Vite negate: in Italia si muore di Tso e lo Stato si autoassolve
Pazze, schizzati, sbroccate, fuori di testa, sciroccati!
Gli aggettivi e i sostantivi per descrivere persone che vivono situazioni di disagio psichico – più o meno intenso – sono tantissimi e tutti definiti da un minimo comun denominatore fatto di stigma, di etichettamento, di confinamento all’interno di una sola categoria: quella del matt* (ancora, nel 2018).
Esattamente 40 anni fa, a seguito di una lunga battaglia combattuta per lo più nei corridoi e negli angusti e chiusi spazi dei manicomi, veniva approvata in Italia la Legge 180 (meglio conosciuta come Legge Basaglia). Una legge attraverso la quale veniva riformata l’assistenza psichiatrica ospedaliera e territoriale, tramite il superamento della logica manicomiale coercitiva.
Di pochi giorni fa è invece la notizia della morte di Jefferson, giovane di origini ecuadoriane, ucciso nel corso di un intervento di TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio) effettuato dalle forze di polizia nella sua abitazione genovese, a seguito della chiamata della madre del ragazzo. La donna infatti, a fronte dell’inasprimento di una lite con il figlio, aveva chiamato il 118 perché fortemente impaurita per il suo comportamento aggressivo. Ma di cosa ci parla questo tragico evento e l’agghiacciante dibattito che ne è seguito?
Non si tratta, come vorrebbero farci credere le testate giornalistiche, di una “lite finita male” o della reazione scomposta di un ragazzo “ai margini”. Quanto accaduto nella periferia genovese rappresenta infatti la punta di un iceberg che sotto nasconde qualcosa di profondo e spesso indicibile: l’isolamento, la solitudine, se non la negazione di vite fatte di sofferenze psicologiche profonde. Vite che a volte valgono poco, se non nulla. Vite in cui i Trattamenti Sanitari Obbligatori diventano una ritualità: si entra e si esce ciclicamente dagli SPDC (Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura) senza soluzione di continuità. Lo dice bene Franca Ongaro Basaglia, quando scrive che la Legge 180 rappresentava una Legge “quadro” che, immediatamente inglobata dentro la Riforma del Sistema Sanitario Nazionale (nello stesso 1978), rimase bloccata in un limbo senza mai assistere alla definizione di un piano adeguato di finanziamenti, di articolazione territoriale, di ri-organizzazione complessiva dell’assistenza psichiatrica. Ciò ha significato, in molti casi, una mera applicazione tecnica della Legge e un forte ridimensionamento del portato critico-riflessivo che aveva accompagnato la sua realizzazione, determinando nuove forme di istituzionalizzazione diffusa dei pazienti psichiatrici e l’utilizzo di nuove e vecchie pratiche contenitive e coercitive. Accade così che, a fronte dell’insorgenza di un disagio psichico, il sostegno offerto dai presidi sanitari pubblici è ridotto all’osso (ora più che mai, dati i continui tagli inferti alla sanità pubblica). Si agisce per lo più in un’ottica di riduzione e contenimento dei “danni”, offrendo risposte e risorse del tutto insufficienti a una sofferenza in continuo aumento e che affonda le sue radici nelle strutture su cui si fonda la società.
Succede quindi che si ricorra ai TSO con molta più facilità, che troppo spesso i Trattamenti siano affidati a mani non esperte e che non vengano rispettati i protocolli vigenti in materia.
Trattasi infatti di una procedura strutturalmente discutibile e che sospende temporaneamente la libertà e la capacità di autodeterminazione di un individuo. Per queste ragioni, la sua applicazione prevede un iter complesso: l’intervento di un primo medico per richiedere il trattamento, di un secondo medico psichiatra che lo convalidi, del sindaco o di un suo sottoposto che predisponga l’ordinanza, di operatori tecnici di ambulanza e forze dell’ordine che la rendano eseguibile, di un giudice tutelare che entro 48 ore convalidi il trattamento. Troppo spesso la discrezionalità e l’opacità nell’applicazione di tale protocollo trasfigurano quello che dovrebbe essere uno strumento di tutela (in ogni caso contradditorio) in un dispositivo repressivo e punitivo. In Italia, infatti, di TSO si muore, e si muore spesso. Solo pochi giorni prima della morte di Jefferson si è assistito alla condanna in primo grado per i tre vigili urbani e lo psichiatra imputati per l’omicidio colposo di Andrea Soldi, morto in seguito a un TSO nel 2015 a Torino. Prima di lui, altre cinque persone sono morte di TSO negli ultimi nove anni e tante altre hanno subito e continuano a subire quotidianamente pratiche e trattamenti violenti e umilianti.
Avere a che fare con persone in forte difficoltà psicologica, che manifestano comportamenti auto o etero lesivi, non è certamente cosa semplice ma questo non giustifica in alcun modo l’utilizzo di pratiche fortemente coercitive e violente e, soprattutto, non può essere considerato un problema di ordine pubblico da gestire e risolvere attraverso interventi ordinari.
È partendo da queste banali (ma non troppo) considerazioni che ciò che provoca più rabbia e disgusto – oltre alla morte in sé di un ragazzo ventenne che di certo poteva essere evitata – è il dibattito scaturito dopo.
Le difficoltà di Jefferson e il dolore di una famiglia che perde una persona cara in circostanze a dir poco tragiche, cedono il passo alle agghiaccianti dichiarazioni di Salvini a sostegno dei due agenti feriti, perché il Ministro degli Interni – senza se e senza ma – è sempre dalla parte delle Forze dell’Ordine che, parafrasando le sue parole “sono costrette a fare quello che fanno al solo scopo di difendere la popolazione”. Per non parlare poi del discorso di ieri del Capo della Polizia Gabrielli, che gioisce per la prossima introduzione del taser tra le armi in dotazione agli agenti .. possiamo perciò dormire sonni tranquilli per il futuro! Gli unici interventi istituzionali legati a questa morte, sono quindi quelli di un Ministro degli Interni e del Capo della Polizia. Nessuna parola da parte di figure che si occupano di salute mentale, nessun elemento su cui riflettere criticamente nell’ambito della sanità pubblica.
Non viene inoltre rintracciato il benché minimo interesse a capire in che modo prevenire scenari ed esiti come quelli legati alla vicenda accaduta a Genova; o piuttosto di quali pratiche e competenze dotarsi per sostenere e supportate persone che manifestano difficoltà psichiatriche o psicologiche di varia natura; né tantomeno un pensiero o un interesse per le loro famiglie, che vivono situazioni di estrema sofferenza accompagnate da un costante senso di solitudine e abbandono. Il problema, sempre e comunque, è la difesa strenua dell’operato delle forze dell’ordine e la legittimazione di qualunque loro azione.
La storia e la vita di Jefferson escono di scena… d’altronde poco importa dell’esistenza di un ragazzo di origini sud americane, che viveva in periferia e che manifestava comportamenti aggressivi (perché comunque gli mancava qualche rotella)!
È proprio in queste ultime settimane, fatte di eventi drammatici e di vite che sembrano non avere valore (tanto che alcune possono essere lasciate finire in mezzo al mare, in attesa di una qualche lurida autorizzazione), che tornano a risuonare forti le parole di Franco Basaglia (1968), riferite alla lotta contro le “istituzioni totali” e contro ogni forma di esclusione, annichilimento e repressione dei soggetti vulnerabili:
“Il rovesciamento di una realtà drammatica ed oppressiva, non può dunque attuarsi senza una violenza polemica nei confronti di ciò che si vuole negare [..] La polemica al sistema istituzionale esce dalla sfera psichiatrica, per trasferirsi alle strutture sociali che lo sostengono, costringendoci ad una critica della neutralità scientifica, che agisce a sostegno dei valori dominanti, per diventare critica e azione politica”.
Questa è la cornice da tenere sempre presente, perché quello che ci preme e ci riguarda tutt* non è la “cura del sintomo” ma è l’individuazione e l’annientamento delle sue cause, delle condizioni di solitudine, di povertà, di precarietà esistenziale e materiale che ci rendono sempre più esposti a cortocircuiti psichici ed emotivi, è la rivendicazione e il riconoscimento dell’unicità e dell’irripetibilità di ogni singola esistenza!
La combriccola del Cappellaio
14/6/2018 www.dinamopress.it
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