Vite rinviate

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1. Che la crisi non fosse terminata né che fosse congiunturale appare ormai evidente anche a chi non frequenta abitualmente i territori dell’economia e della finanza. Così come è probabile che gli effetti più virulenti, sia sul piano del benessere materiale sia su quello dell’immaginario, dobbiamo ancora vederli. Ma qual è realmente l’entità della crisi e cosa ci dobbiamo aspettare per i prossimi mesi e i prossimi anni?

La crisi che è cominciata nel 2007 e che a qualcuno sembrava attenuarsi, se non essere superata, è riesplosa con violenza circa un anno fa e ha assunto una connotazione un po’ diversa: prima sembrava che il problema fosse solo quello delle banche, adesso sembra che sia soprattutto quello degli stati, dei bilanci pubblici. È una crisi gravissima perché nasce dal fatto che è stato lasciato incancrenire un problema che avrebbe dovuto essere affrontato già nell’autunno 2008, quando fallirono alcune grandi banche negli Stati Uniti e in Europa (soprattutto nel Regno Unito). Le banche sono state salvate a suon di parecchi trilioni di dollari, somme che non potevano non influire sui bilanci pubblici. Parliamo di trilioni di dollari e di euro: più di sedici trilioni di dollari negli Stati Uniti, intorno ai tre, quattro trilioni di euro in Europa. Il sistema finanziario uscito da quella prima crisi si è rimesso in piedi, almeno in apparenza, con una certa rapidità e già nel 2010 i problemi che prima sembravano gravare sulle banche si sono scaricati sui bilanci pubblici, che essendo dissanguati dai salvataggi delle banche oggi hanno maggiori difficoltà anche per affrontare le spese ordinarie.

2. Che effetti reali sta avendo o potrà avere la crisi sui settori nevralgici del nostro assetto statale – primo fra tutti il welfare – necessari a evitare l’erosione definitiva dei legami sociali che tengono insieme una nazione?

È emerso un paradosso: coloro che avevano già avuto i danni principali dalla prima fase della crisi, quelli che hanno perso il lavoro, la casa, che hanno visto ridursi le prestazioni, adesso sono chiamati a contribuire, a pagare sotto forma di misure di austerità durissime che toccano in varia misura tutti i paesi dell’Unione Europea. Non si vede quale possa essere la fine perché ridurre alla ragione il mondo finanziario sembra estremamente difficile. Quella che ci appare come una crisi di bilanci pubblici in realtà è una crisi di bilanci privati, soprattutto delle banche e del sistema finanziario internazionale. Il peso di questa finanza sregolata, sovraccarica di debiti e di titoli che non si sa più quanto valgono, ha poi avuto e sta avendo in quest’ultimo anno ricadute drammaticamente negative sull’economia reale, sulla produzione, sui prezzi, sul livello di vita, sull’occupazione. I governi, a cominciare da quelli dell’Ue, prendono decisioni assurdamente sbagliate: l’austerità è una ricetta sbagliata per combattere la crisi perché incide negativamente sul reddito, sull’occupazione, sulla produzione, sul credito. In questo modo è probabile che le cose continueranno a peggiorare.

3. Cambiamenti così improvvisi e radicali da far sembrare obsoleti tutti i paradigmi economici pensati finora (compresi quelli della sostenibilità e della decrescita) costringono a uno sforzo di “immaginazione sociologica” che risulta essere, forse, l’esercizio più realistico e pragmatico che possiamo fare. Fermo restando la necessità di piccoli interventi a impronta riformista in grado di consentirci di attraversare il disastro con il maggior grado di giustizia ed equità, si sente di ipotizzare cosa dovrà differenziare l’economica del dopo-crisi da quella attuale?

Qualcuno pensa ancora di uscire dalla crisi cercando di “rilanciare”, di rimettere in piedi il sistema economico usando le vecchie ricette, pensando di produrre sempre di più le stesse merci, continuando a liberalizzare. In questo modo la crisi non potrà che aggravarsi portando con sé conflitti molto seri. Già si avvertono un po’ in tutti i paesi, perfino negli Stati Uniti, forme di rabbia e di disagio che hanno radici profonde e diffuse. La politica sembra del tutto cieca dinanzi a questi problemi e a questi rischi. Un’economia diversa dovrebbe per prima cosa fondarsi su una produzione sostenibile, mentre quella attuale non lo fa assolutamente e potrà reggere ancora solo qualche anno. Occorrerebbe ripensare alla radice i consumi energetici inquadrandoli in politiche di risparmio, piuttosto che cercare nuove fonti per continuare a sprecare l’energia, come si fa attualmente. Occorrerebbe ridare contenuti professionali a gran parte del lavoro, oggi sempre più asservito, meccanizzato, robotizzato in ogni settore della produzione. Molti centri di ricerca, molti siti hanno elaborato documenti utili a tal fine. Ma a livello pratico finora si è visto ben poco.

4. Come possiamo immaginare il mondo del lavoro nei prossimi trent’anni, soprattutto in relazione all’agonia dell’attuale sistema formativo italiano (da quello professionale a quella accademico)?

Il problema principale per una nuova economia è quello dell’occupazione: non si tornerà mai ai livelli del 2007, ci sarà un’occupazione sempre più povera, frammentaria, precaria, soprattutto a danno di giovani e meno giovani. Il fatto è che dinanzi alla crisi gli stati si stanno nascondendo, fingendo – o credendo, il che è anche peggio – che le cause siano altre e la crisi non sia così grave. È anche per questo che non si intravede una politica dell’occupazione che sappia combinare i tre elementi fondamentali: un superamento della crisi americana, un rinnovato modello di sviluppo e soprattutto la forza politica dell’occupazione. Negli Stati Uniti c’è stato da poco un interessante progetto di legge lanciato da Obama che ha ripreso alcune delle idee che furono alla base del New Deal, in particolare che nei momenti di crisi lo Stato deve essere “il datore di lavoro”. È un piano da 447 miliardi di dollari che sembra preso dai progetti rooseveltiani del New Deal e definisce le cose fondamentali da fare: ristrutturare 35-40mila scuole, le infrastrutture che stanno cadendo a pezzi e altre cose del genere ad alta intensità d’occupazione. Il problema di fondo è che non si sa come riuscirebbe a pagare tali opere, è se i repubblicani, che ormai hanno la maggioranza alla Camera dei rappresentanti, glielo lasceranno mai fare. Quel documento rimane però di grande interesse perché suggerisce un ritorno dello Stato a uno dei suoi compiti fondamentali: creare lavoro. Non pensando a produrre più auto, computer, merci inutili, ma badando alle piccole cose importanti (ponti, case, scuole, rete ferroviaria, alberi!). La crescita lasciata al business, all’idea che si possa tornare al modello produttivo precedente la crisi non farà che preparare un suo esito drammatico.

5. Esiste veramente in Italia un interesse gerontocratico che va a discapito dei giovani, o si tratta di uno schema mentale indotto per scatenare una sorta di guerra tra poveri, dove il giovane precario deve contendersi qualche briciola di welfare residuo con il pensionato minimo o almeno sperare che i tagli più pesanti tocchino all’altro?

I contenuti della cosiddetta “questione generazionale”, da un punto di vista tecnico e scientifico, sono pari a zero. I contenuti ideologici al contrario sono molto invadenti e in qualche modo inventati, in parte da un personale politico di crassa incompetenza, in parte diffuso dai think tank, dalle fabbriche di ideologia che hanno tutto l’interesse a mostrare quel tipo di quadro per aprire nuovi varchi alla privatizzazione, alla vendita dei beni pubblici, dei beni comuni, alla lotta allo Stato sociale. La questione, così posta, non sta in piedi: per quanto riguarda le pensioni, queste sono ancora il miglior patto tra le generazioni, i giovani pagano le pensioni agli anziani con i loro contributi, avendo la certezza che quando saranno anziani un’altra generazione pagherà le loro.
La distinzione che spesso compare sui quotidiani e in televisione secondo la quale la potenza produttiva, la forza lavoro è divisa tra garantiti e precari, non sta in piedi. E non si capisce con quale faccia tosta si possa ancora sostenerla. Ci sono miliardi di eurointegrazioni che hanno girato in questi anni, ci sono stati centinaia di migliaia di licenziamenti, ogni tipo di industria e di attività economica è fortemente impattato dalla crisi, le aziende che licenziano o mandano in cassa integrazione o aprono le liste di mobilità sono molte migliaia: la divisione tra garantiti e non è priva di senso perché anche coloro che avevano o pensavano di avere un impiego stabile si trovano improvvisamente precari, compresi strati significativi della classe media. Tra coloro che pensavano di avere un futuro sicuro ci sono anche migliaia di dirigenti.
Che poi la situazione dei giovani sia particolarmente grave perché le nuove assunzioni si fanno ormai a un 80%, cifra inaudita, con contratti precari, questo è realissimo, ma non rappresenta una contrapposizione tra precari e garantiti, quanto una variante tra due o più forme di precarietà. Non tutte le nuove assunzioni riguardano i giovani, che in ogni caso si vedono offrire i contratti da “collaboratore a progetto”, le finte partite iva, le collaborazioni occasionali (e qui sarebbe necessario un intervento legislativo che tagli alla radice la selva dei contratti precari per ridare omogeneità e stabilità al mercato del lavoro). Bisogna pensare a un ritorno a un contratto normale, con la possibilità di alcune eccezioni (dal tempo parziale al contratto a termine). Le politiche del lavoro stanno andando – come mostra l’introduzione nella finanziaria del famigerato articolo 8 – in direzione di una sempre maggiore polverizzazione dei contratti. Ma questo non ha nulla a che fare col conflitto tra giovani e anziani. Riguarda piuttosto l’offensiva che cerca di colpire frontalmente il fronte del lavoro rendendolo il più maneggevole possibile e funzionale alle esigenze di una produzione che è essa stessa sotto il peso schiacciante della crisi finanziaria, diventata ormai crisi dell’economia reale.

6. Siamo convinti che la crisi possa rappresentare anche un’opportunità. Una situazione di stallo o di erosione economica potrà offrire a tutti, soprattutto ai giovani, fondamentali chance di cambiamento: in relazione allo stile dei consumi, a rapporto con il lavoro e all’opinione corrente sulla formazione. Quali saranno le azioni da intraprendere affinché l’occasione di cambiare passo prevalga sul cinismo, la difesa corporativa e, al limite, un’isterica guerra di tutti contro tutti?

La crisi è un’opportunità quando è affrontata dalla politica economica dei governi. Sul piano personale è sempre difficile, a volte disperante, tentare di ribaltare una crisi in un’occasione per nuove alternative di lavoro e di formazione a partire dai nuovi consumi e stili di vita. Certo, si può ricordare ai giovani che il modello di consumo che hanno in gran parte interiorizzato – quale che sia la loro classe sociale – è fabbricato con cura negli uffici marketing delle grandi aziende e poi diffuso capillarmente attraverso mille canali (quello pubblicitario, ma anche quello di molte attività che non sembrano direttamente pubblicitarie). Se riuscissero a sottrarsi all’imperio di quel livello di consumo potrebbero sicuramente aiutare se stessi la società a muoversi verso forme positive di transizione.
Quello che mi sembra importante è che i giovani capiscano quali sono le cause reali della crisi, gli attori in gioco e la corretta gerarchia delle responsabilità. Non possono probabilmente riuscirci da soli, ci vorrebbe un maggiore impegno da parte di chiunque sia in grado di farlo. Moltissimi giovani, a parte una superficiale e diffusa cultura alternativista, non hanno idea di cosa sia una diverso modello di consumo né un diverso modo di lavorare.
Ma questo non può essere chiesto ai giovani, va chiesto alla scuola, all’università, agli intellettuali e in primo luogo alla politica. Si pensi in particolare alla qualità del lavoro, una questione su cui ho lavorato molto in anni passati. Un lavoro che sia professionalmente ricco, che non sia frammentato in mansioni vuote di contenuto della durata, quando va bene, di un minuto o due, che utilizzi le nuove tecnologie per diventare più intelligente non per diventarlo meno: tutto questo, trenta o quarant’anni fa, era un grande tema di discussione, anche tra i giovani. Ora è sparito completamente ma dovrebbe tornare a essere attuale perché le condizioni di lavoro che vengono offerte ai giovani sono sempre più povere di contenuto, oltre che pesanti da sopportare, sempre più insensate dal punto di vista del contributo intellettuale richiesto. La metrica del lavoro che sta scritta negli accordi (o piuttosto nel dettato) di Pomigliano è fondata su unità temporali inferiori al centesimo di secondo: i movimenti imposti alle persone, rigorosamente stabiliti, devono essere eseguiti come un robot. Questo sarebbe un grande tema da proporre ai giovani e potrebbe essere oggetto di una grande rivendicazione.

Dalla rivista “Gli Asini” – settembre 2011

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 29 di Maggio – Giugno 2017: “Non è un Paese per giovani

www.italia.attac.org

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