Voglio mangiare il tuo pancreas vs La paranza dei bambini
Contrariamente al titolo, apparentemente post-moderno, Voglio mangiare il tuo pancreas è un film dotato di un contenuto sostanziale, di una forma pienamente adeguata al contenuto e in grado di assicurare un notevole godimento estetico allo spettatore, al quale lascia anche non poco da riflettere. Al centro del film sono le grandi tematiche esistenziali della vita dell’uomo, su cui da sempre si interroga il pensiero esistenzialista, dal senso della vita, alla necessità della morte, dal vivere per morire, alla ricerca della propria reale individualità, al di là dei molteplici modi in cui la mascheriamo per andare a genio agli altri. Nel film è rappresentata un’esemplare dialettica dei contrari che hanno ognuno come proprio destino, di cui ciascuno è il più o meno consapevole artefice, di entrare in rapporto per definirsi nell’incontro-scontro con il proprio altro. Ritroviamo così, al centro del film, la dialettica del riconoscimento fra due autocoscienze che, pur muovendo dal presupposto opposto di essere ognuna certa di essere la fonte di ogni verità, deve necessariamente nel serrato confronto con l’altro da sé, imparare a riconoscere i propri limiti, apprendendo ad apprezzare l’altro pur nella sua radicale differenza, anzi nel suo porsi come l’opposto del proprio io soggettivo. Sino ad arrivare al necessario momento catartico del superamento della lotta delle autocoscienzemediante la reciproca remissione dei propri peccati, ovvero del riconoscimento dei propri limiti e, quindi, del necessario rapporto con l’altro che, proprio in quanto opposto, finisce nella sua speculare unilateralità per colmare la radicale finitudine del suo opposto.
Altro tema esistenziale mirabilmente svolto è la problematica altrettanto essenziale del vivere per morire, non a caso indissolubilmente legata al percorso di formazione che porta il fanciullo alla complessa conquista della maturità. In tale travagliato processo di auto-formazione, sempre nella relazione dialettica con il proprio altro, diviene decisiva la scoperta della propria radicale finitudine. Il limite fondamentale della fanciullezza – stadio che ogni persona sana cerca in ogni modo di superare per conseguire l’agognata maturità e che solo un vecchio arido e privo di principio speranza e di spirito dell’utopia può vanamente rimpiangere – è la mancata consapevolezza dei propri limiti. Per cui si spreca una enorme quantità di tempo, di energie, si corrono una serie infinita di rischi, si attenta in ogni modo alla propria futura sopravvivenza, proprio perché per esorcizzare la paura della morte ci si crogiola nella stolta illusione della propria immortalità.
È, così, proprio la scoperta del proprio essere per la morte, della propria radicale finitudine – che questa esemplare coppia di opposti, che inevitabilmente si attraggono, realizzano in comune – a consentire loro di conseguire la giustamente agognata maturità. Certo, anche questo decisivo superamento dialettico non può compiersi senza il momento del togliere per sempre quanto c’è di caduco, di non più attuale, nel momento precedente. D’altra parte, solo così si supera il limite di ogni neofita autocoscienza, ossia di avere la certezza di essere, in quanto tale, nella propria singolarità necessariamente finita, la fonte di ogni verità. Per questo nel film si insiste a ragione sul travaglio del processo di formazione del giovane protagonista che, muovendo da questa presunzione della propria autosufficienza e assoluta libertà, dovrà scontare il progressivo venir meno di tutte le sue precedenti presunte certezze.
Solo in tal modo il bruco può finalmente riuscire a uscire dal bozzolo in cui si è consapevolmente rinchiuso nella vana ricerca di trovare in sé stesso, nella propria individualità, necessariamente finita, la ragione del proprio essere. La vita e la sua gioia si esprimono solo uscendo dalla propria unilateralità e imparando a trovare la propria ragione di essere nelle relazioni di reciproco riconoscimento che si impara a stabilire con gli altri. In tal modo ci si libera dalla tenebra del quotidiano, dalla dispersione nelle tendenzialmente infinite preoccupazioni e vicissitudini quotidiane, aprendosi al principio speranza, dal momento che – proprio perché la propria ragione di essere è nel rapporto con gli altri – non si è più condannati all’altrimenti inevitabile essere per il cadavere.
Nel mettere in gioco se stessi nel rapporto con l’altro, nel curarsi dell’altro, nello stabilire un’empatia e una capacità di riconoscimento nella reciproca e insuperabile differenza, si riesce a intravedere la possibilità di continuare a vivere nelle persone che si è contribuito a formare. Da questo punto di vista i propri limiti, i propri difetti, i tragici eventi che ci costruisce il nostro destino possono divenire un punto di forza, che ci spinge a superare i nostri limiti nell’aprirci e nel farci contaminare proprio dal radicalmente altro, dal diverso.
Passando ai limiti di questo intenso e commuovente film, non possiamo che mettere in evidenza come manchi del tutto in questo processo di formazione il momento altrettanto indispensabile della coscienza sociale, del senso della storia, della propria responsabilità verso il mondo e, quindi, dell’indispensabile impegno nella lotta per l’ulteriore emancipazione del genere umano contro le forze della reazione che cercano in ogni modo di impedirlo. Questo necessario superamento della dimensione per quanto essenziale dell’amore per l’altra metà di sé, che si trova nella vita comune con il proprio partner, attraverso la presa di coscienza della propria responsabilità storica e sociale, appare del tutto estraneo a questo pur pregevole film e ne costituisce indubbiamente il più significativo limite.
La parenza dei bambini, vergognosamente premiato come migliore sceneggiatura all’ultra postmoderno festival di Berlino, è un film rivolto a compiacere quel pubblico talmente povero spiritualmente che nei giornali si appassiona unicamente alle storie romanzate di cronaca nera. Il film è una inconsapevole versione farsesca delle grandi tragediestorico-sociali messe in scena dal grande cinema neorealista italiano. Nel film non c’è nulla dello spirito del neorealismo, del “vento del nord” della resistenza, di chi assumeva un’attitudine nettamente critica verso il mondo esistente in quanto animato dallo spirito dell’utopia per un mondo completamente diverso, decisamente più giusto, umano e razionale. Nel film, al contrario, non c’è la minima traccia di spirito dell’utopia, anzi non c’è neanche un briciolo di principio speranza e, quindi, domina incontrastata la tenebra del quotidiano. Le uniche vie d’uscita praticabili sembrano essere quelle degli apparentemente grandi esponenti criminali di una malavita quanto mai disorganizzata.
Il film, dunque, del neorealismo riprende solo degli aspetti formali esteriori, a partire dagli attori non professionisti, e si presenta, dunque, come un epigonale prodotto manieristico di seconda qualità. Inoltre ai suoi autori piace evidentemente, come ai cultori di cronaca nera, rimestare nel torbido, cogliere gli aspetti più terribili e disumani della realtà. In tal modo, però, l’immagine che ci restituiscono della realtà è un’immagine deformata, del tutto astratta, proprio perché di essa colgono solo gli aspetti più crudi, squallidi e, soprattutto, privi di qualunque speranza. In tal modo non solo ci si compiace vergognosamente della propria visione distorta e sostanzialmente malata della realtà, ma si tende a naturalizzarla, come se fosse l’unico destino possibile per i giovani che hanno la sfortuna di nascere nelle periferie più sottoproletarie del nostro paese.
In tal modo, infatti, si fa sparire qualsiasi differenza fra l’essere in sé sottoproletari – il che ovviamente non è una colpa, anzi costituisce una solida attenuante – e il divenirlo per sé, in modo consapevole e responsabile. Allo stesso modo si annulla, sulla base del più bieco e rozzo positivismo, ogni differenza tra l’avere la mala sorte di nascere in un ambiente criminale e il divenirlo consapevolmente. Come se un povero sottoproletario che nasce in un tale disgraziato habitat non possa, quasi fosse un animale, che cercarsi di adattarvisi nel modo migliore, visto che solo i più capaci ad adattarsi hanno poi modo di riprodursi e di favorire lo sviluppo della specie. Come è evidente, finiamo così nel più becero darwinismo sociale che tende a criminalizzare non solo la povertà, ma l’alterità in quanto tale. Al punto che i sottoproletari, persino da adolescenti, vengono rappresentati come se non fossero altro che animali mossi unicamente dall’istinto di sopravvivenza e dalla volontà di potenza. Si tratta, evidentemente, di una visione del mondo biecamente classista, tipico prodotto del nostro più famoso “eroe di carta” nazionale, non a caso idolatrato dal tipico acritico lettore de “La Repubblica” ed elettore del Pd, ossia il rappresentante di quella “sinistra” a tal punto degenerata da far apparire agli ignoranti preferibile persino la destra.
Creed II, di Steven Caple Jr., è un tipico prodotto meramente culinario dell’industria culturale, particolarmente insidioso in quanto manifesta un spiccata nostalgia per una ripresa, fuori tempo massimo, della guerra fredda contro la Russia, che nella mente malata degli artefici di questa dozzinale merce resta sempre e comunque, persino ora che è approdata al capitalismo, l’impero del male. Ancora una volta non possiamo che costatare mestamente l’assurda pretesa dell’ideologia purtroppo dominante nel mondo occidentale di ritenere veramente umano solo il rappresentante del proprio mondo, imperialista, considerando l’altro come una disumana belva assetata di sangue. È altrettanto allarmante osservare come il mondo imperialista occidentale per mantenere la sua unità, al di là del constante riprodursi delle conflittualità inter-imperialiste, abbia sempre bisogno di rappresentarsi un nemico assoluto, rappresentante il puro male, da combattere uniti, superando persino i pregiudizi razziali, così radicati e così necessari all’imperialismo statunitense per mantenere in uno stato plebeo il proletariato statunitense privo di coscienza di classe.
Detto questo, è al solito sostanzialmente impossibile stabilire cosa è peggio, ovvero un tipico prodotto come quest’ultimo dell’industria culturale statunitense o un altrettanto tipico prodotto dell’industria culturale italiana ed europea come La paranza dei bambini. Il secondo, al solito, è certamente più raffinato intellettualmente del primo, ma anche più perverso, in quanto non così privo di coscienza critica come lo statunitense. Inoltre, il secondo è anche decisamente meno schematicamente ideologico del primo dal punto di vista del contenuto, ma decisamente di più dal punto di vista della forma, a causa della nefasta influenza dell’ideologia post-moderna.
In tal modo, però, l’imperialismo marcia diviso per colpire unito, ossia c’è un evidente divisione dei compiti per cui l’industria culturale americana è generalmente più rivolta a catechizzare le grandi masse, mentre i prodotti dell’industria culturale europea hanno tendenzialmente come target il lavoratore della mente, da mantenere ben chiuso nella prigione dorata del pensiero unico dominante.
Renato Caputo
23/02/2019 www.lacittafutura.it
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