Vivere e morire da migrante in Europa

Vivere e morire da migrante in Europa

Maslax Moxamed, è morto suicida a 19 anni, nei pressi del Centro d’accoglienza di Santa Palomba (Pomezia) dove è stato rinvenuto impiccato il 15 marzo 2017. Lo vogliamo ricordare, perché questo avvenimento è passato nella quasi indifferenza di un pubblico che non ha tempo per pensare. Maslax era arrivato in Italia nell’agosto del 2016, proveniente dalla Somalia. Dopo due mesi presso il centro Baobab, a causa dello sgombero, aveva cambiato più volte luogo di alloggio seguendo i volontari che cercavano punti in cui poter accogliere i migranti cui davano assistenza. Fino a che aveva deciso di andare a Milano per poi raggiungere il Belgio.

Lì, per qualche mese, era riuscito a ricongiungersi con sua sorella, accompagnato nel viaggio da un amico. Ma a gennaio del 2017 è stato costretto dalle autorità a ritornare a Roma, secondo quanto stabilito dal Regolamento di Dublino che prevede che sia il paese di prima accoglienza quello che deve esaminare la domanda d’asilo. Il paese in cui il migrante deve lasciare le sue impronte, insieme alle generalità, dal momento che spesso i documenti personali non li ha. Un procedimento molto frequente per quanti pensano di poter passare attraverso l’Italia, considerata luogo di transito, per poi ricongiungersi a familiari o amici. Vengono chiamati dublinanti.

Maslax aveva un occhio quasi cieco a causa delle torture subite. Aveva affrontato un viaggio rischioso, ma riusciva a sorridere e a pensare ad un futuro, da quando era sbarcato in Italia. Pensava di poter raggiungere un altro paese, oltre al Belgio. Chissà, forse anche gli Stati Uniti. A 19 anni, si hanno speranze per il proprio futuro, si fanno progetti e si deve avere un grande coraggio e una grande forza d’animo, soprattutto quando si nasce in uno Stato come la Somalia, uno tra quei Paesi che subiscono pesantemente gli effetti di un sistema predatorio, quale quello in cui siamo immersi, del capitalismo avanzato della nuova fase sviluppatosi a partire dagli anni Ottanta del Novecento.

Il complicato sistema di accoglienza e di identificazione, limita la possibilità di vita in alcuni schemi rigidi, che non prevedono, né considerano la vita concreta delle persone, con tutte le sue possibilità e le sue variabili impreviste. Non si considera la persona umana con la sua storia, i suoi bisogni e i suoi desideri, che non si limitano all’avere un tetto e qualcosa da mangiare.

Formulo alcune umanissime domande che potrebbero far parte di un protocollo d’accoglienzaper chi migra, da utilizzare nel paese d’accoglienza. Qualcosa che avrebbe potuto evitare un gesto così estremo e assurdo per un giovane somalo di 19 anni, scampato alle torture e sopravvissuto ad un viaggio che per molti significa morte certa. Un protocollo che potrebbe contribuire ad una gestione del fenomeno migratorio, più umana e in una prospettiva non di mura di confine, ma di cittadinanza universale:

Qual è la vita vissuta finora? La sua storia è di persecuzioni, di povertà, di ricerca di lavoro? Conosce una lingua veicolare che gli consenta di capire e farsi capire? Ha familiari o anche amici, che possano accoglierlo o con cui entrare in contatto? Quali sono le sue potenzialità, come organizzare un’accoglienza che lo possa accompagnare all’inserimento attivo nella società?”

Centri d’accoglienza, C.A.R.A., Hot Spot, campi profughi e altro ancora

Quale sia la realtà dei centri d’accoglienza, non è sempre possibile saperlo, perché spesso non ci si può entrare e sono dislocati in luoghi difficili da raggiungere. I racconti che provengono da questi luoghi sono spesso storie di disagi, abbandono, quando non sono narrazioni di veri e propri luoghi di sopraffazione. Spesso assomigliano più a luoghi di detenzione dove si identificano individui considerati potenzialmente pericolosi, che luoghi di accoglienza. Non hanno personale e strumenti sufficienti a rispondere ad un evento epocale come quello che stiamo vivendo. Insieme ai racconti desolanti, ci sono quelli della grande generosità di chi si adopera per salvare, accogliere e curare, singoli o associazioni, sindaci o comunità che superano i limiti imposti dalle difficoltà economiche o dalle stesse norme. Ma questo è sempre non abbastanza quando ci si trova in una fase in cui bisognerebbe cambiare rotta nelle politiche migratorie europee.

Nel territorio a sud di Roma, oltre al centro d’accoglienza speciale gestito dalla Domus caritatis a Pomezia, nella zona litoranea fino ad Anzio e Nettuno ci sono altri cinque centri di accoglienza. In anni precedenti, qui dove era stato mandato Maslax, avevamo provato a portare un contributo. Cittadini e cittadine, associazioni, si faceva raccolta di vestiario ed altro, pensando a possibili attività per far uscire dall’isolamento chi soggiornava nel centro e per superare la diffidenza degli abitanti del territorio. Proponevo anche una collaborazione volontaria per la formazione linguistica, essendo l’esperienza della nostra associazione specifica nel campo dell’integrazione e dell’accoglienza. Ma non ci è stata data risposta, sempre complicazioni. Avevamo incontrato nel cortile i giovani provenienti da vari stati dell’Africa, a cui avevamo chiesto come fosse possibile avere il coraggio di intraprendere un viaggio così rischioso. Le famiglie siriane erano solo di passaggio. Ora lì non si può più fare domande senza il permesso del prefetto.

E loro raccontavano la storia del loro viaggio, della povertà dei loro paesi dove a causa delle guerre o della mancanza di infrastrutture, della desertificazione dei territori, non vedevano possibilità di vita futura. Espulsi dai loro stessi paesi, come i milioni di persone che si spostano nel mondo da ogni paese, che faccia parte di quelli depredati e in cui continui l’opera delle politiche economiche estrattive. In nome del profitto, da parte di un sistema capitalistico divenuto complesso, cresciuto con il supporto delle tecnologie e gestito da gruppi finanziari internazionalmente influenti con l’assenso dei governi a cui sono in qualche modo connessi.

Sfollati, sfrattati, esiliati, profughi, migranti

Il modo in cui le persone vengono espulse dall’economia e dalla società seguono meccanismi diversi che sembrano non avere nulla in comune tra loro. Ma dai dati che possiamo leggere in indagini statistiche svolte da diversi enti, vediamo in modo chiaro che il Sistema in cui viviamo concentra le ricchezze in poche mani. Si serve delle innovazioni tecnologiche per agire in maniera ancora più capillare nella complessità della mondializzazione dell’economia, senza che sia evidente quali siano i passaggi di una finanza sempre più raffinata nei suoi metodi. Al livello dell’astrazione teorica, sfuggono la concretezza e la particolarità dei fatti. Si cercano categorie di riferimento, concetti chiave che probabilmente sono già superati e che devono essere di nuovo rimessi in gioco e confrontati, per essere verificati e per poter comprendere la realtà.

Ci sono dispositivi che forse non sono ancora comprensibili o spiegabili, ma gli effetti sono lampanti nell’ambiente depredato e nella povertà dilagante. Se partiamo solo da teorie astratte, settoriali, dai dati senza corpo, non riusciremo ad afferrare ciò che la vita concreta, e anche la morte, ci pongono davanti agli occhi ogni giorno.

Laura Nanni

29/4/2017 www.lacittafutura.it

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