella modernità, ci siamo allontanati dalla nostra radice più profonda, e a nulla sono valsi gli allarmi lanciati dagli scienziati. Da ultimo, nel settembre 2019, uno studio commissionato dall’Organizzazione mondiale della sanità metteva in guardia i decisori politici del pianeta sul pericolo imminente di «una pandemia in rapido movimento, altamente letale, dovuta a un agente patogeno respiratorio in grado di uccidere da 50 a 80 milioni di persone e di spazzar via quasi il 5% dell’economia mondiale. Una pandemia globale su questa scala» continuava il rapporto, «sarebbe catastrofica, creerebbe caos diffuso, instabilità e insicurezza. Il mondo non è preparato. I focolai d’infezione colpiscono molto più duramente le comunità a basso reddito – data la loro mancanza di accesso ai servizi sanitari di base, all’acqua pulita e alle strutture igienico-sanitarie; ciò aggraverà la diffusione di qualsiasi agente patogeno infettivo. […] I leader a tutti i livelli detengono la chiave. È loro responsabilità dare la priorità alla preparazione, con un approccio che coinvolga tutta la società e che garantisca il coinvolgimento e la protezione di tutti».[3]
Nessuno ha preso sul serio l’avvertimento della commissione internazionale di esperti che ha redatto il rapporto
Più di tre milioni di morti nel mondo, certamente sottostimati, le immagini di cadaveri bruciati per strada in India e di persone agonizzanti per assenza di ossigeno in Brasile, di anziani abbandonati a morire in strutture di contenimento o in solitudine nelle proprie case in Italia, Francia e molti altri paesi europei, ci hanno violentemente mostrato che non può esserci giustizia sociale senza giustizia ambientale, e viceversa.
Mentre come termiti divoriamo ogni spazio, ogni diversità, ogni vita non codificata, ci viene detto che non c’è alternativa a un sistema economico che, dall’inizio della pandemia, ha fatto sì che il patrimonio dei primi dieci miliardari del mondo aumentasse di 540 miliardi di dollari complessivi, prevalentemente nell’industria e nella produzione di farmaci.
Secondo Oxfam, una tassa temporanea sugli extra-profitti maturati da 32 multinazionali durante la pandemia, avrebbe generato 104 miliardi di dollari nel solo 2020: un ammontare di risorse equivalente al necessario per garantire indennità di disoccupazione a tutti i lavoratori e supporto finanziario per bambini e anziani in tutti i paesi a basso e medio reddito.
Anche quella che viene chiamata transizione ecologica sta mostrando di non voler davvero rinunciare a nessun interesse consolidato, a meno che la rinuncia non possa trasformarsi in un affare ancora più grande.
Un quadro che ricorda i generali, banchieri e magnati tedeschi dipinti da George Grosz, intenti, tra Prima e Seconda guerra mondiale, al festino dei propri affari, insensibili all’ascesa del nazismo.
Il pensiero ecologista e ambientalista, che in Italia è stato così a lungo ignorato dai decisori politici – anche adesso intenzionati a continuare sul sentiero dello sviluppo, nella convinzione dell’inesauribilità delle risorse – bussa alla porta per parlarci di noi, delle nostre esistenze e di quelle delle prossime generazioni, che non sopravvivranno se non saremo capaci di imporre a noi stessi e alle istituzioni che ci rappresentano la pace con la natura.
[1] G. Ippolito, in V. Martinella, Coronavirus, “Corriere della Sera”, 26 marzo 2020, https://www.corriere.it/salute/sportello_cancro/cards/coronavirus-quanto-ne-sapete-domande-risposte-scientifiche-fondazione-veronesi/i-virus-sono-comparsi-terra-prima-o-l-uomo.shtml
[2] H. F. Osborn, Il pianeta saccheggiato, Bompiani 1950.
[3] Global Preparedness Monitoring Board, A World at Risk. Annual report on global preparedness for health emergencies, settembre 2019, p. 6, https://apps.who.int/gpmb/annual_report.html.
Photo Credits: “Human vs Nature” by Martin Teschner is licensed under CC BY-ND 2.0
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 46 di maggio-giugno 2021: “La salute non è una merce“
Daniela Padoan
Associazione Laudato sì
8/5/2021 https://www.attac-italia.org
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