“Volevo che morissimo come una famiglia”: le donne di Gaza descrivono gravidanza, aborto spontaneo e parto in una zona di guerra

La confluenza di bombardamenti costanti, mancanza di cure mediche, malnutrizione e l’impossibilità di mantenere un’igiene minima costituiscono una triste realtà a Gaza per le donne in gravidanza e le neomamme, in una guerra che ha superato da tempo il nono mese

Fonte: English  version

Nagham Zbeedat – 17 ottobre 2024 

Immagine di copertina: Una madre palestinese sfollata tiene la figlia in una tenda a Deir Al-Balah, nella Striscia di Gaza centrale, il mese scorso. Credito: Ramadan Abed/Reuters

“Il mio bambino è stato costretto a svezzarsi”, racconta Reham (nome di fantasia), una madre di 21 anni originaria di Gaza, nella parte settentrionale della Striscia. Non potendo allattare il figlio di 10 mesi a causa della sua malnutrizione, dice che prendersi cura di lui sotto una minaccia costante è stato estenuante.

Reham e suo marito sono stati sfollati a Sud quando lei era al settimo mese di gravidanza. “Abbiamo dovuto fuggire proprio nel mezzo dei bombardamenti. È stato terrificante”. La paura ha persino “scatenato i sintomi di un parto prematuro”, racconta, e il 29 dicembre si è precipitata in ospedale.

L’ha trovato “così sovraffollato che non c’era nemmeno un letto disponibile in sala parto per me”. Dopo averne finalmente trovato uno, è entrata in travaglio con una supervisione medica limitata. “Sono stata in travaglio per oltre 14 ore. Non mi hanno dato alcuna assistenza, si aspettavano che mi dilatassi da sola. Ma avevo bisogno di un medico che supervisionasse il mio caso”, dice.

Per Reham, le condizioni antigieniche dell’ospedale hanno aggravato le circostanze già orribili. “Una donna partoriva e poi dovevi sdraiarti sullo stesso letto, con il suo sangue e il suo sudore ancora addosso”, ricorda. “Non c’erano assorbenti o un modo per pulirsi dopo il parto”. L’igiene anche minima era “inesistente”.

Ma la parte più difficile è stata l’isolamento. “Ho partorito da sola”, racconta. “Mia madre era ancora a Gaza, a mia suocera non è stato permesso di restare in ospedale a causa dei pesanti bombardamenti”, e anche suo marito non era presente. “Ero lì completamente sola”.

Alla domanda su quando è stata dimessa dall’ospedale, Reham sorride. “Pochi minuti dopo il parto. Erano decisamente al di sopra della capienza e avevano un disperato bisogno di posti letto”.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, a settembre, 17 ospedali a Gaza erano parzialmente funzionanti, su un totale di 36 ospedali in tutta la Striscia.

Secondo i dati pre-guerra, Gaza ha il secondo più alto tasso di natalità in Medio Oriente (dopo la Cisgiordania) con donne che danno alla luce in media 3,26 bambini; il 38,8% della popolazione ha meno di 14 anni. I tassi di mortalità materna e infantile erano relativamente bassi.

Con il crollo del sistema sanitario e la guerra al suo secondo anno, le donne continuano a partorire e prendersi cura dei neonati in una crisi umanitaria in continuo peggioramento. Secondo le Nazioni Unite, circa l’84% degli abitanti di Gaza sono stati sfollati, molti dei quali in tende e rifugi sovraffollati che non dispongono dei servizi di base.

Dopo aver partorito, Reham è tornata in “una tenda sovraffollata”, dove viveva con suo marito e la sua famiglia.

“Non c’era intimità lì ed era ben lontano da un ambiente di guarigione”, dice. Trovare prodotti di base come assorbenti e altri articoli per la cura era una lotta. Quando ci riusciva, erano proibitivamente costosi. “Quando mio marito ha comprato una confezione di assorbenti, mi è sembrata una serata di festa”, nota.

“A volte”, confida Reham a proposito di suo figlio, “vorrei non averlo avuto. A volte mi sembra che sia troppo, mi travolge”.

Vive con la paura che i suoi cari possano essere portati via da un momento all’altro. “Devi accettare la possibilità che in qualsiasi momento ci possano essere delle ‘cinture di fuoco’”, riferendosi a un intenso bombardamento concentrato in un’area, “o un’invasione di terra, e potresti perdere tuo marito o tuo figlio”.

“Mi sono semplicemente svegliata un giorno con delle responsabilità che non avrei mai immaginato di dover affrontare da sola”, senza il supporto della famiglia. “Se fossi diventata madre in un periodo senza guerra, non avrei pensato che fosse un peso”.

Ma quando Reham ha scoperto di aspettare un figlio, prima della guerra, era fiduciosa. “È stata una sensazione incredibile, come nessun’altra”, ricorda. “Stavo comprando tutti i vestiti e i giocattoli di cui un bambino ha bisogno” e “stavo decidendo in quale ospedale partorire”.

Ma quando è scoppiata la guerra, le possibilità di scelta di Reham si sono ridotte drasticamente. La sua casa è stata colpita il 13 ottobre e dice di essere diventata “incredibilmente ansiosa su come e dove avrebbe partorito”.

Dopo aver partorito suo figlio, tornare nella tenda in cui viveva le ha dato poco conforto. Non potendo fare la doccia, è stata costretta a far bollire l’acqua per lavarsi. Ma “il fumo era soffocante” e, giorni dopo, Reham ha iniziato ad avere difficoltà a respirare a causa dell’esposizione al fumo e del freddo. “Ancora oggi soffro di difficoltà respiratoria e mal di schiena” a causa del freddo, dice.

Suo figlio ha sviluppato un’infezione fungina della pelle, che non è stato possibile curare dopo che il medico “le ha prescritto un trattamento che non è nemmeno disponibile”.

Reham ha anche sofferto di depressione post-partum. “Non avrei mai immaginato di trovarmi in una situazione come questa”, dice. “Sto vivendo tutto per la prima volta, nelle peggiori condizioni”.

Anche le tappe dello sviluppo sono state segnate dalla guerra. Le prime parole di suo figlio sono state pronunciate mentre erano sfollati per la terza volta, racconta. “Ha detto ‘baba’ (papà) mentre stavamo scappando”.

“Morire lentamente”

Kholoud (nome di fantasia), di Khan Yunis, ha scoperto di aspettare un figlio il giorno del suo compleanno nell’aprile 2023.

“Avere una vita che cresce dentro di te, sapere che stai costruendo un futuro con il tuo compagno, è una sensazione straordinaria”, dice.

Ma solo pochi mesi dopo, quella sensazione è stata sostituita dalla paura mentre la guerra si intensificava. Con un figlio di 3 anni è uno in arrivo, “l’ansia ha preso completamente il sopravvento”. Si è sentita “come una pazza che non sapeva come comportarsi”.

Come molti altri a Gaza, Kholoud inizialmente pensava che il conflitto sarebbe stato un altro breve assalto, del tipo che di solito dura un mese. Ma quando i giorni sono diventati mesi, e ora più di un anno, “stiamo letteralmente vivendo un Genocidio”, dice.

Anche i primi giorni della guerra sembravano “una morte lenta”, dice Kholoud. Il 17 ottobre, ricorda: “Stavo facendo le valigie per evacuare e ho litigato con mio marito perché non volevo ancora lasciare casa. Stavo aspettando in macchina con mio figlio quando la nostra casa è stata colpita”, con suo marito ancora dentro. “Ricordo di essermi svegliata in ospedale con mio marito in piedi accanto a me, che mi rassicurava che nessuno era stato ferito”.

Due settimane dopo il loro trasferimento a casa dei suoceri nel campo profughi di Nuseirat, Kholoud stava preparando il pranzo per la sua famiglia. “Ricordo di essere rimasta sulla porta, chiamando mio marito perché portasse dentro nostro figlio”, racconta. All’improvviso, un pesante bombardamento ha preso di mira il quartiere. “È stato un Massacro”, racconta Kholoud. “Sono stata scaraventata in aria e sbattuta contro un muro dalla forza dell’esplosione”.

Quando si è svegliata in ospedale, i dottori le hanno detto che se l’era cavata con solo una lieve ferita alla testa. Ma il suo sollievo si è rapidamente trasformato in paura quando ha saputo che suo marito era in condizioni critiche al pronto soccorso. “Quel giorno tornai a casa, ignara di aver perso il bambino che portavo dentro di me e ignara della gravità delle condizioni di mio marito”.

Il giorno dopo Kholoud ha avuto una forte emorragia e un fastidio allo stomaco. “Sono corsa in ospedale, dove mi hanno informato che Ous, il mio bambino non ancora nato, era morto”.

Con suo marito ancora in ospedale, Kholoud dice di essere stata travolta dal dolore. “Tutto ciò che desideravo era che morissimo tutti insieme”, dice. “Io, mio ​​marito e Gaith, il mio primogenito, volevo che morissimo come una famiglia”.

Kholoud dice che suo marito alla fine si è ripreso ed è stato dimesso dall’ospedale. Ma ha scelto di non parlare della loro perdita: “Non gli andava giù che i suoi amici lo confortassero per la perdita del suo bambino non ancora nato”, con così tanto che era andato perduto dall’inizio della guerra.

Nonostante il loro dolore, Kholoud e suo marito hanno deciso di aiutare gli altri regalando i vestitini del bambino. Ma ci sono alcuni articoli da cui Kholoud si è rifiutata di separarsi. Tra questi ci sono i vestitini da bambino del marito che anche Gaith ha indossato. “Ous non può indossarli ora, ma il mio prossimo figlio sì”.

Alla domanda se ha intenzione di rimanere di nuovo incinta, Kholoud risponde: “La vita deve andare avanti; ci sono infinite possibilità.

“Non voglio che Gaith cresca da solo”, aggiunge. “Merita una sorella o un fratello”.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

19/10/2024 https://www.invictapalestina.org/

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