Vite sessuate dietro le sbarre.
Come potrebbe la prigione non essere la pena per eccellenza in una società in cui la libertà è un bene che appartiene a tutti e al quale ciascuno è legato da un sentimento universale e costante?», si domanda Michel Foucault in Sorvegliare e punire. Dalla sua origine, tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, l’istituzione carceraria viene pensata innanzitutto come castigo «egualitario». Questa storica vocazione del carcere all’«eguaglianza» viene analizzata da Susanna Ronconi e Grazia Zuffa nel libro Recluse. Lo sguardo della differenza femminile sul carcere (Ediesse Edizioni, pp. 315, 16 euro. Il libro è stato presentato ieri a Roma da Cecilia d’Elia, Mauro Palma e Stefano Anastasia), attraverso una griglia interpretativa inconsueta, quella della differenza sessuale.
Eppure, l’impianto della macchina-prigione si configura per la perfetta assenza di «alterità», omologandosi sulla prevalenza della «questione criminale maschile» a partire da un elemento statistico: «la maggioranza di arrestati, condannati e detenuti è di sesso maschile» e le donne rappresentano appena il 4,3 per cento della popolazione detenuta italiana. Popolazione «residuale», dunque, rappresentata per negazione e che fatica a trovare autonomi spazi di soggettivazione. Per altro, la depersonalizzazione e il declassamento dell’individuo attraverso la cancellazioni di diritti (alla privacy, all’affettività, alla salute) sono parte integrante dei disegni del carcere. La sofferenza che tali trattamenti generano si traduce spesso in fenomeni autodistruttivi.
I nessi tra il disconoscimento dei vissuti, piegati e domati, le precarietà esistenziali dei percorsi individuali e le ricadute cliniche sono evidenti, ed esplicitati dalle due autrici. Ronconi e Zuffa muovono da una ricerca condotta nel 2013 nelle carceri di Solliciano, Empoli e Pisa, dando voce e cioè corpo alle donne detenuti: corpi sessuati nei loro desideri e nelle loro resistenze. La rimozione della differenza sessuale all’interno degli istituti penali si inserisce in una schema tradizionalmente insito nella società. Ma il carcere è un microcosmo dove l’inclusione consente di amplificare modelli e simbologie parimenti neutralizzanti e naturalizzanti.
Sessualità da redimere
La principale letteratura sulla carcerazione femminile, dagli inizi del Novecento, mostra come anche per i «riformisti» alla donna può essere riservata una punizione meno dura a patto di sottolinearne la costitutiva dipendenza, fragilità e irrazionalità. Nel tempo, l’apparato repressivo ha dedicato alle donne la reclusione all’interno di riformatori «a scopo preventivo», per reati connessi alla sessualità, come la prostituzione o l’essere madri nubili. Almeno fino alla riforma del 1975, in Italia la gestione della reclusione femminile è stata affidata alle suore con «riproposizione di ruoli femminili tradizionali e di soggezione a imperativi di tipo religioso».
Nel presente, Tamar Pitch ha ripreso il dibattito circa il modello di giustizia e di pena per le donne, mostrando la difficoltà a uscire da una dicotomia stretta tra «la logica dell’eguaglianza, ritagliata su una norma maschile assunta acriticamente» e la severità della giustizia maschile, insensibile alle circostanze in cui le donne commettono reati.
La ricerca qualitativa che costituisce il cuore del testo, con 38 interviste autobiografiche, mette a fuoco la percezione dei dispositivi di detenzione, le strategie di resistenza e l’immaginazione del futuro. La lettura di genere aiuta nel lavoro di scavo e risulta utile nella decifrazione di un universo costruito sull’imposizione della «dipendenza». La donna in carcere non può sottrarsi alla propria rappresentazione «minorata» che chiama in causa «la natura femminile» dentro le mura. La devianza nella donna imprigionata è sintomo, semmai, della sua debolezza, «non pericolosa ma pericolante» per usare un’efficace immagine di Tamar Pitch. Con il rischio, scrivono Ronconi e Zuffa, che le donne «perdano se stesse» poiché i meccanismi di infantilizzazione e passivizzazione sono meno decifrabili, mentre il paternalismo si esercita più agevolmente nei loro confronti.
Emergono, dai racconti, le difficoltà quotidiane della sopravvivenza dietro le sbarre, dentro «la danza immobile del carcere», luogo sprovvisto di un «tempo sensato» le cui regole disciplinano il corpo, il corpo malato che attende cura, che ha bisogno di ascolto. Si ricorre a una gestualità quotidiana (pulire, fare ginnastica, scrivere) per difendersi dal vuoto e dall’ansia, dall’assenza di risposte. Si rintracciano i codici di una resistenza, di una «resilienza», «per tener fede a se stesse, per non farsi invadere dall’istituzione totale», facendo appello a «una drastica alterità rispetto a tutto ciò che il mondo carcerario significa». Ricostruire, anche, la propria identità di persona, soprattutto attraverso le relazioni, in particolare le relazioni affettive, con la famiglia d’origine e con i figli. Mantenersi dentro questa traccia, mantenersi legate al domani attraverso gli amori, soprattutto l’amore materno, con parole commoventi, «con tenerezza, sofferenza e concretezza». Ma questo modo di provare a vivere è, contemporaneamente, il modo di soggiacere al compito assegnato.
Patologie delle norme
La conversazione finale tra le autrici e Maria Luisa Boccia interroga il pensiero e alla pratica femminista del «fuori» come sistema utile per inquadrare il «dentro» delle donne in carcere, mettendoli in rapporto. Nelle parole di Boccia, «il carcere può essere considerato una sorta di laboratorio (…) un modello di controllo sociale che anticipa il modello assai vasto di femminilizzazione della società». Un paradigma, questo, che abbiamo visto dispiegarsi con l’ideologia neoliberale e che recupera il femminile «come un insieme di “valori” da mettere a frutto nella società e non solo in famiglia». Nel carcere diventa un distillato di norme che ricollocano la donna a cavallo tra il «femminile» e il patologico: «per le donne la riabilitazione significa tornare a essere una buona madre e una buona figlia», dice Boccia. Fuori da qui c’è l’«anormalità», intesa come devianza da quel «femminile» che si pretende connaturato e al quale le donne detenute vanno riportate attraverso la «correzione» e la «riduzione a minore».
«Dallo sguardo della differenza femminile», scrivono nelle conclusioni Ronconi e Zuffa, «si affaccia una riflessione che può condurre a scelte di politica carceraria “per le donne e per gli uomini”: la “minorazione” della persona detenuta è parte integrante e necessaria della pena carceraria? Oppure rientra in una lesione del diritto alla dignità e alla salute che eccede la privazione della libertà?».
La Corte Europea di Strasburgo ancora nel 2013 ha giudicato «inumano e degradante» il trattamento impartito nel sistema penitenziario italiano. Nel 2014 si sono avuti 43 suicidi in cella (fonte, RistrettiOrizzonti.it). Al 30 giugno 2013 in carcere con le madri si trovavano 52 bambini sotto i tre anni (Istat).
Cristina Morini
25/2/2015 www.ilmanifesto.info
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